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mercoledì 13 agosto 2014

Teatro da spiaggia a Grottammare - Noi siamo solo andata



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Noi siamo solo andata
“All’alba un palpito di mare”
[ Spettacolo itinerante sulla spiaggia ]
Laboratorio Teatrale Re Nudo –  Regia di Piergiorgio Cinì
Testi di Rimbaud, Roversi, Carboni, Kavafis, Loggi, Pascarella, Sciascia, De Luca, Pavese
Viale Colombo – Grottammare – 12 agosto 2014 h 5,30
  
Ma quando gli dico
ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro
C.Pavese I mari del Sud

     “E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare…”: l’incipit del racconto di Sciascia - Il lungo viaggio - saluta il sole già saldo sulla linea dell’orizzonte con il gruppo di migranti siciliani, ignoranti e ingannati, convinti di arrivare in America (duecentocinquantamila-lire-metà-alla-partenza-metà-all’arrivo al trafficante) e sbarcati dopo undici notti di “traversata” a Santa Croce Camerina, Sicilia (“Si buttarono come schiantati sull’orlo della cunetta perché non c’era fretta di portare agli altri la notizia che erano sbarcati in Sicilia”).

       E’ iniziato all’alba, il breve straordinario nostro viaggio con gli attori di Re Nudo lungo questa spiaggia che ancora dorme e respira lenta. E’ iniziato al primo chiarore incerto, presso il “Ragazzo con i gabbiani” di quel Fazzini scultore del vento che il mare l’aveva dentro, che aveva “l’Adriatico addosso”.

Il mare di questa mattina è tutti i mari, è Mare assoluto, metafora ancestrale di ogni volo e di ogni approdo, di ogni fuga, di ogni ritorno, di ogni “solo andata”. E’ il mare che accoglie Odisseo nell' interminabile andare lontano da Itaca, che lo invita a non temere i Lestrìgoni e i Ciclopi / o la furia di Nettuno, a non affrettare il viaggio, a far sì che duri a lungo, per anni, ma sempre con in mente Itaca / raggiungerla sia il pensiero costante; è il mare che accoglie la nenia dolente, è il mare-grembo, materno liquido amniotico che genera e protegge, acqua lustrale che purifica e battezza. E’ il “troppo vasto mare” per la piccola foglia sul vascello dove non c’è più vita alcuna. E’ il mare pascarelliano dell’America scoperta, Eh, cor mare ce s’ha da ruga’ poco! Che lì pòi camina’ quanto te pare: /Più cammini più trovi l’infinito / più giri più ricaschi in arto mare.

     E' il mare dei migranti (Era linea d’arrivo, abbraccio di onde ai piedi) “calati da altopiani incendiati da guerre e non dal sole” (Non fu il mare a raccoglierci / Noi raccogliemmo il mare a braccia aperte); che portano Omero e Dante, il cieco e il pellegrino / l’odore che perdeste, l’uguaglianza che avete sottomesso; del bimbo morto nelle braccia della madre, foglia caduta dall’albero degli uomini che il mare avvolge in un rotolo di schiuma; dei disperati che “Potete respingere, non riportare indietro / E’ cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata”.      

      E’ stato questo, in un’alba sul mare, il viaggio in cui abbiamo immaginato altri mari, volato oltre l’ottuso frastuono, cancellato la spiaggia lager di ombrelloni e chalet. E’ il Mare, ciò che abbiamo visto, non la sua ombra pallida e distorta sulla parete della caverna del nostro quotidiano. L’intensità degli interpreti, l’accorta regia, le suggestioni musicali e poetiche di ogni singola tappa, la purezza del violoncello bachiano (negli arpeggi intimi e potenti del Preludio della Suite n.1) l’hanno reso possibile. Quasi una magia.
     
      Ci ricordano presto che siamo nel borgo selvaggio. Prima è l’auto dei Carabinieri: intervento discreto e cortese, ma richiesto da telefonate numerose di abitanti che si dicono “spaventati” (così nella riposta del gentile Carabiniere). Benpensanti “spaventati”, suppongo, dall’assembramento in riva al mare (qualcuno vestito di bianco è perfino sbarcato da un barcozzo!...). Usi ad incassare - senza muover muscolo - ruspe e camion in manovra sotto casa prima dell’alba, e i giorni e le notti di becero frastuono vacanziero, oggi infastiditi dall’assolo bachiano e da suoni di limpido vigore e di più che civile intensità.

      Poi è l’insopprimibile vezzo del saluto del sindaco (qui in finale, e puoi almeno scappare; solitamente – sob – in apertura, e te lo sorbisci): flagello indigeno che non ha riscontri altrove, vocazione allo spot autopromozionale a cui nessuna amministrazione ha il buon gusto e l’intelligenza di rinunciare. L’incantesimo è rotto dalla vanità istituzionale e un’alba in poesia ci lascia nelle orecchie la prosa di un sindaco…




Sara Di Giuseppe                       faxivostri.wordpress.com                  

                                                     
 

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