Presentazione



In movimento per ecologie, vivere insieme, economia sostenibile, bioregionalismo, esperienza del se' (personal development).

giovedì 28 dicembre 2017

Malattie in aumento.... La soluzione? Cibo biologico bioregionale



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Previsioni poco rassicuranti se si prosegue con questo sistema... 

Agli inizi del secolo scorso c'era 1 malato di cancro su 100, oggi ce n'è 1 su 3. (prof. Umberto Veronesi).

In base alle statistiche degli ultimi 50 anni il prof. Reiss fa delle previsioni per coloro che nascono dopo l’anno 2000:

-          il 40% delle persone saranno affette da diabete;
-          nel 2050, a tutti gli uomini sarà diagnosticato un tumore alla prostata;
-          nel 2060-70 a 65 anni molte persone non avranno più speranza di vita;
-          una donna su 4 avrà il tumore al seno;
-          nel 2020 la concentrazione di spermatozoi sarà diminuita e 1 coppia su 7 sarà obbligata 
            a ricorrere alla procreazione assistita;
-          nel 2050 ci sarà un bambino autistico su 3;
-          nel 2085 sarà azzerata la fertilità maschile.


La soluzione?

I benefici del  cibo biologico bioregionale

Uno studio condotto in 57 paesi su 286 aziende agricole biologiche  ha evidenziato un aumento della resa media del 65% dei prodotti bio rispetto a quelli convenzionali.
Le colture bio richiedono 1/10 di calorie da carburanti fossili rispetto a quelle convenzionali e assorbono il 25%  in meno di energia.
Secondo la Coldiretti gli alimenti di un pasto medio italiano percorrono 1900 km prima di arrivare sulle nostre tavole e spesso si consuma più energia di quanta se ne ricavata in termini di nutrimento.
Gli alimenti bio sono molto più ricchi di sostanze nutritive rispetto ai prodotti convenzionali, specialmente di ferro, magnesio, fosforo, vitamina C, polifenoli e antiossidanti.


Tra le varie componenti che entrano a far parte del vivere in sintonia con l’ambiente naturale e sociale secondo il bioregionalismo il rapporto uomo-animali è l’argomento a me più “congeniale”.

Sono veterinaria e mi occupo principalmente di allevamenti, allevamenti di animali tenuti per la produzione di alimenti di origine animale.

L’alimentazione, nell’ambito della RBI è sempre stato un argomento molto dibattuto e con opinioni diverse, come è giusto che sia: su questa Terra è impensabile che tutti abbiamo lo stesso sentire nei riguardi delle diverse componenti.

L'Italia è una terra di tradizioni contadine e di ricchezza di prodotti sia di origine vegetale che  animale: le eccellenze agricole sono fonte di guadagni, ancora, e di ricerca di sempre nuovi mercati, dato che, a causa della crisi economica e della concorrenza c’è la necessità di nuovi sbocchi commerciali. Siamo infatti, in questo settore in una situazione quasi di sovrapproduzione, almeno per quel che riguarda i prodotti tipici, dovuta alla necessità di ammortizzare i costi con un' incentivazione della spinta produttiva, tramite la meccanizzazione, la selezione di razze sempre più produttive, a scapito però di altri valori, come la robustezza, la resistenza alle malattie e la longevità degli animali.

Nel bioregionalismo si ricerca invece un legame del cibo con il territorio, si suppone che il cibo prodotto localmente e che non ha subito conservazione e trasporto sia più in sintonia con l’organismo che lo deve ricevere. Ovviamente c’è anche un aspetto “ecologico” in questo: i trasporti e la conservazione degli alimenti sono attività di per sé antiecologiche, comportano consumo o spreco di risorse combustibili fossili sia per il funzionamento degli autoveicoli che delle apparecchiature di refrigerazione.

Alla base del disequilibrio che secondo me si è creato nel settore dell’allevamento, soprattutto nelle zone a diffusione dell’allevamento intensivo come qui da noi, ci sono fattori economici: una volta, fino a 60 anni fa circa, un’azienda agricola era costituita da un appezzamento di terra su cui venivano coltivati diversi prodotti (e la rotazione delle colture era sempre applicata) e che allevava animali più che altro come integrazione dell’attività, come risorsa di concime e come integrazione all’alimentazione della famiglia o delle famiglie che vivevano nell’azienda.

Mangiare un po’ di carne solo una volta alla settimana o anche meno era una cosa normale, qualche uovo o frittata entrava anche questo nella dieta con parsimonia e solo nel periodo di deposizione naturale delle uova da parte delle galline. Spesso era presente nella azienda anche un porcile con uno o pochi maiali che venivano macellati in pieno inverno per farne salumi da consumare nel resto dell’anno.

