Spirito senza frontiere e l’esperienza diretta della via senza via
Se qualcuno chiedesse cos’è il Ch’an (o lo Zen che é la sua filiazione giapponese)? Sarei tentato di risponde che “sicuramente non è quel che stiamo facendo”, ovvero non può essere né descritto né letto. Può essere sì “trasmesso” attraverso l’esempio ma solo quando l’osservatore è in grado di farlo proprio, come avvenne a Kashyapa che si illuminò osservando il Buddha sollevare un fiore in risposta ad una domanda filosofica.
Insomma il Ch’an o lo Zen sono espressioni che stanno a significare “esperienza diretta, naturale e spontanea” come in verità fu quella del Buddha che, abbandonati tutti i sentieri e tutti i metodi, infine mangiò, perché aveva fame, e si sedette, perché era stanco, e così ottenne l’illuminazione….
Dal punto di vista formale vediamo che il Ch’an, storpiatura del vocabolo sanscrito Dhyan (che vuol dire meditazione), nacque in Cina (nell’epoca T’ang fra il 618 ed il 907 d.C.) come risposta integrativa fra l’esperienza Taoista e quella Buddista. Entrambi questi “sentieri” sono “non formali”, non abbisognano di scritture o regole specifiche, essendo basati sulla scoperta di sé nel Sé. Essendo il laboratorio di ricerca il proprio interno, la mente, l’unica pratica consigliata è quella dell’introspezione meditativa… Non vengono seguiti metodi speculativi piuttosto si cerca di portare l’intelligenza al limite della sua tendenza raziocinante, talvolta attraverso insolubili quesiti o formule astruse sulle quali riflettere.
Altra caratteristica esteriore che qualifica i praticanti della meditazione Ch’an è l’auto-sostentamento, cioè i monaci debbono seguire una ferrea disciplina e provvedere a se stessi attraverso il lavoro nei campi ed ogni altra attività utile alla sopravvivenza… insomma ci si aspetta che i praticanti non “vivano sulle spalle altrui” con la scusa della religione…
E della religione, direi ogni religione visto che l’iconoclastia si spinge contro ogni teismo costituito, il Ch’an ha perso ogni odore…. “Se incontri il Buddha uccidilo” -disse il maestro I-hsuan- Se incontri patriarchi o arhat sulla tua strada uccidi anche loro… Bodhidharma era un vecchio barbaro barbuto.. il nirvana e la bodhi sono tronchi secchi utili per legarvi l’asino. Gli insegnamenti sacri sono solo elenchi di fantasmi, fogli di carta buoni per asciugare il pus delle vesciche…”. Divertente nevvero? Ma questa negazione del formalismo attinge alla realtà del “vuoto primordiale” nonché all’allegro disprezzo verso ogni perseguimento, verso la sclerosi culturale che si ferma alla forma, sia nella letteratura che nella religione.
Il Ch’an e lo Zen, infatti, puntano a sovvertire il pensiero convenzionale e la conoscenza di seconda mano in modo che l’illuminazione acquisti significato nell’esperienza personale. Per questo é necessaria una forte disciplina, senza disciplina non é possibile interrompere le “fantasie” acquisitive della mente… e la disciplina deve avere -ovviamente- una duplice valenza… fisica e mentale (”ora et labora” diremmo noi…).
Per risvegliare la mente, ed indurre i praticanti a superare i limiti del raziocinio, alcuni maestri si specializzarono in stupefacenti indovinelli che venivano sottoposti all’allievo. La domanda poteva essere “In che modo fai uscire l’oca dalla bottiglia?”, oppure “Qual’é il suono di una mano sola?”… Ovviamente qualsiasi risposta basata sull’analisi teorica veniva salutata dal maestro con grida e sonore bastonature.
Malgrado l’apparente durezza l’insegnante Ch’an o Zen è sempre ispirato dalla “compassione” e perciò sa riconoscere quando l’allievo è genuinamente penetrato nella profondità del Sé ed in quel caso la sua risposta è un silenzioso sorriso… oppure come disse ad Hakuin il suo maestro: “Entra.. adesso ce l’hai..!”
Paolo D’Arpini
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