Presentazione



In movimento per ecologie, vivere insieme, economia sostenibile, bioregionalismo, esperienza del se' (personal development).

venerdì 30 dicembre 2016

Grottammare - “Più che l’amore” di Gabriele D’Annunzio - Recensione


Risultati immagini per grottammare OFFICINA TEATRALE 2016/17  Vincenzo Di Bonaventura

OFFICINA TEATRALE 2016/17
 Vincenzo Di Bonaventura
Di MARTE-Dì

“Più che l’amore”
di Gabriele D’Annunzio
con
Vincenzo Di Bonaventura e Pamela Olivieri

Associazione Culturale Blow Up
DEP ART  Piazzale Stazione FF SS  -  Grottammare  -  27 dicembre 2016   h21.15


Divano & Divano

         Non è solo, stasera, il nostro Vincenzo attore-solista. Pamela bravissima e giovane lo affianca con l’intensità tormentata della sua Maria Vesta, costringe oggi il mattatore - e la prorompente visionaria anarchia del suo essere oltre il teatro - nel quadrato di una lotta di anime che è “cruda come la caccia grossa” e come quella non ha vincitori.  

Le buone cose di pessimo gusto - il divano-e-divano due posti usato, il tappeto similpersiano - delimitano lo spazio borghese di questa antiborghese antiteatrale Tragedia moderna - “nella terza Roma, al principio della primavera, tra due vespri” - e di questo Episodio secondo nel quale Corrado e Maria combattono il duello disperato di chi è già passato dalla parte della notte.

         Lo vedremo stasera e mai più - dice Vincenzo - o forse chissà nel duemilacentodiciassette, questo lavoro quasi mai rappresentato, caduto clamorosamente alla sua prima nel 1905 a Roma - col pubblico imbufalito a gridare “Arrestate l’autore” davanti al Teatro Costanzi (troppo vasto, troppo teatro d’opera, per niente teatro di prosa) - e la cui ultima rappresentazione è di almeno trent’anni fa, con la compagnia di Arnaldo Ninchi. E del quale è difficile reperire anche il testo, se non grufolando nello scantinato del triste supermarket del libro - lo chiamano libreria - dove scovi un improbabile e solitario cofanetto Newton Compton D’Annunzio-tutto-il-teatro che ha attraversato i decenni trascolorando da Lire quattordicimilanovecento a Euro 7.80, dimezzati ora in 3.90. Ancora un po’ e ti pagano se te lo porti via.

        Per noi prosegue stasera con Vincenzo il cammino nella “vicenda teatral-cosmogonica” delle guerre del secolo breve, che iniziato nella poesia rivoluzionaria russa approderà fra breve all’incredibile Gerstein - Il Vicario  di Ralf Hochhuth e ai forni di Auschwitz.

         La tappa dannunziana di oggi sperimenta un teatro complesso, rivoluzionario quanto quello pirandelliano, per una vicenda dalla “scarsa teatralità” su cui hanno pesato il pregiudizio ideologico e l’equivoco di un’interpretazione politica e perciò fuorviante.

Per qualcuno - ancora in tempi recenti - “manifesto d’interventismo coloniale all’insegna di Roma”, la tragedia è, al contrario, “la sconfitta dell’eroe nel mondo borghese” (G.Barberi Squarotti), il suo Corrado Brando è l’ulisside inconciliabile con quel modello societario, antitesi del superuomo, destinato al fallimento dall’improponibilità stessa del suo sogno, bruciato dalla febbre di una sfida mai domata. L’Africa è la sua malattia e il suo destino, perpetuo desìo della terra incognita, continente in gran parte inesplorato allora: gli torna all’orecchio il fischio dell’aquila pescatrice, vede i branchi d’avvoltoi e di cicogne levarsi su l’Uèbi, gli divora il cuore l’invidia per colui che è sepolto laggiù, quell’Eugenio Ruspoli che sulla via del Daua ha per monumento “un ramo secco fitto in un mucchio di terra” come la gente Amarr usa per onorare i capi.

Sente di essere “della razza dei Caboto” e non può più attendere, la “parola sepolcrale” Kalas! - basta!- degli uomini sfiniti sull’altipiano non gli appartiene: potrà solo andare avanti (La mia sete io non la estinguerò se non ai pozzi di Aubàcar ), dovrà tentare ogni strada pur di tornare laggiù, degradarsi per questo nel gioco, nel tradimento, nell’abiezione del delitto.

         Sono soli sulla scena i due attori, In questa sintesi dell’Episodio secondo, il dialogo dell’amore e del distacco ha il linguaggio breve e la musicalità della poesia nel  crescendo di pena, nel presagio - pareva venuto non so che autunno di sotterra- che Maria invano scaccia da sé - era un’ombra passeggera, una malinconia del tramonto… - La sciarpa rossa sull’abito nero è un fiore sanguinante: Maria è la leonessa ferita, “folle ma diversa, ferita ma non per assalire”, e la lettera che annuncia la partenza dell’amante “io l’ho baciata”, slancio di abnegazione - mi perdoni se vivo? - che la fa chinare per mettere lei stessa i libri nella cassa (… che io li tocchi a uno a uno e che te ne ricordi quando li riaprirai…), che le fa vedere - compassionevole Alcesti - tutta la tristezza sul viso di lui (Non ho mai veduto tanta tristezza in un volto d’uomo).