Poi la carne diventò uno status symbol: mangiare carne era segno di ricchezza o perlomeno di essere benestanti, e quindi, con la ripresa economica del dopo-guerra aumentò la richiesta di cibi di origine animale, in primis della carne. I piccoli allevamenti annessi alle aziende agricole non furono più sufficienti a soddisfare le richieste e questo fece intravedere la possibilità di guadagni insperati e allora dai con gli allevamenti costituiti da un numero sempre maggiore di capi, sempre più meccanizzati, sempre più disumani, con animali selezionati a produrre sempre di più fino ad arrivare ad esempio a polli sempre più pesanti tanto che gli arti non riescono a sostenere il corpo o vacche sempre più produttive in latte tanto che dopo due parti sono già distrutte o per un verso o per l’altro (mastiti, ipofecondità, lesioni podali), tanto che sono da scartare, quando non muoiono o devono essere macellate in stalla.

Il sistema poi implode su se stesso in quanto la speranza di maggiori guadagni, ha fatto moltiplicare queste realtà con un aumento della produzione che per un po’ è stata in equilibrio con i consumi, e, seguendo le leggi del mercato, queste attività hanno consentito lauti guadagni, ma la concorrenza poi ha avuto il sopravvento e i ricavi dalla produzione hanno continuato a mantenersi sugli stessi livelli, mentre i costi tutti i fattori di produzione aumentavano (mangimi, manodopera), lasciando ai produttori margini sempre più risicati.

Caso tipico in cui al peggioramento della qualità della vita degli animali, sempre più sfruttati, ha corrisposto un peggioramento della qualità della vita dell’allevatore, costretto a lavorare sempre di più e sempre con minori soddisfazioni.

Nella RBI si è molto parlato di regime alimentare, alcuni esponenti vegetariani o vegani per motivi etici si battono per un abbandono totale e immediato del consumo di alimenti di origine animale, altri ritengono che un consumo moderato di prodotti di animali allevati rispettando il loro benessere sia possibile e auspicabile.

Personalmente non ritengo ci sia un modus che debba andare bene per tutti, ma sicuramente ritengo che dobbiamo tutti prendere coscienza che l’allevamento intensivo non è etico ed è antiecologico: in un mondo dove miliardi di persone muoiono di fame, continuare ad allevare animali consumando risorse che potrebbero nutrire direttamente il genere umano, non è più possibile; inoltre la sofferenza ingenerata in questi esseri viventi che hanno avuta la fortuna- sfortuna (destino) di vivere la loro esistenza su questa Terra assieme a noi non può più essere ignorata: non possiamo più ignorare di esserne responsabili, anche indirettamente, così come non possiamo più ignorare di essere, come specie, responsabili, della rovina in cui stiamo mandando il nostro pianeta con tutte le nostre attività, non mi riferisco ovviamente solo all’alimentazione, ma a tutti i settori del nostro vivere.


Prendere coscienza delle conseguenze del nostro modo di vivere è il primo passo per poter dare alla Terra una speranza di sopravvivenza a lungo termine cercando di fare in modo per quelle che sono le possibilità di ognuno di noi, di lasciare ai nostri figli e nipoti un mondo meno inquinato e più in armonia di quello di oggi. Ritornare ad un sistema di vita semplice, in cui i rapporti umani e la vita nella natura, immersi nel mondo umano, animale e vegetale, ci può dare tutto quello di cui abbiamo bisogno senza necessità di consumi superflui e sprechi che comportino un ulteriore deterioramento di quel paradiso che ci era stato donato e che noi, esseri umani, abbiamo rovinato per il nostro sconfinato egoismo.

Caterina Regazzi 

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Referente Rapporto Uomo Animali della Rete Bioregionale Italiana

mercoledì 27 dicembre 2017

Il "copia-incolla" come PSICO DINAMISMO DEL RIFLESSO COGNITIVO ETNICO



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Come un uccello in volo che compone il suo nido con fili di plastica colorati mischiati a fili di erba secca e fango...


Ho letto su televideo che in Svezia e’ stato formalmente riconosciuto come forma di comunicazione il ‘copismo’ una tecnica fondata sulla base del copia-incolla ideata da uno studente di filosofia. Il nuovo metodo considera essenziali i
simboli ctrl+c e ctrl+v, i comandi che permettono appunto di copiare i files informatici. 


Il principio fondante e’ che l'informazione e’ sacra e copiarla e’ un sacramento. La missione e’ condividere il sapere con il ‘copia e semina’. 

Ho copia-incollato in una contrada della periferia urbana un muro di una vecchia abitazione realizzato con mattoni in terra cruda circondato da altri materiali della contemporaneità come blocchi di cemento asfalto cartelli stradali. Sulla
strada di campagna una pannocchia di mais dal fascino incredibile con le sue frusce, appesa a un ramo di mandorlo, sullo sfondo la terra dove e’ stata coltivata. nella periferia a un balconcino di una casa qualcuno su una griglia di ferro filato ha appeso un insieme di oggetti tra i più svariati. 


