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giovedì 11 gennaio 2018

"Contro l'architettura" di Franco La Cecla - Recensione


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CONTRO L’ARCHITETTURA 

Mai come adesso l’architettura è di moda. Nelle riviste, nei quotidiani, in televisione le opere delle superstar dell’architettura sono oggetto della curiosità di lettori che prima erano completamente digiuni in materia. Eppure mai come adesso l’architettura è lontana dall’interesse pubblico: incide poco e male sul miglioramento della vita della gente. A volte ne peggiora le condizioni dell’abitare. Questo accade perché l’architettura è diventata un gioco autoreferenziale, tutta incentrata sulla «firma», sulla genialità del singolo architetto, genialità che è quotata nella borsa della moda al pari di un qualunque brand. 

L’architettura ha molta più influenza nel bene e nel male sulle condizioni dell’abitare in una città. Gli architetti però si rifugiano in una artisticità che li esclude da qualunque responsabilità. Purtroppo ad essi spesso viene affidata la trasformazione di interi pezzi di città, trasformazioni che spesso compiono con incompetenza, superficialità e convinti che si tratti di un gioco formale. Ma le città funzionano diversamente: sono il territorio profondo su cui agisce l’inconscio collettivo, sono il luogo delle appartenenze e dei conflitti. Questo libro invita ad abbandonare le archistar al loro egoismo e ad accettare che l’architettura abbia esaurito la sua funzione. Oggi c’è bisogno di altro, soprattutto nella situazione di emergenza in cui le città e l’ambiente rischiano di diventare sempre più inabitabili.

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Note sull'autore di Contro L'architettura:

Franco La Cecla (Palermo, 1956) è un antropologo italiano. Nei suoi lavori ha affrontato a più riprese il tema dell'organizzazione dello spazio contemporaneo tra localismo e globalizzazione, rivolgendosi in particolare alle soglie, e ai confini tra le culture. Ha fondato nel 2005 a Londra ASIA (Architecture Social Impact Assessment), un'agenzia per valutare l'impatto sociale delle opere di architettura e di urbanistica. 