         Nel divano che li accoglie, fusi insieme eppure già lontani, Maria narra a Corrado la visione notturna (Maria, chi ti dà questa voce?), il sogno di morte su cui insisteva quel grido alto “Perché?”, e poi il bagliore d’alba intravisto nel cielo; gli confida con quel “Non siamo più soli” la piccola vita che già batte in lei.  Per Corrado è il culmine di una esaltazione febbrile, gioia incredula che vorrebbe creare la pace e la bellezza intono al tuo miracolo silenzioso. Ma c’è in fondo agli occhi di lui un errore immobile e quel bacio, Maria lo sa, “è l’addio, è la morte” (Non m’avevi mai baciata così, è il bacio terribile a cui ho pensato sempre. Ti perdo).

         Col buio che s’accende in sala cala il sipario che non c’è, il ritorno della luce ci restituisce Vincenzo e Pamela vivissimi e reali nell’applauso intenso che li saluta. Per un’ora e per noi sono stati Corrado Brando e Maria Vesta: di quelle  ombre, anime piegate sotto l’urto dei fati, ci hanno restituito intatte la tragedia e la poesia, la rarità e la bellezza.

        Perfino quel divano & divano beige senza design sembra migliorato, come noi. (Questa gente scriveva bene, dirà Vincenzo, ma noi ce lo siamo dimenticato…)

E’ necessario ripetere […] che il Carro di Tespi, come la Barca d’Acheronte, è così lieve da non poter portare se non il peso delle ombre, o delle immagini umane?
G.D’Annunzio, “A Vincenzo Morello”, 1906


 Sara Di Giuseppe


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martedì 27 dicembre 2016

Musicisti per Leonard Peltier


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Credeteci, amici, è stata una decisione difficile scrivere questa lettera aperta per chiedervi il sostegno alla nostra lotta per liberare il Nativo Americano, Leonard Peltier, da molti anni in carcere.

Leonard Peltier, prigioniero politico nativo americano ha adesso 72 anni, chiuso da 41 anni in carcere, da molti anni gravemente malato (cecità da un occhio, diabete, aneurisma alla aorta, alta pressione…) All'inizio di dicembre di quest'anno suo figlio di 41 anni, Paul Peltier, è morto, non ha mai visto suo padre libero. E' morto mentre era a Washington a chiedere la libertà per suo padre. 

Ai nostri occhi Leonard Peltier è innocente. Ho lavorato 4 anni per realizzare un documentario sul suo caso, ho fatto un lavoro di ricerca negli Usa e scritto un libro„ "One Life For Freedom – Leonard Peltier e la resistenza indigena" (solo in tedesco, Marzo 2016). Ora stanno trascorrendo gli ultimi giorni della presidenza di Obama. Potrebbe essere l'ultima possibilità per Leonard di rivedere la sua famiglia, i suoi parenti e amici, fuori di prigione. Obama può firmare la grazia. 

Rockstars da tutte le parti del mondo hanno firmato in passato petizioni per la libertà di Peltier. Date un'occhiata su YouTube:  https://www.youtube.com/watch?v=E-td0Q3agpU o  https://www.youtube.com/watch?v=TzLckwBZ208 or https://www.youtube.com/watch?v=dzfMQBcvkJA o https://www.youtube.com/watch?v=3dJyg9-Q4sA o a questa lista di personaggi che hanno già firmato per la sua liberazione http://users.skynet.be/kola/vips.html  (Troverete i nomi dei musicisti di questa lista e della campagna  "I will" alla fine di questa lettera. Unite il vostro nome, siete in buona compagnia ;-)

Questo ora vogliamo chiedervi: ci fate scrivere il vostro nome nella lista di musicisti che chiedono la grazia e la libertà per Leonard peltier? Se la risposta è "SI, lo voglio, Yes I will". Mandateci un breve messaggio email con scritto: „yes, i will“. Noi manderemo il 10 di Gennaio 2017 la lista di nomi alla Casa Bianca. Che siate world star o giovani musicisti, professionisti o "musicisti solo per passione", – ogni nome conta. Unitevi a questo vasto movimento mondiale di musicisti che chiedono la libertà per Peltier. 

Vi ringraziamo. In nome della giustizia e della libertà. 

amalia.navoni  amalia.navoni@fastwebnet.it


Mandate la vostra Email a lpsgrheinmain@aol.com , guardate il nostro website e seguite i progressi della campagna  http://www.leonardpeltier.de/tokata-lpsg-e-v/kampagne-musiker-fuer-leonard-peltier e seguiteci su facebook https://www.facebook.com/LPSGRheinMain

qui sotto, altri articoli recenti su Leonard Peltier:

lunedì 26 dicembre 2016

Galatone, dal 27 al 29 dicembre 2016, in memoria di Tonino Baldari, partigiano della natura


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27, 28, 29 dicembre 2016
Arci Rosa Luxemburg, via San Sebastiano 18, Galatone (Le).

Tre giorni per ricordare la figura di Tonino Baldari, artista, attivista, a Galatone (Le), presso l’Arci Rosa Luxemburg, il 27, 28 e 29 dicembre. Un'iniziativa che, attraverso l’esposizione dei suoi quadri, i filmati dei suoi interventi, e le testimonianze dei suoi amici, vuole raccontare il sogno di un salentino, ribattezzato il "Partigiano della Natura". 