Il paesaggio di un paese sul fondo nel portale di cemento armato i ferri e le plastiche. Il frutto del pesco giapponese seccato al sole e le olive selvatiche del Gargano sulla scrivania. Il numero 69 tratto da un giornale trovato in un
cassonetto della spazzatura. Freud e la particella di dio da un quotidiano, forma di riciclo di notizie e informazioni. un copia-incolla fatto spesso letteralmente con forbici e colla. 


Ecco nella composizione di questo ideale nido oltre che televideo ci sono i giornali di qualsiasi tipo spesso trovati, fumetti, foglietti volanti trovati casualmente o lasciati da qualcuno anche sui tavolini dei bar, i muri della città con
manifesti graffiti e quanto altro, la copertina di un disco dove ho preso il testo della storia all'incontrario metafora della nostra società dove tutto e’ fatto all'incontrario e dove tutte le persone fanno cose per cui non sono predisposte. 


Una bibliografia veramente varia con google wikiepedia you tube dove spesso trovano spazio persino i messaggi sotto forma di sms o messenger come forma di scrittura poetica collettiva. Un patchwork visivo e inform-attivo alla ricerca di corrispondenze tra tradizione e modernità, come quello di un
uccello in volo con il becco pieno di colorati fili di plastica erba secca paglia e terra bagnata.


Ferdinando Renzetti

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martedì 26 dicembre 2017

La sacralità del ventre femminile


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Per molte donne la pancia è una zona chiusa che va nascosta ed appiattita.  Anche la cultura moderna ha convinto le donne che la pancia deve essere piatta come quella maschile.
E spesso nell'area che si trova sotto l'ombelico ristagnano le energie represse; paure, rancori, emozioni negative escono allo scoperto quando lavoriamo con questa parte della pancia.
La pancia è il simbolo della Vita, ognuno di noi ha iniziato la sua vita nella pancia materna. Ma per una donna la pancia è anche un "luogo di potere", la fonte della sua energia, il punto dove sorge la vita. Energeticamente la donna rappresenta un "vaso" che raccoglie l'energia dalla Terra. Dopo, questa energia nutre tutto il corpo della donna rendendola attraente e forte.
Quando l'energia nella pancia scorre liberamente, la donna diventa femminile, morbida, graziosa, sicura di se, piena di vita, connessa con la natura e con gli elementi dai quali riceve ulteriore forza, non ha problemi di fertilità e partorisce senza dolori né complicazioni.
Eppure, l'80% circa delle donne hanno un blocco energetico nella zona dell'inguine. Alle ragazze si insegna di tenere la pancia tesa, renderla piatta... questo blocca lo scorrimento delle energie che non arrivano ai centri energetici superiori, e inoltra, genera:
- l'incapacità di rilassarsi;
- la respirazione superficiale;
- i problemi ginecologici;
- le mestruazioni dolorose;
- l'accumulo delle paure e delle ansie;
- la non accettazione della propria natura;
- la riproduzione delle qualità maschili;
- l'assenza della flessibilità...
Le cause dei blocchi nell'area della pancia.
La causa principale è il rapporto con la madre; è da lei, tramite il cordone ombelicale, che abbiamo ricevuto sia le emozioni sia le informazioni sul mondo. Una donna che vive la gravidanza con le paure e non si sente pronta, trasmette al feto l'incapacità di gioire, la non accettazione del suo essere. Molte donne si sentono "compresse" già da bambine. E, al contrario, una gravidanza felice e tranquilla garantisce la nascita di un bambino già rilassato e sicuro di se.
La madre è quella persona dalla quale occorre iniziare il processo dell'accettazione.
Accendete una musica tranquilla, immaginatevi nel grembo della madre, ascoltate il suo cuore, ed è lil suono che vi fa molto piacere. Immaginate come la vostra madre sia contenta di aspettarvi, anche se in realtà non lo fosse. Meditate sul profondo legame dei vostri corpi attraverso il cordone, respirate un sintonia. La madre vi ama e protegge, nutre la vostra viva. La mamma...
...probabilmente, avrete voglia di piangere, ma è un bene, così se ne andranno le paure e rinascerà l'intimità.
Questo esercizio va fatto fino alla completa accettazione del fatto di essere parte della carne della vostra madre.
Un'altra causa dei blocchi inguinali sono le esperienze sessuali negative, dolorose. Si può descrivere questa esperienza sulla carta finché avrete di che scrivere, dopo di che bruciate il foglio visualizzando un altro tipo di rapporto, rilassante.
La terza causa dei blocchi sono le paure e i drammi emotivi, le perdite dei famigliari, l'ira trattenuta a lungo, i conflitti, le delusioni, gli stress ecc.
Cosa non si dovrebbe fare:
- i piercing bloccano l'energia nei centri energetici inferiori, così anche i chakra superiori ne restano senza;
- portate i vestiti che lasciato scoperta la zona dell'inguine, con il rischio di esaurire presto l'energia femminile;
- portare i vestiti/pantaloni/gonne stretti che fanno circolare l'energia sul modello del corpo maschile (si formano le qualità di carattere maschili). Per questo le donne di molti popoli storicamente preferivano le gonne e i vestiti larghi, a cupola (che crea da se un'onda di forma).
Olga Fedoseeva

