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mercoledì 17 gennaio 2018

Giorgio De Santillana: "Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo" - Recensione


Risultati immagini per Giorgio De Santillana  Saggio sul mito e sulla struttura del tempo

"Il mulino di Amleto" è uno di quei rari libri che mutano una volta per tutte il
nostro sguardo su qualcosa: in questo caso sul mito e sull’intera compagine di
ciò che si usa chiamare «il pensiero arcaico». Cresciuti nella convinzione che
la civiltà abbia progredito «dal mythos al logos», «dal mondo del pressappoco
all’universo della precisione», in breve dalle favole alla scienza, ci troviamo
qui di fronte a uno spostamento della prospettiva tanto più sconcertante in
quanto è condotto da uno dei più eminenti illustratori del «razionalismo
scientifico»: Giorgio de Santillana. Proprio lui, che aveva dedicato studi
memorabili a Galileo e alla storia della scienza greca e rinascimentale, si
trovò un giorno a riflettere su ciò che il mito veramente raccontava – e capì
di non aver capito, sino allora, un punto essenziale: che anche il mito è una
«scienza esatta», dietro la quale si stende l’ombra maestosa di Ananke,

la Necessità. Anche il mito opera misure, con precisione spietata: non sono però
le misure di uno Spazio indefinito e omogeneo, bensì quelle di un Tempo ciclico
e qualitativo, segnato da scansioni scritte nel cielo, fatali perché sono il
Fato stesso. È questo Tempo che muove il «mulino di Amleto», che gli fa
macinare, di èra in èra, prima «pace e abbondanza», poi «sale», infine «rocce e
sabbia», mentre sotto di esso ribolle e vortica l’immane Maelstrom.

Di questo «mulino di Amleto» gli autori seguono le tracce in un percorso
vertiginoso, da Shakespeare a Saxo Grammaticus, dall’Edda al Kalevala,
dall’Odissea all’epopea di Gilgameš, dal Rg-Veda al Kumulipo, vagando dalla
Mesopotamia all’Islanda, dalla Polinesia al Messico precolombiano. I disiecta
membra del pensiero mitico, che ama «mascherarsi dietro a particolari
apparentemente oggettivi e quotidiani, presi in prestito da circostanze
risapute», cominciano qui a parlarci un’altra lingua: là dove si racconta di
una tavola che si rovescia o di un albero che viene abbattuto o di un nodo che
viene reciso non cerchiamo più il luogo di quegli eventi su un atlante, ma alziamo gli occhi verso la fascia dell’eclittica, la vera terra dove si svolgono gli avvenimenti mitici,
il luogo dove si compiono i grandi peccati e le imprese eroiche, il luogo dove
si è compiuto il dissesto originario, fonte di tutte le storie, che fu appunto
lo stabilirsi dell’obliquità dell’eclittica. Da quell’evento consegue il
fenomeno delle stagioni, archetipo della differenza e del ritorno dell’uguale.
Così il «mulino di Amleto» si rivelerà alla fine essere la stessa «macchina
cosmica».

«I veri attori sulla scena dell’universo sono pochissimi, moltissime invece le
loro avventure»: Argonauti che solcano l’Oceano delle Storie, navighiamo qui
sulla rotta di quelle avventure, che vengono ricomposte usando frammenti della
più disparata provenienza, vocaboli dei molti «dialetti» di una lingua cifrata
e perduta, «che non si curava delle credenze e dei culti locali e si
concentrava invece su numeri, moti, misure, architetture generali e schemi,
sulla struttura dei numeri, sulla geometria». Ma il mito si lascia spiegare
soltanto in forma di mito: la
struttura del mondo può essere soltanto raccontata. È questo il sottinteso dalla
forma labirintica, di temeraria fuga musicale, che si dispiega nelle pagine del
Mulino di Amleto. Qui la Biblioteca di Babele torna finalmente a essere invasa
dai flutti del Maelstrom e, attraverso un velo equoreo, intravediamo la dimora
del Sovrano spodestato, Kronos- Saturno, che un tempo stabilì le misure del
mondo e del destino.