Tonino era un uomo appassionato, sempre in prima linea per difendere la natura e la bellezza. Artista galatinese che ha saputo reinterpretare il mito della taranta e scultore di nuvole, come amava ripetere, perché ha usato le mani per scolpire un cielo tutto proprio e bellissimo. Gli amici lo ricorderanno con testimonianze vive, mentre ogni serata sarà dedicata ad un aspetto più caratteristico dell’artista. Il giorno dell’inaugurazione, il 27 dicembre alle ore 18, si parlerà dei suoi quadri, con la presenza di un critico d’arte e di esponenti dell’arte figurativa salentina, seguirà un rinfresco per i partecipanti. Il secondo giorno, il 28 dicembre alle ore 20, si aprirà una tavola rotonda, con tutti gli amici del Forum Ambiente e Salute e gli attivisti salentini. Sarà una serata ricca di aneddoti e testimonianze. L’ultimo giorno, il 29 dicembre alle ore 20, si celebrerà la vocazione politica e partigiana di Tonino Baldari, nipote di un partigiano, e attento ricercatore delle testimonianze di resistenza nel Salento.

A seguire, ogni serata sarà impreziosita dalla musica dal vivo a partire dalle ore 22. Il primo giorno con il jazzista Francesco Coppola, il secondo giorno saranno ospiti gli Astèria, cantori di musica grika, e il 29 dicembre, darà ritmo alla serata il gruppo di Salvatore Alessio & Friends

Ingresso gratuito.


 
FORUM Ambiente Salute  forumambientesalute@gmail.com
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mercoledì 21 dicembre 2016

Mondeggi - Resoconto dell'incontro di Genuino Clandestino Nazionale dell'11 dicembre 2016

                         
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RESOCONTO ASSEMBLEA 11-12-2016 A MONDEGGI

Ordine del giorno:
-         Funzionamento della mailing list e questione su come GC rilascia comunicati e aderisce ad iniziative promosse da altre realtà
-         Questione di Fuori Mercato
-         Esposizione dell’intervento di GC a Bolognola e continuazione del percorso
-         Incontro nazionale di GC a Bologna

Si è parlato del fatto che la mailing list andrebbe utilizzata in modo migliore per evitare che sorgano polemiche e botte e risposta. Siamo tutti più o meno d’accordo che attraverso la mailing list non possono essere prese decisioni. C’è stata anche la proposta, rimasta da definire, che per ogni rete territoriale scriva sulla lista nazionale una sola persona(non sempre la stessa, non un delegato ecc…) su ogni dibattito, dopo una consultazione interna alla rete locale. È uscita anche la proposta di utilizzare la mailing list solo per comunicazioni interne alla rete, e fare invece una newsletter per mandare comunicazioni agli interessati che lasciano occasionalmente i contatti e poi non frequentano gli incontri.
Da questa discussione è uscita la domanda di cosa sono le reti, se è possibile trovare una definizione di rete e come rapportarsi con singoli che sono attivi ma non appartengono ad alcuna rete.
È uscita anche la questione se decide solo l’assemblea plenaria o ci sono altri strumenti decisionali. Inoltre come decide l’assemblea? Trovare un modo perché sia chiaro quali decisioni sono state prese, in modo che possano essere concretizzate e non rimangano in sospeso.

Poi abbiamo parlato di come GC può rilasciare comunicati e aderire ad iniziative promosse da altre realtà. Il dibattito nasce perché ad esempio GC è stato invitato a rilasciare un’intervista sulla RAI, e a partecipare all’incontro internazionale dei popoli in lotta in Vaticano. Si è partiti dalle due opzioni opposte o di dare completa fiducia e libertà ai singoli e alle reti di comunicare e partecipare a nome di GC, oppure di non uscire mai a nome della rete nazionale e farlo solo a nome delle reti territoriali. Un’opzione intermedia potrebbe essere quella di presentarsi come rete territoriale che aderisce a GC, cercando di far risaltare come GC non utilizzi i metodi codificati e piramidali che sono gli unici riconosciuti dal sistema. Comunque c’è chi chiede che su questioni forti ci si confronti in plenaria. Ad esempio è uscita la questione se GC vuole rapportarsi con le reti contadine internazionali(tipo Sem Terra, Via Campesina…), se è il momento giusto per farlo e come farlo. Siamo tutti d’accordo, invece, sul fatto che quando si aderisce ad un’iniziativa, poi bisogna essere presenti fisicamente. Non ci interessa aderire nominalmente a campagne, essendo principalmente un movimento di pratiche.
Sembra chiaro e sereno che riconosciamo la pluralità di GC e non ci spaventa che sia una realtà in parte schizofrenica. Comunque c’è chi vorrebbe che GC diventasse maggiormente inclusivo e che “allargassimo i paletti” ideologici, favorendo la partecipazione di tutto il “blocco antifascista”.