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lunedì 25 dicembre 2017

Israele - Cristiani in via di estinzione


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I cristiani della Terra Santa, divisi fra Israele e Palestina, stanno scomparendo. Nell’ultimo secolo, il lento e graduale processo di fuoriuscita dai territori palestinesi e israeliani è andato crescendo, ed oggi si rischia la scomparsa dei fedeli della seconda religione più antica di quelle terre. Sembra paradossale, ma purtroppo è un dato di fatto che nella culla del cristianesimo, i cristiani siano sempre di meno. Secondo gli ultimi dati, fra territori palestinesi e Israele, il numero totale dei cristiani si aggira intorno alle 170mila anime. Di queste 170mila persone, 120mila vivono in Israele, mentre gli altri 50mila vivono divisi fra Gerusalemme Est, Gaza e Cisgiordania. I dati, forniti dal pastore luterano Mitri Raheb, fondatore e presidente dell’Università “Dar al-Kalima” di Betlemme, fanno parte di uno studio pubblicato dal sito Christian Media Centre e condotto proprio dalla stessa università Dar al-Kalima, dal titolo “Emigrazione cristiana dalla Terra Santa, ragioni e numeri”. Un popolo diviso come sono divisi i luoghi sacri, sperati da confini e muri che costringono molti cittadini di fede cristiana a dover chiedere permessi speciali per recarsi in pellegrinaggio o a pregare nei posti del Vangelo e nelle chiese più antiche di quella terra.
I numeri della diaspora cristiana sono molto seri. Nel 1850, i cristiani di Palestina, intesa come regione storica, erano più dell’11 per cento della popolazione locale. Oggi, i cristiani sono circa l’1.7 per cento degli abitanti. Un crollo vertiginoso che ha radici economiche, sociali, politiche e religiose e che ormai caratterizza sia il presente che il futuro del cristianesimo della Terra Santa. A questo crollo delle presenze, si aggiunge, infatti, anche quello già prevedibile nel futuro: un quarto degli intervistati ha dichiarato di considerare la possibilità di lasciare il proprio Paese nei prossimi 10 anni. In particolare, il problema lo vivono i cristiani palestinesi, che condividono con gli abitanti dei territori di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est, tutti i problemi economici e politici legati alla difficile situazione di quelle aree. Tra i mille individui intervistati, 500 cristiani e 500 musulmani, in pochissimi hanno inserito la discriminazione religiosa come problema per cui i cristiani potrebbero cambiare Paese. Quasi tutti considerano la mancanza di case e di lavoro come vero e proprio ostacolo alla loro permanenza in quelle terre. Mentre in Israele, dove le condizioni di vita e di lavoro sono nettamente migliori, molti denunciano il sentirsi dei cittadini di seconda classe, non riconoscendosi in uno Stato che fa dell’ebraismo il pilastro della propria esistenza.
Nella grave situazione che vive la Terra Santa, divisa fra Israele e Palestina, i cristiani ora sono la minoranza più debole. Per il reverendo Raheb, nato 55 anni fa a Betlemme, “la nostra semplice esistenza come cristiani è un inconveniente che rende impossibile etichettare il conflitto come guerra religiosa tra ebrei e musulmani. Non è un problema religioso, è un conflitto su terra e risorse”. Un messaggio che deve far riflettere tutti quelli che vogliono assegnare facili definizioni alle parti contendenti. I cristiani palestinesi oggi sono una minoranza oppressa al pari dei cristiani di altri Paesi. Con l’unica differenza che vivono in una condizione del tutto peculiare per cui non sono mai considerati dalle cronache della regione, neanche come vittime. Esistono anche comunità cristiane che si stanno mobilitando per costruire villaggi per sfuggire a questa logica. Sono in particolare i cristiani aramei, che nel nord della Galilea, sotto la guida di Shadi Jalul, difendono la loro alterità rispetto agli arabi e difendono la loro appartenenza allo Stato di Israele. Idee del tutto diverse rispetto a coloro che vivono nei territori occupati e che dimostrano come questo conflitto divida anche una comunità così piccola e a rischio come quella cristiana.L’unità d’intenti dei leader cristiani di Palestina nei confronti della scelta di Trump su Gerusalemme, ha evidenziato come siano ormai tutti consapevoli che in questa disputa sulla città santa, i cristiani, pur come minoranza, possono essere un fattore di stabilità. La loro terzietà rispetto a ebrei e musulmani, ma anche la loro tradizionale presenza in quel territorio, sono fattori che giocano a favore dell’importanza dei credenti delle varie confessioni cristiane, E non è un caso che tutti i cristiani del mondo, ad eccezione degli evangelici più affini tradizionalmente all’ebraismo (e grandi sostenitori di Donald Trump in campagna elettorale), si siano uniti per appellarsi al presidente Usa. In gioco non c’è solo il futuro di Gerusalemme come capitale, ma quello di Gerusalemme come città santa anche dei cristiani. E che, come hanno detto i capi cristiani, deve essere “città di tutti”.
Lorenzo Vita
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sabato 23 dicembre 2017

Il Natale di un buon cavallo pazzo...