Frutto di un lungo lavoro in comune con Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto
apparve negli Stati Uniti nel 1969 e da Adelphi nel 1983. Questa nuova edizione
ampliata tiene conto della revisione che Hertha von Dechend, dopo la morte di
Santillana (1974), condusse in funzione dell’edizione tedesca del 1993.
Negli anni in cui elaborava la sua opera capitale, Il mulino di Amleto, Giorgio
de Santillana pubblicò alcuni saggi che miravano a introdurci a quella nuova
visione, così sconcertante, di tutto il mondo arcaico. E innanzitutto si
soffermò sull’idea posta all’origine di ogni altra nella imponente concezione
del cosmo che ci appare già formata al nascere della scrittura: l’idea di fato.
Questa necessità scandita nel tempo, che tocca tutte le figure «sul “teatro del
mondo ammascherate”, come direbbe Campanella», ed è segnata dal moto degli
astri, si lascia riconoscere nei più svariati documenti: «nel paesaggio
coltivato, nelle immagini, nel mito, nella tradizione molte volte dispersa e
frammentata ma in cui si ravvisano, come i pezzi di un puzzle, ingegnose
costruzioni narrative che si erano venute diffondendo e che, ricomposte almeno
in parte, si rivelano essere il primo linguaggio scientifico». Ma la perfetta
«incastellatura di corrispondenze», per cui numeri e immagini si dispongono nei
punti nodali di un cosmo dove «tutto è come deve essere, se è», lascia
intravedere un dramma iniziale, «un grande conflitto dei primi tempi, in cui
venne dissestata la fabbrica dell’universo». Capire il mito o la scienza
arcaica, avvinti – come Santillana ci ha dimostrato – l’uno all’altra, è un
riscoprire le tracce sia di quell’ordine sia di quel dissesto. Dai Caldei a
Parmenide, a cui qui è dedicato un celebre saggio, è stato questo il fuoco
centrale del pensiero. Nei saggi qui raccolti torniamo a percepirne la luce.

"CINQUE volte nel corso di otto anni avviene che la stella Venere si levi al
momento che precede il levar del sole (momento solenne in molte civiltà). Ora,
i cinque punti così marcati sull' arco delle costellazioni, e congiunti secondo
l' ordine del loro succedersi, si rivelano formare un pentagramma perfetto (cioè
il disegno d' una stella a cinque punte). Questo sembra proprio un dono degli
dèi agli uomini, un modo di rivelarsi. Onde i Pitagorici dicevano: Afrodite si
è rivelata nel segno del Cinque. E il segno è diventato magico. Ma quale
intensità di attenzione e di memoria non ci volle per fermare in mente nelle
loro posizioni i cinque lampeggiamenti in otto anni del pianeta che appare per
poi perdersi subito nella luce del mattino - per ricostruire con l' intelletto
il diagramma che essi suggerivano". Da questa straordinaria precisione degli
antichi nell' osservare la volta del cielo, parte Giorgio de Santillana in un
libro piccolo di mole quanto denso e affascinante di contenuto: Fato antico e
fato moderno (Adelphi). Va detto subito cosa Santillana intende per "antichi" e
per "precisione". Gli "antichi" sono coloro che nel V millennio a.C. tra Caldea,
Egitto e India elaborarono "i lineamenti colossali di una vera astronomia
arcaica, quella che fissò il corso dei pianeti, che dette il nome alle
costellazioni dello zodiaco, che creò l' universo astronomico - e con esso il
cosmo - quale lo troviamo già pronto quando comincia la scrittura, verso il
4000 a.C.". Le testimonianze di questa sapienza nel calcolo del tempo astrale
sono nelle proporzioni degli zigguratt della Mesopotamia (la Torre di Babele
del calunniato Memrod era uno di questi complicati modelli dell' ordine del
cosmo), così come nella disposizione dei megaliti di Stonehenge. Quando
comincia la scrittura e con essa ciò che noi intendiamo per Storia, sembra che
quella identificazione della mente umana coi movimenti celesti cominci a venir
meno; Platone è ancora "l' ultimo degli arcaici e il primo dei moderni"; con
Aristotele la sapienza cosmica è già dissolta. Quanto alla precisione, è "una
passione di misura, che fa tutto centrato sul numero e sui tempi... In alto vi
saranno i numeri puri, poi le orbite del cielo, più giù le misure terrestri, i
dati geodetici, poi l' astromedicina, le scale e gli intervalli musicali, poi
le unità di misura, capacità e peso, poi la geometria, i quadrati magici...".