Poi c’è la questione di Fuori Mercato. A qualcuno non piace l’idea del camion che distribuisca prodotti  tra le diverse zone d’Italia e sembra che le tematiche di FM siano distanti dalle problematiche contadine. In realtà da un chiarimento su FM emerge che l’idea del camion è saltata e che la distribuzione dei prodotti è solo un interesse marginale di FM. Lo scopo di FM è quello di creare un’economia parallela, ma non solo agricola. Inoltre emerge la consapevolezza che eventuali terreni occupati, tipo Mondeggi, spesso derivano da gestioni capitalistiche con monocolture(tipo viti, olivi), e di conseguenza necessitano anche di canali di vendita diversi dai mercati GC.
Sviluppando la discussione esce la proposta di fare a Bologna un tavolo sulla relazione tra città e campagne, su come i cittadini possano essere visti non più solo come acquirenti di prodotti contadini, ma anche produttori di beni per chi vive in campagna. Il solo riciclo fatto in città potrebbe portare prodotti utili alla campagna. Inoltre fabbriche occupate come Rimaflow a Milano e Oz a Roma potrebbero produrre utensili per la campagna o forniture per i laboratori di trasformazione.

Su Bolognola ci viene riportata l’esperienza come molto positiva. Bello l’impatto di come noi fossimo gli unici senza divisa, tra sbirri e protezione civile, e che portavamo aiuti molto concreti. La popolazione ha gradito molto anche momenti di socialità come una suonata semi improvvisata di organetto. Ora si cercherà di procedere il lavoro politico e la stesura di una delibera comunale per la trasformazione e vendita dei prodotti agricoli.
Ci siamo chiesti se questa esperienza possa esserci utile anche per creare una rete di aiuto in casi meno gravi all’interno della rete.  

Riguardo a GC a Bologna, che molto probabilmente sarà 21-22-23 aprile, c’è la proposta di fare venerdì pomeriggio dalle 17 in poi un’assemblea preparativa per organizzare la plenaria di sabato. Il sabato, invece, ci saranno: la mattina i tavoli di GC, il pomeriggio si continueranno i tavoli tecnici(orticoltura, apicoltura ecc..) e la sera ci sarà la plenaria. La domenica il mercato.
C’è la proposta di confrontare i regolamenti delle reti, dunque bisognerebbe portare i regolamenti dove presenti.

C’è anche la proposta che la cassa aiuti le reti lontane a partecipare agli incontri.

Genuino Clandestinocir-informa@googlegroups.com.

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lunedì 19 dicembre 2016

France. Circulaire adressée par l’Association CO.U.R.R.I.E.L. aux candidats à l’élection présidentielle