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Non è un caso se l'uomo che fu in grado di smascherare tutte le fasullità e le ipocrisie della cultura occidentale, che ci ha insegnato a ridere di noi stessi e di ogni verità oggettiva e universale, fino ad uccidere Dio, decretando la fine di ogni morale certa (soprattutto quella cristiana)... fu il medesimo che finì per ballare nudo in casa di ospiti, urlare a squarciagola per la strada apostrofando i passanti, gettare le braccia al collo ad un cavallo perché maltrattato dal carrettiere.
Non è un caso se l'uomo che volle ergersi come superuomo tra gli uomini, che concepì la sete di verità al pari degli istinti biologici, a tal punto da violare profondità inaccessibili dell'animo umano e scovando segreti che i più non potrebbero sopportare... fu lo stesso che finì rinchiuso in un manicomio e che voleva farsi chiamare Dioniso, Guglielmo III, il Cristo. Lo stesso che in quel manicomio scambiò il proprio medico nel cancelliere Bismark, chiedendogli di eseguire le proprie orride composizioni musicali, mentre si cospargeva il corpo di escrementi e beveva la propria urina da uno stivale.
Come se bisognasse diventare folli (perché pazzo lo era davvero per una sifilide trascurata da anni), per raggiungere le vette più alte del pensiero, e abbandonare i limiti imposti dall'intelletto per poter scorgere con lucidità la miseria - e la bellezza - della condizione umana. Come se solo abbandonando arditamente la ragione, si potesse squarciare la "realtà", discostare il Velo di Maya (come lo chiamano alcuni), e da quella feritoia poterne intravedere tesori d'inestimabile valore. Ma a caro prezzo. Come chi, non resistendo alla propria morbosa curiosità, ha voluto vedere in faccia la tremenda irresistibile Medusa.
Quell'uomo, emarginato, totalmente solo, megalomane, rivoluzionario, dissacratore, estremamente cagionevole e instabile mentalmente... quel misero uomo "dinamite", si chiamava Friedrich Wilhelm Nietzsche.

Stefano Andreoli

mercoledì 20 dicembre 2017

Kenan Malik: Il multiculturalismo e i suoi critici – Recensione di Marinella Correggia


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Kenan Malik, Il multiculturalismo e i suoi critici. Ripensare la diversità dopo l’11 settembre, edizioni Nessun dogma, Roma 2016, pag. 94, 10 euro

Studioso britannico di origine indiana, Malik motiva in questo breve, utile saggio la propria critica sia agli avversari del multiculturalismo (solo 20 anni fa universalmente visto come la soluzione ai tanti problemi dell’Europa sociale, e ora invece sempre più accusato – con venature razziste – di minare la civiltà occidentale), sia al…multiculturalismo stesso: «Io lo critico proprio perché sono a favore dell’immigrazione, contrasto l’odio che monta verso i musulmani e accetto la diversità».

Sembra una contraddizione, adesso che «sotto i colpi della destra razzista è caduta la lunga tradizione di critici progressisti e di sinistra al multiculturalismo come processo politico che ha l’obiettivo di gestire l’esperienza vissuta della diversità culturale». Eppure, «la sfida al multiculturalismo e quella ai suoi nemici di destra sono inseparabili», perché il processo politico multiculturale tende a «inserire le persone in contenitori etnici e culturali» (la comunità bengalese, la comunità sikh, la comunità musulmana…). Un argomento «per sorvegliare i confini fisici, culturali e immaginativi anziché aprire le menti e i confini» come fanno invece la diversità e le migrazioni di massa.

La maggior parte dei multi-culturalisti ritiene che le persone dovrebbero essere trattate non in maniera uguale malgrado le differenze ma in maniera differenziata proprio per via di queste ultime. Così va a quel paese l’antico concetto di uguaglianza, fondato sull’idea illuminista di universalismo. 

«Al posto dei diritti universali arrivano quelli differenziati». E c’è uno «slittamento dall’idea che gli esseri umani siano portatori di cultura a quella che debbano farsi portatori di una determinata cultura». Questo approccio nega le differenze individuali dentro le comunità di minoranza. Si cade – il colmo dei paradossi – in un discorso di differenza razziale, di «cultura definita dalla discendenza biologica». Un modo garbato di fare del razzismo «scientifico»; un invito a pensare alle culture umane in termini di immutabilità.

Il saggio è denso di esempi pratici (una donna musulmana che rifiuta la sharia, dimostra che non si vuole integrare? Un afrocaraibico a Birmingham deve per forza aderire alle chiese dei neri? Un bengalese che non sente l’orgoglio islamico, è fuori? Un ebreo che non si sente parte dell’ebraismo, è incapace di vivere bene? Insomma i tuoi antenati definiscono ciò che tu devi fare e pensare?) e storici (le passate generazioni di migranti in Occidente erano preoccupate non per il desiderio di essere trattate in maniera differente, ma perché erano trattate in maniera differente!).