Giorgio de Santillana (1901 - 1974), romano, vissuto per trentacinque anni o più
negli Stati Uniti dove era professore al M.I.T., è stato uno storico della
scienza (Processo a Galileo è uno dei suoi libri più noti) che nella sua
indagine sulla storia del pensiero sopratutto matematico e astronomico ha dato
largo spazio al mito ("primo linguaggio scientifico") e all' immaginazione
letteraria. La sua monumentale opera Il mulino di Amleto, scritta in
collaborazione con una etnologa tedesca (allieva di Frobenius), Herta von
Dechend, ha per sottotitolo Saggio sul mito e sulla struttura del tempo ed è
paragonabile al Ramo d' oro di Frazer per la sterminata ricchezza di fonti
antropologiche e letterarie che intesse in una fitta rete attorno a un tema
comune. La chiave di tutti i miti, che per Frazer era il sacrificio rituale del
re e i culti della vegetazione, per
Santillana-Dechend sono le regolarità del tempo zodiacale e i suoi cambiamenti
irreversibili su lunghissima scala (precessione degli equinozi) dovuti all'
inclinazione dell' eclittica rispetto all' equatore. L' umanità porta con sè
una memoria remota degli spostamenti celesti, tanto che tutte le mitologie
conservano la traccia d' avvenimenti che si producono ogni 2.400 anni circa,
quali il cambiamento del segno zodiacale in cui si trova il sole all'
equinozio; non solo, ma quasi altrettanto antica è la previsione che l'
incessante lentissimo movimento del firmamento si saldi in un immenso ciclo o
Grande Anno (26.900 anni dei nostri). I crepuscoli degli dèi registrati o
previsti in varie mitologie si collegano a queste ricorrenze astronomiche;
saghe e poemi celebrano la fine dei tempi e l' inizio d' ere nuove, quando "i
figli degli dèi uccisi troveranno nell' erba i pezzi tutti d' oro del gioco di
scacchi che fu interrotto dalla catastrofe". Risalendo dalle fonti della
leggenda d' Amleto nelle cronache danesi e nelle mitologie nordiche, e
coinvolgendo poi africani Dogon, induismo, aztechi, autori greci e latini,
Santillana e Dechend rintracciano l' affiorare d' una prima problematica
filosofica: l' idea d' un cosmo ordinato le cui norme risultano sconvolte da
una catastrofe fisica e morale; e, in risposta a ciò, l' aspirazione al
ritrovamento d' un' armonia. l' idea che nessuna storia e nessun pensiero umani
possano darsi se non situandoli in rapporto a tutto ciò che esiste
indipendentemente dall' uomo; l' idea d' un sapere in cui il mondo della
scienza moderna e quello della sapienza antica si riunifichino. Il tema comune
dei quattro saggi di questo piccolo libro è il nesso tra Fato e libertà, cioè
il posto dell' uomo nell' universo così come lo concepivano gli antichi, o
meglio gli arcaici (e quegli arcaici conservatisi tali fino alle soglie del
nostro tempo, cioè i cosiddetti primitivi): il Fato che sovrasta tutti, uomini
e dèi (gli dèi sono identificati nei pianeti, che comandano ogni mutamento) e
la libertà che può essere raggiunta solo da chi comprenda e rispetti le leggi e
le misure del Grande Orologio. Il Fato era dunque ben diverso da quella potenza
imperscrutabile, oscuramente connessa con le nostre colpe, che è diventato dai
tempi della tragedia greca fino ai nostri: al contrario, l' idea di Fato
implicava la
conoscenza precisa della realtà fisica, e la coscienza del suo impero su di noi,
necessario e ineluttabile. I veri rappresentanti d' uno spirito scientifico
erano dunque loro, gli arcaici; non noi che crediamo di poterci servire delle
forze naturali a nostro piacimento, e dunque partecipiamo d' una mentalità più
vicina alla magia. Il coincidere col ritmo dell' universo era il segreto dell'
armonia, "musica" pitagorica che ancora in Platone regola l' astronomia come la
poesia e l' etica. Silenzio, musica e matematica: il programma pitagorico è
contenuto in questo trinomio; e sui Pitagorici - comprensibilmente prediletti
da Santillana - questo libro dà di scorcio definizioni illuminanti, così come
un' ampia e convincente interpretazione di Parmenide. Se talora egli sembra
esaltare un' età dell' oro prealfabetica e tingere in nero la cultura
tecnologica d' oggi asservita alla macchina, egli è pur sempre pronto a
dissolvere ogni illusione idillica sulle civiltà arcaiche, mostrando tutti gli
orrori e i traumi psichici che comportava il vivere a quei tempi; così come d'
ogni situazione nuova sa mettere in luce i valori, le possibilità che realizza
- insieme ai disvalori e alle perdite. ogni epoca ha le sue nevrosi collettive,
e non è detto che fossero tutte inevitabili.
"Lasciamo dunque le virtù del buon tempo antico. Un altro mondo".

Giorgio Diaz De Santillana (Roma, 30 maggio 1902 – Beverly, 1974) è stato uno
storico italiano, un fisico e filosofo della scienza, nonché docente al MIT.
Nacque a Roma in una famiglia di origini ebraiche. Si laureò in fisica
all'Università di Roma nel 1925. Trascorse due anni a Parigi e poi altri due
anni al dipartimento di fisica di Milano, poi fu richiamato a Roma da Federigo
Enriques per organizzare un corso di storia della scienza . Qui Santillana
insegnò storia e filosofia della scienza. Nel 1936, a causa dei crescenti
atteggiamenti anti-ebraici del regime fascista, si trasferì negli USA, dove
anni dopo ottenne la cittadinanza. Insegnò al MIT, dove nel 1942 divenne
professore assistente e nel 1948 professore associato. Nel 1954 ottenne la
cattedra di "Storia e filosofia della scienza".


Notizie inviate da Ferdinando Renzetti

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