Madame la candidate, Monsieur le candidat à l’élection présidentielle,
Un paradoxe difficilement soutenable nous semble mériter toute votre attention: alors même que le débat politique se fait régulièrement l’écho des questions d’identité et de valeurs qui secouent notre société, et que la langue française reste au titre de la Constitution et de la loi Toubon « langue de l’enseignement, du travail, des échanges et des services » -c’est-à-dire… langue de la République, la question de son éviction au profit de l’anglais, de plus en plus ostensible dans l’espace public – et dans tous les domaines sus-cités—reste dramatiquement absente des enjeux de la campagne présidentielle.
C’est partout en effet que l’on assiste au déferlement du tout-anglais (du tout-américain ?), dont le matraquage ne vise aucunement à « enrichir » le français, comme le prétendent ses zélateurs, mais à substituer sciemment aux expressions et aux mots français existants un jargon d’aéroport propre à inculquer aux jeunes générations l’idée que l’anglais sera demain l’idiome unique du monde, de l’Europe et… de la France (cf. le titre méprisable de la revue We demain). Qu’on en juge par quelques exemples dont la liste pourrait être aisément centuplée :
- enseignes commerciales basculant en anglais ces dernières années : par ex. « Atac » devenant Simply Market, Carrefour se déclinant en Planet, Market, City, etc.
- émissions de télévision et de radio nommées en anglais, y compris sur le service public de l’audiovisuel ;
- chansons en anglais, ou, au mieux, en franglais, sur nos radios et jusqu’à représenter la France à l’Eurovision ;
- « produits » et enseignes dépendant de services publics, d’entreprises publiques, semi-publiques ou parapubliques dépendant de l’État français et/des collectivités territoriales (la Poste, EDF, « Engy », Renault, la SNCF, etc.) libellés en anglais, y compris à l’adresse du public français et francophone,
- allocutions effectuées en anglais par des représentants officiels de la France parlant à l’étranger, au point que Mme la Secrétaire d’État à la Fonction publique a fini par envoyer à l’ensemble des ministères un rappel à l’ordre juridique et linguistique, sans pour autant prendre les sanctions qui s’imposent s’agissant de fautes professionnelles graves et répétitives ;
- publicités formulées en anglais sur nos chaînes aux heures de grande écoute sans que le C.S.A. ne s’en émeuve ; de films et de téléfilms subventionnés par la France et dont toute la partie musicale est composée de chansons anglaises, ou pis, de chansons en anglais chantées par des Français, quand, à l’image de la très symbolique série Versailles, ils ne sont pas tout simplement tourné en anglais, pour être (mal) traduits ensuite seulement dans notre propre langue !
- basculement progressif vers l’anglais de l’enseignement de la maternelle à l’université alors que les horaires dévolus à l’enseignement du français et de la littérature française n’ont cessé de fondre au fil des réformes de l’école élémentaire, du collège et du lycée, la Loi Fioraso (qui était déjà fort problématique en elle-même) et ses « garanties » étant ouvertement bafouées ; mais aussi évidemment marginalisation scolaire des langues anciennes comme des moyens d’enseignement affectés à l’allemand, à l’italien, au russe, au portugais, au polonais ou à l’arabe premières langues ; ce basculement insidieux est l’exact opposé de ce que devrait être une politique moderne conjuguant la maîtrise de la langue maternelle nationale et l’ouverture à un authentique plurilinguisme, négocié avec les pays voisins et amis de la France ;
- basculement de nombre d’entreprises au tout-anglais « à l’interne », avec en prime la souffrance au travail vécues par les personnels, les risques et l’insécurité engendrés dans la maîtrise des processus de production, le viol évident de la dignité de nos compatriotes contraints de renoncer à leur langue maternelle sur le sol français. Le tout jusqu’à parfois favoriser outrageusement le recrutement de cadres « English Mother Tongue » (discrimination flagrante, rarement signalée et totalement contraire au principe d’égalité), et alors que la maitrise de la langue anglaise devient de plus en plus systématiquement, dans les grands groupes, une condition à l’embauche, très loin devant l’ « expertise métier » du salarié concerné !
Comment dans ces conditions de ne pas se demander si cette déferlante mortifère, que les autorités censées faire respecter l’État de droit encouragent d’ailleurs en subventionnant des manifestations publiques ou privées humiliantes pour les francophones (« Fashion Week », « Parisian Games Week », etc.), ou la mise en place de « produits » (Smart Navigo francilien, City Pass parisien…) nommés en globish, ne résulte pas d’une politique linguistique inavouable, promue de concert par certaines « élites » économiques et politiques « françaises », européennes et « transatlantiques » ?
Comment ignorer par ailleurs que de son côté, l’UE favorise outrageusement l’anglais dans sa communication, que le français et les langues d’Europe autres que l’anglais sont marginalisés à Bruxelles sans la moindre réaction ferme de Paris ? Comment ne pas être scandalisé par le fait que, passant outre l’avis négatif que plusieurs pays européens, dont la France, ont formulé contre cette négociation, l’UE continue de préparer comme si de rien n’était, un « Grand Marché Transatlantique » qui peut s’avérer dévastateur pour notre langue (pour n’évoquer ici que cet aspect des choses) ? N’est-il pas scandaleux par ailleurs que, sans aucune contre-proposition de Paris, de Berlin, de Rome, de Madrid, etc., l’UE continue de favoriser outrageusement l’anglais dans ses échanges et sa communication… alors que, suite au départ annoncé de la Grande-Bretagne, l’anglais ne sera plus bientôt la langue officiellement déposée auprès de Bruxelles d’aucun Etat-membre de ladite UE ?