Molto interessanti, e non note, le vicende storiche delle politiche multiculturaliste di cui l’élite politica si è servita in Germania (dove invece di garantire cittadinanza e inclusione, agli immigrati fu «permesso» di conservare cultura, lingua e stile di vita, creando «comunità parallele») e nel Regno unito, con gli individui provenienti dalle comunità di minoranza classificati non come cittadini ma come membri di gruppi etnici. In entrambi i casi si sono create società frammentate, fomentando rifiuto e razzismo da parte degli autoctoni e ostilità e alienazione da parte delle «comunità», avverse anche le une alle altre, in una sorta di «monoculturalismo plurale» (Amartya Sen).

Forse il disastro più grave del multiculturalismo è stato quello di far promuovere a rappresentanti autentici delle comunità le figure più conservatrici e fanatiche; marginalizzando le altre. Emblematica la vicenda delle vignette danesi su Maometto (2005), che andò in modo molto diverso da quanto raccontato. Furono necessarie la tigna maligna di certi giornalisti che sobillarono imam pro-Bin Laden, e la follia dell’Arabia saudita – che arrivò a boicottare le merci della Danimarca – per passare dall’indifferenza (da parte degli stessi cittadini musulmani) a una reazione a valanga mondiale e mortale . Le vignette furono uno strumento usato dall’estremismo.

E i versetti satanici di Salman Rushdie? Andò allo stesso modo, sempre con lo zampone dei Saud che indusse per contrasto l’Iran a emettere la fatwa.. Con lo stesso risultato: l’identificazione dei musulmani con i fondamentalisti.

Ecco così che alla fine «il bersaglio principale del multiculturalismo diventano gli stessi immigrati», percepiti come una minaccia anziché come una ricchezza. E «l’illuminismo diventa un’arma nello scontro di civiltà, anziché di progresso sul fronte dei diritti civili e della giustizia sociale»; diventa «tanto un criterio di attaccamento tribale, quanto di politiche progressiste». Si sfocia nel contro-illuminismo.

Nessun Dogma è la casa editrice dell’Unione degli atei agnostici razionalisti (Uaar).


Marinella Correggia

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Castelli Romani - Iniziative culturali natalizie Controluce


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Da giovedì 21 a sabato 23 dicembre 2017 (dalle 10 alle 19:30)
presso la Sala consiliare (Tinello Borghese) di Monte Compatri
L'Associazione Photo Club Controluce e il Comune di Monte Compatri presentano

21-23 dicembre ore 10-13 / 16-20
Mostra di antiche foto dei Castelli romani
messe a disposizione da Aurelio Felici
Presentazione della Mostra il 21 dicembre alle ore 17

22 dicembre ore 18: Presentazione del libro
Racconti inediti in dialetto monticiano

di Tarquinio Minotti
contenente:
Il dialetto di Monte Compatri
di Maurizio Dardano
Saranno presenti gli autori

22 dicembre ore 18: Presentazione del libro
Il dialetto monticiano nella poesia di Tarquinio Minotti

di Elena Campolongo
Sarà presente l’autrice

23 dicembre ore 18: Presentazione del libro
È tutto qui

di Sabrina Falcone
Sarà presente l’autrice
Nei giorni della mostra:
Esposizione delle Edizioni Controluce
Saranno proposte le opere più significative del catalogo

Ingresso libero

Info: redazione@controluce.it - 3392437079 - 3381490935

martedì 19 dicembre 2017

Yule, la festa del sole...


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Nelle tradizioni germanica e celtica precristiana, Yule era la festa del
solstizio d inverno. Nel paganesimo e nel neopaganesimo, soprattutto in quello
germanico, rappresenta uno degli otto giorni solari, o sabbat ; viene celebrata
intorno al 21 dicembre.
L'etimologia della parola "Yule" (Jól) non è chiara. È diffusa l'idea che derivi
dal norreno Hjól ("ruota"), con riferimento al fatto che, nel solstizio
d'inverno, la "ruota dell'anno si trova al suo estremo inferiore e inizia a
risalire". I linguisti suggeriscono invece che Jól sia stata ereditata dalle
lingue germaniche da un substrato linguistico pre-indoeuropeo.
Nella Wicca Yule è una delle feste minori degli otto Sabbat
e viene festeggiata il 21 dicembre. In alcune tradizioni si commemora la morte
dello Holly King ("Re Agrifoglio") che simboleggia l'anno vecchio ed il sole al
declino, per mano del suo successore, Oak King ("Re Quercia"), che simboleggia
l'anno nuovo ed il sole che inizia la sua ascesa. In altre

