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venerdì 8 gennaio 2021

Zaha Hadid: un ritratto...



Voglio dedicare in pensiero a una donna che ho sempre amato e apprezzata. Giorni fa su un giornale ho rivisto l’immagine della scultura costruzione dinamica di Zaha Hadid, a Baku in Azerbaijan e mi sono ricordato di quanto scrivevo qualche anno fa… Estia ed Hermes, riassumono nei caratteri, l’energia femminile chiusa e conservatrice che custodisce il focolare domestico, Estia e l’energia maschile, Hermes, commerciante viaggiatore navigatore costruttore, sempre alla ricerca di nuove opportunità di conoscenza. Sta proprio nel limite, come affermava Margherita Yourcenar, il segreto di questo continuo confinare o coniugare immobilità con velocità suprema: conduce alla vertigine. Quello che mi piace della contemporaneità è questa idea di vertigine e contatto, legata all’energia di Estia ed Hermes che finalmente hanno deciso di collaborare e lavorare assieme. Per circa millenni separati, oggi l’uomo cura e accudisce il focolare domestico, la donna progetta e costruisce come nel caso di Zaha Hadid (Ferdinando Renzetti)  


Un approfondimento su Zaha Hadid, un ritratto dell’architetto anglo-irachena che aspira a considerare le numerose sfaccettature della sua personalità e le derive della sua arte.

Zaha Hadid è diventata uno degli architetti più importanti e famosi del mondo, fino a ricadere nella poco amata categoria delle archistar, anche se ha portato con sé la pratica di altri “mestieri” e la produzione di oggetti altri. Si ricordino i disegni fatti sin da ragazza, attività questa del disegnare che si protrae a livello professionale e artistico dopo la conclusione degli studi e in avanti: soprattutto quel lungo periodo di tempo in cui Zaha Hadid era nota per le sue non-realizzazioni, di fatto per essere un’architetto che non costruiva, un’architetto virtuale (“paper architect” è stata definita). Poi, dal momento in cui le sue opere hanno cominciato a essere concretizzate, costruite, visibili, si è avviata un’altra fase di architettura praticata a tutto campo, insieme con la produzione di sofisticati mobili e oggetti per la casa, che mostrano come dal design (in inglese, «concetto, schizzo, disegno della forma e struttura di un’opera d’arte o di un edificio») non si fosse che a un passo al Design avente l’attuale, comune accezione. Zaha Hadid “architetto totale”, o semplicemente architetto puro: dal greco archi-tèkton, con tekton, artefice, dal sanscrito taksh, costruire, fare, comporre, digrossare; insomma il “capo degli artefici”, o dei falegnami, o ancora dei fabbri, una figura che, «propriamente, non crea dal nulla; ess[a] forma soltanto, ossia dà una formauna veste»– quella, nuova, che Zaha Hadid ha cercato con caparbietà di dare alle relazioni e al mondo, modellando «un nuovo tipo di paesaggio che scorra all’unisono con le città contemporanee e le vite delle persone che le abitano». 

Zaha Hadid è nata nel 1950 a Baghdad in un Iraq in corsa verso il progresso. Il padre, economista e politico allineato con il partito democratico iracheno, la madre artista, la famiglia è di quelle con molti mezzi. Zaha infatti riceve una formazione del tutto simile a quella che veniva impartita alle ragazze bene del Medio Oriente, frequentando scuole internazionali in patria e proseguendo gli studi all’estero, prima in Svizzera, poi all’American University di Beirut dove studia matematica e infine in Gran Bretagna per il secondo ciclo di studi universitari. A quell’epoca (primi anni Settanta) l’intera famiglia Hadid ha ormai abbandonato l’Iraq: con l’avvento di Saddam si stabilisce in Libano, successivamente in Giordania, e lei va a Londra per studiare architettura, iscrivendosi alla Architectural Association School of Architecture, la struttura di formazione per architetti indipendente più antica del paese e fra le più prestigiose. Questo anche perché il padre vede in lei, che aveva sempre disegnato molto, un’inclinazione, sicuramente incrementata dal fatto che la casa paterna veniva molto frequentata da architetti e ingegneri e anche Zaha stessa si era identificata in questa figura fin dall’età di 11 anni.

Si narra che la giovane Hadid fosse abbastanza schiva di carattere, un personaggio molto diverso dall’immagine internazionale dell’architetto eccentrica e temibile dei decenni a venire. 

La successione di insuccessi che caratterizzano la prima metà della vita professionale di Zaha Hadid è diventata leggendaria, forse ormai fa parte dell’aura del personaggio, e può essere considerata a buon diritto uno stadio della metamorfosi. Nel frattempo, lei disegna, dipinge, fa mostre, e insegna. A quanto pare, le sue idee e la sua didattica erano molto apprezzate. 

Non si riscontrano nella sua architettura e pratica artistica elementi di derivazione strettamente orientale, probabilmente proprio perché la sua formazione avviene tutta all’interno dell’International Style, uno dei nomi del Modernismo in inglese. Zaha Hadid è figlia di una cultura moderna e internazionale a livello sia professionale sia privato. È visibile la transizione dalle guglie e cosiddetta “ruvidità” del suo stile iniziale di ispirazione suprematista che, giocando con la predilezione per la diagonale e i piani che si intersecano, si evolve in una compenetrazione di forme senza ideale soluzione di continuità, che fa pur sempre riferimento ai precursori della linea curva in architettura Eero Saarinen e Oscar Niemeyer. Un’altra caratteristica dell’architetto anglo-araba da non trascurare è stata la sperimentazione con i materiali, la predilezione per il cemento («for me concrete is the most plastic material», la fibra di vetro e il perspex nel design, accompagnati anche da oro o seta per i suoi gioielli o accessori prodotti con grandi case di moda.