Quand le seul souci des gouvernants français successifs concernant la Loi Toubon est de multiplier les exceptions à son application, de fermer les yeux sur ses violations grossières, voire de la qualifier de « ligne Maginot linguistique » (comme l’a fait Mme Fleur Pèlerin, alors ministre de la communication chargée d’appliquer la législation existante !), quand un ex-président français du patronat européen, M. Ernest-Antoine Seillères, ose interpeller les chefs d’État européens en 2004 en déclarant : « je ne m’adresserai plus désormais à vous qu’en anglais, la langue des affaires et des entreprises », force est de soupçonner que, derrière les discours creux célébrant platoniquement la « langue de Molière » ou la « Francophonie internationale », certains milieux dirigeants promeuvent « en fait une langue unique mondiale et européenne dans l’espoir d’assoir irréversiblement une économie, une politique et une pensée uniques négatrices des diversités indispensables à toute civilisation humaine.
D’autant que ce privilège, voire ce monopole tendanciellement accordé au tout-anglais, vont de pair, bien souvent, avec la volonté de banaliser et de désétablir la langue nationale commune, premier service public de la nation, en organisant sa mise en concurrence avec des langues « minoritaires et régionales ». Ce faisant, ces milieux prennent le risque de « territorialiser » et d’ « ethniciser » la citoyenneté française, de désarticuler les services publics et les droits sociaux, voire de déstabiliser l’unification linguistique du droit français qu’a permis d’engager l’Ordonnance de 1539 (1) qui érigea le français en langue de l’État. Ainsi, au risque de dégrader le si fragile vivre ensemble français, la langue française est prise en étau, sans aucune défense institutionnelle sérieuse, entre le tout-anglais transatlantique cher aux sociétés transnationales, et les apprentis-sorciers d’un morcellement du territoire national sur des bases pseudo-linguistiques. Pour autant notre association, qui respecte toutes les langues de France et du monde, y compris l’anglais véritable, n’en exige pas moins qu’à côté du français, dont l’enseignement doit être revalorisé de la Maternelle à l’Université, toutes les langues régionales de France, patrimoine indivisible de la nation, soient dotées des moyens nécessaires pour être enseignées dans le cadre du service public d’enseignement partout où existerait pour elles une demande significative.
Madame la candidate, Monsieur le candidat, notre présente interpellation vise aussi à éclairer de graves enjeux civiques occultés par les médias. Si le français continue d’être humilié et peu à peu relégué à l’arrière-plan sur sa terre natale, qu’adviendra-t-il de tous ceux, Français, mais aussi travailleurs immigrés francophones, qui ne maîtriseront « que » le français et qui deviendront des salariés et des citoyens de seconde zone en France même ?
D’autant qu’il est faussement rassurant d’alléger la vitalité de la Francophonie internationale. Certes l’attractivité culturelle du français est telle que notre langue est la seconde langue la plus étudiée au monde. Certes, la France et l’Afrique francophone recèlent un très important potentiel démographique. Mais que deviendront ces atouts d’avenir si toute une partie des élites et des institutionnels sabotent ou abandonnent ce que Claude Hagège appelle le « combat pour le français » ? Ainsi de l’OIF dont l’orientation actuelle minimise ou contourne les enjeux linguistiques ; elle ferme les yeux sur les reculs que subit notre langue dans certains pays (le ministre tunisien de l’éducation vient ainsi de déclarer qu’il envisageait de remplacer le français par l’anglais dans l’enseignement secondaire, et des interrogations analogues se font jour au Liban). Et comment accuser ces pays de « trahir le français » alors qu’une certaine France étale son mépris pour la langue dont est largement issue la nation ? D’ailleurs, les traités de libre-échange que l’UE continue de négocier avec les États-Unis, n’institueront-ils pas à l’évidence l’anglais comme la langue des tribunaux mandatés pour juger la « mauvaise gouvernance » de feus les états souverains ?
En résumé, c’est pour des raisons à la fois patriotiques, internationalistes et, tout simplement humaines, que nous dénonçons la politique actuelle d’arrachage du français au profit du tout-anglais. Et plus encore, nous dénonçons le tout-anglais parce qu’il attente à la diversité des cultures, qui, à l’instar de la biodiversité, préserve notre avenir collectif en même temps que tous les modes et les traditions de pensées demain nécessaires aux nouveaux défis du monde. Du grand héritage national et international que constitue notre langue et tout ce qu’elle porte d’universel, vous serez comptable demain, Madame la candidate, Monsieur le candidat, si les électeurs vous appellent à présider la République.
Dans les fonctions prochaines où beaucoup vous espèrent, cette responsabilité de la langue, peu débattue encore aujourd’hui, sera écrasante demain : l’Histoire, paradoxalement, retiendra peu des multiples attentions dont d’aucuns pourront entourer la croissance ou la sécurité. Avec le sens du raccourci qui lui est propre, sourde à la cacophonie des luttes quotidiennes, Elle saura s’attacher, dans la mémoire des siècles, à ces mouvements de fond puissants qui scellent un équilibre et qui définissent la réalité d’un peuple.
Que nul ne dise, si le français subit en France au 21ème siècle le sort qu’a subi le gaélique en Irlande ou en Ecosse, qu’il ne « savait pas ».
Pour conclure, nous vous demandons de bien vouloir dire publiquement comment vous comptez combattre, si vous êtes élu, l’invasion bien réelle du tout-anglais, en particulier comment vous comptez faire appliquer la loi Toubon, en donnant à tous les citoyens et à la justice les outils juridiques nécessaires pour que soient sanctionnés les « collabos de la pub et du fric » (Michel Serres) qui polluent sciemment notre patrimoine linguistique, et en revalorisant l’enseignement du français dans l’ensemble de notre système scolaire.
En somme, nous vous serions redevable de dire à notre peuple comment CONCRETEMENT vous ferez respecter demain l’article II de la Constitution qui dispose que « le français est la langue de la République ».
Avec nos salutations respectueuses et citoyennes,
Georges Gastaud, président du CO.U.R.R.I.E.L., pour le bureau national.
(1) On en viendra inéluctablement là si l’officialisation de la Charte européenne des langues minoritaires et régionales continue d’encourager ceux qui, comme M. Guy Talamoni en Corse, veulent en finir avec la langue de la République… si ce n’est avec la République française elle-même !

