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giovedì 28 agosto 2014

Focolai di guerra accesi da chi chiede "pace e democrazia"





Mentre dalla Libia in fiamme migliaia di uomini, donne e bambini, spinti
dalla disperazione, tentano ogni giorno la traversata del Mediterraneo,
e molti vi perdono la vita, il presidente Napolitano avverte «Attenti ai
focolai che ci circondano», a cominciare dalla «persistente instabilità
e fragilità della situazione in Libia». Dimentica, e con lui la quasi
totalità dei governanti e politici, che è stata proprio l’Italia a
svolgere un ruolo determinante nell’accendere nel 2011 il «focolaio» di
quella guerra di cui l’ecatombe di migranti è una delle conseguenze.

Sulla sponda sud del Mediterraneo, di fronte all’Italia, c’era uno Stato
che – documentava la stessa Banca mondiale nel 2010 – manteneva «alti
livelli di crescita economica», con un aumento medio del pil del 7,5%
annuo, e registrava «alti indicatori di sviluppo umano» tra cui
l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e, per il 46%,
a quella di livello universitario. Nonostante le disparità, il tenore di
vita della popolazione libica era notevolmente più alto di quello degli
altri paesi africani. Lo testimoniava il fatto che trovavano lavoro in
Libia circa due milioni di immigrati, per lo più africani.

Questo Stato, oltre  a costituire un fattore di stabilità e sviluppo in
Nordafrica, aveva favorito con i suoi investimenti la nascita di
organismi che un giorno avrebbero potuto  rendere possibile l’autonomia
finanziaria dell’Africa: la Banca africana di investimento, con sede a
Tripoli; la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria); il
Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun).

Dopo aver finanziato e armato settori tribali ostili a Tripoli, facendo
sì che la «primavera araba» assumesse in Libia sin dall’inizio la forma
di insurrezione armata provocando la risposta governativa, lo Stato
libico fu demolito con la guerra nel 2011: in sette mesi, l’aviazione
Usa/Nato effettuava 10mila missioni di attacco, con oltre 40mila bombe e
missili.

A questa guerra partecipò l’Italia con le sue basi e forze militari,
stracciando il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i
due paesi. «Nel ricordo delle lotte di liberazione e del 25 aprile –
dichiarava il presidente Napolitano il 26 aprile 2011 – non potevamo
restare indifferenti alla sanguinaria reazione del colonnello Gheddafi
in Libia: di qui l'adesione dell'Italia al piano di interventi della
coalizione sotto guida Nato».

Durante la guerra venivano infiltrate in Libia forze speciali, tra cui
migliaia di commandos qatariani, e allo stesso tempo finanziati e armati
gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi.
Significativo è che le milizie islamiche di Misurata, che linciarono
Gheddafi, occupano ora l’aeroporto di Tripoli.

In tale quadro si sono formati i primi nuclei dell’Isis che, passati poi
in Siria, hanno costruito il grosso della loro forza lanciando quindi
l’offensiva in Iraq.  Svolgendo un ruolo di fatto funzionale alla
strategia Usa/Nato di demolizione degli stati attraverso la guerra coperta.

«E' ormai evidente – dichiara il presidente Napolitano – che ogni Stato
fallito diviene inevitabilmente un polo di accumulazione e diffusione
globale dell'estremismo e dell'illegalità». Resta solo da vedere quali
sono gli «Stati falliti». Non sono gli Stati nazionali come Libia, Siria
e Iraq che, situati in aree ricche di petrolio o con una importante
posizione geostrategica, sono del tutto o in parte fuori del controllo
dell’Occidente, e vengono quindi demoliti con la guerra. Sono in realtà
i maggiori Stati dell’Occidente che, tradendo le loro stesse
Costituzioni, sono falliti come democrazie, ritornando all’imperialismo
ottocentesco.

 Manlio Dinucci 

(Fonte: il manifesto, 26 agosto 2014)

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