tradizioni si celebra la nascita del nuovo dio sole bambino, (vedi anche
l'antica festività Romana del sol invictus).
Il rituale tradizionale è una veglia celebrata dal tramonto all'alba successiva
(la notte più lunga dell'anno) per assicurarsi che il sole sorga nuovamente.
Fra i sabbat neopagani, Yule è preceduto da Samhain e seguito da Imbolc.
Mentre l'anno volge al termine, le notti si allungano e le ore di luce sono
sempre più brevi, fino al giorno del Solstizio invernale, il 21 dicembre. II
respiro della natura è sospeso, nell'attesa di una trasformazione, e il tempo
stesso pare fermarsi. E' uno dei momenti di passaggio dell'anno, forse il piu’
drammatico e paradossale: l'oscuritá regna sovrana, ma nel momento del suo
trionfo cede alla luce che, lentamente, inizia a prevalere sulle brume
invernali.
Dopo il Solstizio, la notte più lunga dell'anno, le giornate ricominciano poco
alla volta ad allungarsi.
Come tutti i momenti di passaggio, Yule è un periodo carico di valenze
simboliche e magiche, dominato da miti e simboli provenienti da un passato
lontanissimo.
Il Natale e' la versione cristiana della rinascita del sole, fissato secondo la
tradizione al 25 dicembre dal papa Giulio I (337 -352) per il duplice scopo di
celebrare Gesö Cristo come "Sole di giustizia" e creare una celebrazione
alternativa alla piu popolare festa pagana.
Le genti dell'antichitá, che si consideravano parte del grande cerchio della
vita, ritenevano che ogni loro azione, anche la piu piccola, potesse
influenzare i grandi cicli del cosmo. Così si celebravano riti per assicurare
la rigenerazione del sole e si accendevano falo’ per sostenerne la forza e per
incoraggiarne, tramite la cosiddetta "magia simpatica" la rinascita e la
ripresa della sua marcia trionfale.
La natura in questo tempo si riposa per prepararsi a vivere
piu piccola, potesse influenzare i grandi cicli del cosmo. Così
si celebravano riti per assicurare la rigenerazione del sole e si accendevano
falo’ per sostenerne la forza e per incoraggiarne, tramite la cosiddetta "magia
simpatica" la rinascita e la ripresa della sua marcia trionfale.
La natura in questo tempo si riposa per prepararsi a vivere un nuovo ciclo e
anche per noi sarebbe fisicamente opportuna una pausa, per dedicarci alla
lettura, alla meditazione, a esercizi di rilassamento.
se ricordiamo che questo tempo è quello in cui siamo piu lontani dal sole e
contemporaneamente anche consapevoli della sua rinascita, possiamo provare a
trattenere questa piccola luce in noi. Il Solstizio può essere per noi un
momento molto calmo e importante, in cui nella silenziosa e oscura profonditá
del nostro essere, noi contattiamo la scintilla del nuovo sole. Questa è anche
una opportunitá per gioire e abbandonarci a sentimenti di ottimismo e di
speranza: come il sole risorge, anche noi possiamo uscire dalle tenebre
invernali rigenerati.
Ci sono tanti modi per celebrare a livello spirituale questa festa: alzarci
all'alba e salutare il nuovo sole.
e meditiamo sulla rinascita della luce e sulla nostra rinascita interiore.
Accogliamo le nostre speranze, i nostri sogni per il futuro e salutiamo questa
luce dicendo: "Benvenuta, luce del nuovo sole!".


(Ricevuto da Ferdinando Renzetti)

lunedì 18 dicembre 2017

I popoli nativi contribuiscono a difendere l'ambiente

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Con  la loro gestione delle foreste e di ambienti incontaminati,  i popoli indigeni sono i guardiani di circa un quinto degli stock mondiali di carbonio, in forma di foreste tropicali.  Ben 168 miliardi di tonnellate di carbonio sono protetti nei territori indigeni - tre volte le emissioni annuali del pianeta. Un patrimonio che rischia di essere vanificato - e disperso nell’atmosfera -  se le strutture sociali dei popoli che se ne occupano non saranno protette e rafforzate.

“Il rispetto e il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni, il possesso dei loro territori e le conoscenze tradizionali hanno contribuito a una gestione sostenibile di grandi ecosistemi e paesaggi", ha detto Grazia Balawag, del partenariato dei popoli indigeni sui cambiamenti climatici, le foreste e lo sviluppo sostenibile. Lo studio è stato presentato da un'alleanza di associazioni dei popoli indigeni provenienti da Africa, Asia e America Latina.

La copertura forestale è essenziale per assorbire e trattenere l’anidride carbonica (CO2), il potente gas serra che minaccia il clima globale. Proteggere e ampliare le foreste aiuta a eliminare la CO2 dall’atmosfera, e ad arginare il riscaldamento globale. "Il mondo non ha mai visto una prova così evidente del ruolo delle popolazioni autoctone nella conservazione delle foreste,  che rappresentano la sola soluzione al cambiamento climatico esistente", ha aggiunto Abdon Nababan, che dirige l’ Alleanza  delle popolazioni indigene dell’Arcipelago indonesiano. Eppure i popoli indigeni faticano a vedere riconosciuto il loro ruolo nella protezione del clima, e sono esclusi dalla partecipazione ai negoziati.