domenica 18 dicembre 2016

Riflessioni sotto l’albero: Il piacere e la sofferenza


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Prima che l’orgia festaiola ci coinvolga in atmosfere epicuree, qualche breve riflessione s’impone, in un periodo dell’anno, dove spesso un consumismo sfrenato travolge gran parte dei paesi opulenti.
L’umanità sembra ossessionata dalla ricerca del piacere. Non è mai sazia! E, al contrario, rifiuta come la peste, tranne nei casi di gravi patologie psichiche, la sofferenza e la pena.
Il piacere e la pena, due facce della stessa medaglia, con tutte le loro sfumature e gradualità, sono i poli dentro cui si manifestano i nostri sentimenti. L’animo fluttua all’interno di queste due grandi dimensioni. Il suo moto è oscillante come in un pendolo.
La ricerca del piacere, dagli espedienti più semplici e ruspanti a quelli più contorti e raffinati, si trasforma in idolatria quando diventa un fine, un piacere fine a se stesso.
Se il piacere diventasse uno scopo e non un mezzo, l’umanità si voterebbe alla noia, perché il piacere è un pozzo senza fondo. Nel momento in cui viene soddisfatto perde di interesse e se non si trovano nuovi stimoli, sempre più audaci e pruriginosi, niente più susciterà interesse.
Una noia mortale sarà la naturale conseguenza di questo meccanismo perverso. La depressione è uno dei mali più oscuri della modernità. Aver idolatrato il piacere ha reso l’uomo schiavo. Spesso a sua insaputa, a volte compiacendosi del superficiale godimento ignorando le conseguenze.
Il piacere e la pena sono due strumenti cognitivi a disposizione dell’uomo. La loro esperienza rappresenta un’ ottima palestra in cui l’umano potrebbe conoscere se stesso, il prossimo e l’ Impronunciabile...
La conoscenza del mondo interiore, laddove sorge la gioia per ottenere più vita, è il vertice di ogni esperienza umana. Il "Conosci te stesso", l’epitaffio scritto sul tempio di Apollo a Delfi, rappresenta il fine supremo, fin dagli albori della vita.
Per fare un esempio facilmente comprensibile, proviamo ad immaginare una persona che mangia, magari da sola, senza chiedersi da dove viene quel cibo, chi lo produce, come viene coltivato, se fa male alla salute, ecc... Tutto l’universo relazionale, che con il cibo s’intreccia, gli è estraneo.
Il suo gesto si limita al solo piacere che gli procura il palato, quando non addirittura gli è completamente indifferente la condivisione di quel piacere con gli altri.
La conoscenza non lo sfiora minimamente, non gli interessa, non lo stimola, vive in superficie. La sua anima si confonde con quella di un tubo digerente!
Al contrario, il piacere della tavola, semplice e sobrio, quando è accompagnato dal piacere della conversazione, dalla curiosità di conoscere e di imparare cose nuove, diventa un momento di crescita e di consapevolezza, specie quando poni te stesso dentro le cose che senti.
Quando ciò accade si crea una sostanza che si chiama soddisfazione che penetra e va oltre la scorza del piacere e si espande al mondo interiore. La conoscenza, quando è ispirata da principi etici, e non una vacua speculazione intellettuale, tende a responsabilizzare l’uomo perché interpella la sua coscienza.
Cosi, insieme alla conoscenza del piacere, l’altro polo dei sentimenti umani, la sofferenza diventa altrettanto fondamentale per comprendere la profondità dell’animo umano. Chi rifiuta il dolore si nega alla vita spirituale. Attraverso la sofferenza la sensibilità si dilata e ci rivela recessi dell’animo umano inesplorati.
Non alludo alla sofferenza che subiamo e che ci rende passivi, ma a quella di chi ama la vita e vuole più vita, ed è disposto a farsi carico dello sforzo e della fatica per ottenerla per se e per gli altri.
Una sofferenza indicibile, come quella di un parto, di chi geme nel buio della notte in attesa del nuovo giorno che viene alla luce. Spuntata l'alba, il dolore come per incanto non c’è più, è alle spalle. Sei finalmente libero e rinato.
La nostra anima purificata dal dolore ci darà nuovi occhi attraverso cui guarderemo la forza straripante della vita che non cessa di stupirci e che ci chiede solo di amarla.

Michele Meomartino

mercoledì 14 dicembre 2016

Praga - "Da una casa di morti" (Z mrtvého domu) - Recensione

"Da una casa di morti"     
(Z mrtvého domu)
di
Leoš Janáček 
Regia Daniel Špinar
Direttori Robert Jndra, David Švec
Orchestra del Teatro Nazionale di Praga

Praga – Teatro Nazionale 
9 dicembre 2016   h19


                                                                      Risultati immagini per Praga - "Da una casa di morti"

     
       Magistrale allestimento al Teatro Nazionale di Praga per l’opera di Leoš Janáček, “Da una casa di morti”: l’ultima del grande compositore moravo, completata appena un mese prima della morte (agosto 1928) e travagliata da rimaneggiamenti postumi per il suo carattere sicuramente estraneo alle convenzioni dell’epoca (solo gli anni Cinquanta ne riprenderanno la versione originale rendendole giustizia, rispettosi del libretto e del testo musicale di Janáček).

        Tratta dal dostoevskijano Memorie da una casa di morti, è di sconvolgente modernità quest'  “opera nera – così la definisce il compositore – “in cui  mi pare di scendere un gradino dopo l’altro fra i più miserabili degli uomini”, e dove la ristretta collettività di reclusi è, nella sua dimensione atemporale, paradigma di milioni di destini umani in universi concentrazionari passati e presenti.

      Tutto è dolore nel claustrofobico microcosmo solo maschile di detenuti, disperato carcere siberiano per criminali e assassini senza riscatto, spogliati di umana dignità, anime sofferenti e abbrutite che la perdita di sé trasforma da carnefici in vittime.

        Opera priva di intreccio eppure tutt’altro che statica: non vi è protagonista in questa casa di morti, solo individualità che escono dall’ombra dell’indifferenziata massa di non-uomini e narrano se stesse; le storie di AljejaLukaSkuratovŠiškovŠapkin e di altri accendono una luce opaca e breve su questi ultimi della terra; reietti segnati dalla violenza e dal disamore ma in cui nostalgia e disperazione possono anche elevarsi in un evangelico “Signore pietà”. Perché “In ogni creatura una scintilla di Dio”, scrive in epigrafe alla partitura lo stesso Janáček, (che proprio negli stessi anni compone la grande, ispirata “Messa glagolitica” nella quale “dà voce al suo credo personale, profondamente umanistico”).

        Il tessuto musicale è incalzante, a volte invadente fino a stravolgere la voce stessa che narra; ora esplode in vigoroso tema di fanfara come nell’Ouverture; ora esaspera le dissonanze armoniche quando la scena è più allucinata; e si fa crudo nel delirio della follia, nostalgico a sottolineare lacerti di memoria subito persi nell’oblio; echi di canti popolari irrompono, sonorità austere si innalzano compassionevoli da una palpitante umana pietas, accompagnano con straziante dolcezza il coro dei detenuti che vanno al lavoro  (“I miei occhi non vedranno più la terra dove sono nato…”).