Zaha abitava in un appartamento all’attico di un palazzo nuovo in Clerkenwell, descritto come tanto intimo quanto un salone di automobili, e praticamente quasi vuoto a parte qualche mobile (scomodo) firmato dalla padrona di casa. Eppure Zaha era una donna, di origini irachene e per di più islamiche, emigrata a Londra, da dove svolgeva la sua professione di architetto, che non si è mai fatta particolarmente scudo né delle origini né del genere sessuale, anche se non ha potuto fare a meno di ammettere, quando sollecitata, che certo non era facile operare “in the boys’ club”, e che probabilmente bisogna imparare a farsi meno scrupoli. Tuttavia raramente ha avuto un atteggiamento recriminatorio, dichiarando candidamente che se non ha avuto una famiglia e dei figli (perché a lei, donna architetto, ovviamente è stato chiesto…) la ragione è semplicemente che è andata così: come semplicemente accade a milioni persone, e non a causa del lavoro, o dell’ambiente, o della carriera. 

Zaha ha rivendicato che nel suo studio erano presenti molte donne in posizione dirigenziale, e che oggettivamente non si poteva dire di aver ancora raggiunto il 50% nella presenza maschile-femminile. La famosa architetto, che prediligeva vestire in Yohji Yamamoto e Issey Miyake, non aveva particolari pretese o smanie da star e conduceva una vita relativamente semplice – salvo inviare un assistente dalla Biennale di Venezia a Londra a recuperare un paio di scarpe che teneva ad indossare in un’occasione specifica. Costantemente attaccata e messa sotto processo mediatico per alcune delle commissioni accettate (Azerbaijan, Qatar, e così via) l’architetto anglo-irachena, ha spezzato tutti i luoghi comuni (culturali, tecnici, estetici), è stata la prima donna a venire insignita del Premio Pritzker per l’Architettura (2004), di due Premi Stirling (2010 e 2011) e della Royal Gold Medal del Royal Institute of British Architects (2015). Nel suo discorso di accettazione, molto concreto, ha dichiarato che… viviamo in un’epoca di rinnovata concentrazione urbana, con nuove sfide e occasioni che rendono il rinascimento urbano del XXI secolo molto diverso dal processo di espansione suburbana novecentesca. La differenza capitale sta nella nuova densità di interazioni e complessità della vita urbana. È necessario forzare edifici e programmi, e fare quasi in modo che si stringano in un amplesso, compenetrandosi. Per questo ci vogliono complessità e apertura spaziale. […] Ho fatto esperimenti con la curvatura libera con l’obbiettivo di articolare il dinamismo e la fluidità della vita contemporanea. […] Le mie opere hanno finito per essere molto diverse dalla maggior parte delle altre: sono diventate cospicue, facili da ricordare e da identificare come un mio marchio. Eppure l’architettura per me non è un mezzo di espressione personale: interpretarla in tal senso significa non comprenderla. Questo malinteso è spesso collegato con un atteggiamento sprezzante verso il mio lavoro, visto come autoindulgente o capriccioso. Invece io non ho mai avuto alcun dubbio che l’architettura debba contribuire al progresso della società e, in ultima istanza, al benessere collettivo e individuale. […] La progettazione urbana attuale deve far scorrere gli spazi liberamente. Per me l’analogia con il paesaggio è diventata molto importante come strategia per incrementare la permeabilità del suolo e la continuità della superficie, evitando l’immensità vuota dei grandi spazi modernisti. Mi ha dato l’ispirazione per impiegare il rilievo del suolo come un dispositivo di ordinamento morbido, più fluido e aperto della dissezione spaziale operata dai muri. Ho cominciato cercando di creare edifici che brillassero come gioielli solitari, ora invece aspiro a dar forma a connessioni, a modellare un nuovo tipo di paesaggio che scorra all’unisono con le città contemporanee e le vite delle persone che le abitano.

Proprio come rivendicato nel discorso, il centro Landscape Formation One «tenta di “derivare” spazialità fluide allo studio di formazioni naturale del paesaggio. […] Gli spazi si compenetrano; le differenze sono accennate, invece di essere definitive e rigide. 

Sembrerebbe che Zaha Hadid se ne sia andata in modo altrettanto spettacolare – inaspettato, sorprendente – così come ha vissuto e praticato la professione. Ci lascia un bel numero, nonostante gli incerti auspici dei primi passi nella professione, di opere ormai inconfondibili, dal nostro MAXXI all’Aquatics Centre di Londra. Una delle ultime realizzate in vita (perché molti progetti sono invece tuttora in corso di realizzazione) è una splendida farfalla bianca con le ali semichiuse, il discussissimo Centro culturale Heydar Aliyev di Baku, un nuovo oggetto alieno in mutazione verso forme e generi altri.

(Tratto da L’ultima metamorfosi storia di un architetto di Carla Scuro)



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