(Fonte: http://www.salvaleforeste.it/index.php?option=com_content&view=article&id=4111&Itemid=999)

giovedì 14 dicembre 2017

Il Popolo Elfico della Valle dei Burroni scrive alle Istituzioni

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La Valle degli Elfi, come forse già sapete, sta attraversando un periodo di grande messa alla prova, e con forza e unione sta richiarendo la visione della direzione da intraprendere come Popolo Unito, con il suo passato e le sue conquiste.
Vuole essere un modello e un ispirazione per tutti, dimostrando che una nuova visione del mondo e delle relazioni è possibile, e che se si cerca bene si può trovare un posto in un mondo che ha dimenticato i valori di libertà,  autonomia, creatività,  autoproduzione, ecc. Ricordando che la Terra è un Bene Comune e che non essendo nostra non ha senso venderla, parcellizzarla, farci speculazione di ogni genere.  La Terra non appartiene all'uomo, è l'uomo che appartiene alla Terra, ogni cosa è correlata come il sangue che ci unisce.
Anche la Valle degli Elfi è un Bene Comune e va protetto

Giulietta Blu

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Lettera Aperta alle Istituzioni

 Al Sindaco di Sambuca Pistoiese
                                                          Avv. Fabio Micheletti
All’Unione Comuni,
                                    Avv. Fabio Micheletti, Benesperi e Baldassarri
All’ente Terre toscane
                                    Del Re, Bertelli e Ciucchi
Al gruppo tecnici
                              Chiti, Matteoni e Bernardi

Noi, membri dell’associazione, “Il popolo elfico della Valle dei Burroni”, a suo tempo abbiamo dato l’incarico ai tecnici Franco Matteoni, Alessandro Chiti e Daniela Bernardi per assisterci nell'iter  di sanatoria richiestoci dal comune di Sambuca Pistoiese atto ad accertare la conformità urbanistica dei lavori di recupero e in certi casi di modifica operati dagli abitanti dei Casali nel territorio di Case Sarti, avute in concessione dall’allora Comunità Montana per conto della Regione Toscana

I lavori in questione rispondono in ogni caso a esigenze basiche e vitali per permettere la sopravvivenza e il sostentamento degli abitanti stessi.

Facciamo presente che i Casali erano fatiscenti taluni completamente deruti e noi li abbiamo rimessi a posto col nostro lavoro di autorecupero completamente a spese nostre.  

Oggi il valore del patrimonio regionale si è decuplicato.

Dalle istituzioni qualificate ci viene richiesto di modificare nuovamente le strutture: abbattimento di tettoie destinate al ricovero della legna, altre parti accessorie per la raccolta dell' acqua, la costruzione del bagno all'interno di case, già fin troppo piccole per il nucleo che vi abita, piuttosto che annettere il bagno esternamente . Soddisfare queste richieste ed attuare queste modifiche piu' che rendere conformità urbanistica agli edifici, costringerebbe gli abitanti a doverli abbandonare.

Pertanto chiediamo di aprire un nuovo tavolo di trattativa che venga incontro anche alle nostre esigenze, tenendo conto delle regole e dei principi che ci siamo dati sull’uso collettivo del territorio, definite nello “Statuto del territorio” e nel “Progetto abitativo degli Elfi” da noi presentato in Comune e Comunità Montana

Nel presentare questi documenti, redatti di comune accordo con i funzionari dell'allora Comunità Montana, noi abbiamo fatto un atto consapevole di autodenuncia nella fiducia di poter trovare un accordo sensato con il comune. 

Ribadiamo altresì che “La Valle” è da noi considerata un Bene Comune ed è nostra volontà andare avanti come Comunità, popolo unito, sostenendo la validità dell’Associazione come solo ed unico referente per qualsiasi concessione, non accettando la parcellizzazione del territorio stesso.

Facciamo inoltre presente che la nostra comunità, fa parte anche della Rive (Rete Italiana villaggi ecologici) e del Gen (Global Ecovillage Network), conduce una vita di ricerca e sperimentazione nel campo sociale tenendo aperte le porte all’ospitalità, dando accoglienza e possibilità di convivenza con noi a migliaia di persone che ci vengono a trovare ogni anno. 
Vogliamo in oltre sottolineare l’utilità ambientale della nostra presenza, come custodi del territorio in maniera ecosostenibile , sperimentando coltivazioni come la permacultura, agricoltura biodinamica e sinergica. Se noi non avessimo abitato e reso vive queste montagne con la nostra presenza, e dei nostri numerosi figli, queste terre sarebbero in stato di abbandono, popolate solo da rovi e animali selvatici, (anche i paesini circostanti hanno tratto qualche beneficio della nostra presenza, ad esempio la scuola di Treppio sarebbe stata chiusa già molti anni fa senza la presenza dei nostri figli).

Cordiali saluti

Il Popolo Elfico


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