        Ecco allora il folle Skuratov invocare Luiza, che ha amato e per la quale ha ucciso; ecco Luka che narra l’assassinio del comandante che lo ha umiliato, e nel campo morirà di stenti; ecco l’intellettualeGorjančikov, unico prigioniero politico, gettato in scena - fra il martellare dei timpani - con la schiena sanguinante per le cento frustate, le cui urla scuotono appena l’indifferenza degli altri, e il cui arrivo e la cui liberazione delimitano l’azione drammaturgica dei tre atti; ecco - in una scena di caldo lirismo musicale - il giovanissimo tartaro Aljeja che racconta della sua famiglia, e della madre lontana che lo visita nei sogni, all’attento sensibile Gorjančikov che cercherà di insegnargli a leggere e scrivere.

        Barlumi di poesia e umanità, di nostalgia e d’amore subito precipitati nell’apatia dell’impotenza, nella violenza della rissa continua che si riaccende ad ogni scintilla, o sopraffatti dall’unica distrazione concessa nello spesso grigiore del lager: la “festa” e lo spettacolo allestito dai detenuti. Vero teatro nel teatro, qui la partitura diviene balletto, si fa canto popolare stravolto, mimo volgare e trasgressivo nell’allusione esplicita alla “dimensione di omosessualità immanente all’orizzonte carcerario”. Un’oscena bellezza pervade questa mimica violenta, lo sghignazzo dei travestiti, la feroce allegria di questi naufraghi; momenti destinati a perdersi nell’ennesima rissa, nell’irrompere delle guardie dal volto gessato di sinistri clown.
        
Nell’allestimento praghese non vi è la prostituta, unica figura femminile dell’opera, presente alla festa nella partitura originale. Vi si materializza invece come figura danzante e silenziosa, evocata dalla narrazione di Šiškov, il fantasma dell’infelice Akulka ingannata e uccisa. Caduto il sontuoso abito rosso del suo apparire in scena, resta un corpo seminudo e fragile la cui danza muta e disperata accompagna il lungo racconto - quasi l’intero terzo atto - del prigioniero: l’innocente, calunniata Akulka, datagli in sposa per riparare alla colpa mai commessa, e da lui uccisa nel bosco dove l’ha condotta e pugnalata dopo averle ordinato e atteso che pregasse l’ultima sua preghiera…

        Anche l’aquila zoppa, oggetto di gioco e scherzo dei detenuti nel libretto originale, è qui sostituita dalla disastrata carcassa di un pianoforte a coda, ad occupare una parte consistente della scena: come (nell’originale) l’aquila incapace di volare si alzerà infine libera nel cielo, così il pianoforte, tornato integro nel suo lucente nero - ad arricchire la trama di motivi simbolici - verrà issato in alto - ma capovolto - mentre si annuncia la liberazione del detenuto Gorjančikov. Il dolente saluto di questi all’amico Aljeja, il coro dei detenuti che infiammandosi intravede nella liberazione del compagno di pena una possibile luce, sono solo momenti: illusioni brevi di redenzione, tutto torna nel buio, ogni speranza si azzera nel “tragico ritorno dell’uguale”.

        Uniformità tangibile fin nei colori della scena: nel grigio delle casacche dei detenuti - con le variazioni bianco-sporco del succinto vestire dei mimi - spezzato solo dalle verdi divise dei carcerieri con la loro maschera grottesca; nel bianco/nero del frac di coro e interpreti - scelta inconsueta e sorprendente tenuta di gala nel terzo atto - in mezzo ai quali si apre come un fiore insanguinato il rosso abito di Akulka.

        Spettacolo emozionante, di pari asprezza e bellezza, per una regia colta, innovativa fino alla trasgressione, originale nell’impianto complessivo come nei dettagli: fin dall’Ouverture, durante la quale uno ad uno i principali “detenuti” - in frac! - al perentorio cenno della guardia balzano sul proscenio e, dopo aver mimato con goffa enfasi i gesti di un’improbabile direzione d’orchestra, si prestano al flash della foto segnaletica, di fronte e di profilo e con tanto di cartellino con nome - Kuzmik, Skuratov, Čekunov ecc. - poi il carceriere/minosse spedisce ciascuno al proprio inferno. 

Gli eccellenti interpreti - dai ruoli principali al coro, dal portentoso gruppo dei mimi alla danzatrice, l’intensa Jana Vrána - cesellano la preziosità di un’ opera che lo stesso Janáček definiva “un cammino difficile”, che lo impegnava quasi dolorosamente “come se il mio sangue dovesse sgorgare fuori” (così scriveva alla cara amica Kamila Stösslová).

        In perfetta fusione tra parte musicale e momenti scenici, l’Orchestra del Teatro Nazionale, nella doppia direzione di Robert Jndra e David Švec, sapientemente tratteggia il cupo orizzonte di questa casa di morti, definisce con precisione la peculiare atmosfera di ciascuno dei tre atti con arditi trapassi da sonorità cupe e sinistre a squarci lirici di potente suggestione; rende con pienezza il colore orchestrale “di audacia e novità prodigiose” di un’opera - scrive l’attento studioso di Janáček, John Tyrrell - “in anticipo sui tempi, che imbarazzò i suoi contemporanei e che forse solo oggi siamo nella condizione di ascoltare e comprendere”.


 Sara Di Giuseppe                      faxivostri.wordpress.com      letteraturamagazine.org


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