In collaborazione con la Cineteca di Bologna ha creato un progetto quinquennale di censimento mondiale degli archivi di filmati sull'emigrazione italiana. Insieme al regista Stefano Savona ha realizzato alcuni documentari sull'emigrazione siciliana in Tunisia (Sicilia, Tunisia, un confine di specchi, 2003) e sull'impatto delle nuove tecnologie sulla vita quotidiana in India (Gestualités portables, 2005) per il Centre Pompidou di Parigi. Per gli speciali del TG1 ha realizzato il documentario "I mari dentro" sulla comunità di pescatori di Terrasini emigrata a Gloucester, Massachusetts (2009) che ha vinto il premio Coast Culture del San Francisco Ocean Film festival (febbraio 2010). Ha ideato e diretto alcuni festival in Sicilia, GAIA, CREOLA e organizzato alcune mostre per Pitti a Firenze, tra cui "Perfetti e Invisibili, l'immagine dell'infanzia nei media". Insieme a Gianni Gebbia (sax), Diego Spitaleri (piano), Giorgia Meli (voce) ha messo in scena "Lasciami" al Festival di Letteratura di Mantova (2009). Collabora stabilmente con la Repubblica, Avvenire, Il Sole 24 ORE. • Palermo 1950. Antropologo. Allievo di Ivan Illich. • Insegna all’Università San Raffaele di Milano e al Politecnico di Barcellona, è stato professore a Parigi e a Venezia. «Ha lavorato con Renzo Piano e poi ha fondato un’agenzia per valutare l’impatto sociale delle opere di architettura, ciò che succede in una città in cui avviene una trasformazione urbana. Ed è stato impegnato in contesti molto diversi, da Tirana a Barcellona» (Francesco Erbani). • Nel 2008 fece scalpore il suo pamphlet Contro l’architettura (Bollati Boringhieri). Sua tesi: il sistema della moda e dei mass media ha arricchito pochi architetti e ucciso l’urbanistica. «È vero, la moda ha fagocitato il mondo dell’architettura, ha per lo più “ridotto” gli architetti ad artisti creatori di oggetti “alla moda”, deresponsabilizzandoli nei confronti del funzionamento della città e della società. Li ha trasformati in “creatori di trend” (come “stilisti”) al “servizio dei potenti di oggi... Senza Prada e Versace, afferma La Cecla, non ci sarebbero stati i vari Gehry, Koolhaas, Nouvel, Calatrava e Fuksas... Sono state le marche di moda a trasformare l’architettura in moda”. Quello che gli artisti hanno trovato nel sistema delle gallerie, dei curatori e nel mercato dell’arte, gli architetti lo hanno trovato nelle vetrine e negli stilisti. Anzi, afferma La Cecla, gli architetti hanno direttamente “preso il posto della maglietta firmata, sono diventati quella maglietta e quel paio di mutande”. E una volta che sono diventati mutande, anche i mass media si sono accorti degli architetti. Cancellata la critica architettonica e del restauro (anche se siamo il Paese con il 50% dei beni culturali) i media hanno fatto scivolare l’architettura, l’arte e il design dal “giornalismo culturale” al “giornalismo di moda”, direi dell’“intimo”, con responsabilità gravi per il nostro territorio. Tanto che ciò, come nota pure La Cecla, serve da alibi ad alcune “archistar” che finiscono con l’occuparsi “di decoro, di cose carine, come mutande disegnate da calciatori o starlet”. Ma La Cecla accusa anche la “continua presa di distanza” degli architetti dai loro progetti una volta che questi, specie quelli delle periferie, prestano il fianco a situazioni che diventano invivibili. Il riferimento è allo Zen di Vittorio Gregotti ma, in generale, a tutta l’architettura di quegli “apostoli che dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Ottanta hanno promosso l’idea che l’abitare andasse risolto con grandi costruzioni condominiali concentrate nelle aree vuote della città”, generando mostruose periferie che ricordano quelle istituzioni totali vituperate da Michel Foucault. Giustamente La Cecla individua nello spostamento di termini da “casa” ad “alloggio” l’orizzonte di questa degenerazione, il cui fallimento ha spianato la strada all’affermarsi del sistema della moda e, di conseguenza, al decostruttivismo internazionale. L’idea tayloristica di stoccare gli individui come ingranaggi di un sistema all’interno di alloggi razionali ha distrutto l’orizzonte storico-simbolico dell’architettura, ovvero quello delle relazioni primarie, ad esempio quella di vicinato, della cui perdita evidente anche gli architetti dovranno pur portare una responsabilità!» (Fulvio Irace). • Ha curato anche il libro Elogio della bicicletta (Bollati Boringhieri) «Scriveva Ivan Illich, lo scrittore e filosofo austriaco che in un certo modo fu un precursore dei no global: “La bicicletta richiede poco spazio. Se ne possono parcheggiare diciotto al posto di un’auto... Per portare quarantamila persone al di là di un ponte in un’ora, ci vogliono dodici corsie se si ricorre alle automobili e solo due se le quarantamila persone vanno pedalando in bicicletta”». (a cura di Lauretta Colonnelli). • Tra gli ultimi libri: L’Ape, antropologia su tre ruote (Elèuthera 2009), «la poco edificante storia di un suicidio industriale (del nostro paese) e soprattutto un ritratto strepitoso del veicolo multiuso che meglio rappresenta la globalizzazione attuale» (Filippo La Porta); Il punto G dell’uomo: desiderio al maschile (Nottetempo 2011): «Della morale comune. Il desiderio maschile è considerato invadente, disdicevole e egoista. C’è l’idea che gli uomini desiderino cose impronunciabili»; Una morale per la vita di tutti i giorni, con Piero Zanini (Elèuthera 2012); Non è cosa, con Luca Vitone (Elèuthera 2013), sull’oblio del rapporto che ci legava agli oggetti prima di ridurli a beni di consumo. 

(testo inviato da Ferdinando Renzetti)

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