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lunedì 10 novembre 2014

Latte in prestito... Dallo scrigno dei ricordi di Michele Meomartino


Foto di Gustavo Piccinini

Dallo scrigno dei ricordi di mia madre attingo, non senza curiosità e ammirazione, una perla di saggezza paesana. Alludo ad un’antica costumanza, il latte in prestito, che ordinava la vita di tanti contadini nel mio paese natale, in uso fino agli inizi degli anni ’60.

L’usanza, che probabilmente ha origine remote, nasceva dalla necessità di instaurare rapporti di reciprocità con il proprio vicinato. La dura vita di campagna, i lavori usuranti, l’esito incerto dei raccolti, le malattie, le disgrazie, ecc… esponevano le piccole comunità rurali a vivere in uno stato di perenne precarietà e di incertezza, fisica ed economica. Per allontanare lo spettro della miseria e assicurare un minimo di benessere a se stessi e alla propria famiglia, di solito molto numerose, non rimaneva altro che instaurare rapporti di solidarietà, concreta e scambievole, fondati sulla fiducia.

La gran parte delle famiglie dei contadini, proprietari e/o affittuari di piccoli appezzamenti di terra, allevavano anche animali. Il maiale, le galline, le oche, i conigli, ecc… non mancavano mai nelle loro stalle, nei piccoli locali ricavati nella stessa casa dove vivevano. Erano le provviste di carne che, peraltro, mangiavano di rado e solo in ricorrenze particolari come le feste. L’allevamento di una capra, invece, assicurava una buona scorta di formaggio.

Ma torniamo ai ricordi di mia madre sul latte in prestito. Mi racconta che si era instaurato un patto tra 7 – 8 famiglie che abitavano nello stesso quartiere e dove ognuna allevava una capra. Come consuetudine, dopo un paio di mesi dal parto, alla capra veniva sottratto il piccolo capretto per essere venduto ad un privato o ad una macelleria. Con quella piccola somma ricavata, la famiglia del contadino acquistava quelle poche cose che non riusciva ad auto prodursi…, altri tempi!

Da quel momento in poi tutto il latte della capra era disponibile per le esigenze della famiglia. Ma, a conti fatti,  nessuna sarebbe stata in grado con il poco latte che mungeva dalla sua capra di trasformarlo in prodotti caseari, a parte il consumo minimo di latte per le esigenze giornaliere.

Che fare, allora? Ecco l’idea illuminante!  Si conveniva che ad ogni famiglia, a turno, spettasse il  latte munto da tutte le capre in un giorno stabilito. Il lunedì a Tizio, il Martedì a Caio, il Mercoledì a Sempronio e così via fino a tutti i membri che avevano aderito all’accordo. Così facendo, la disponibilità di latte aumentava fino a 35 – 40 litri a famiglia.

Un calcolo abbastanza verosimile tenuto conto che dalle due mungiture giornaliere si ricavavano all’incirca 5 litri di latte a capra. Il quantitativo era sufficiente per produrre un certo quantitativo di formaggio.  La raccolta avveniva così. Nel giorno stabilito, qualcuno della famiglia, munito di secchi, si recava nelle stalle dei vicini e ritirava il quantitativo di latte della giornata. Il tutto veniva registrato con precisione meticolosa su un quadernetto, in modo tale che non ci fossero fraintesi nella successiva restituzione. E così di seguito: chi aveva preso in prestito il latte dagli altri quel giorno, nei giorni successivi, restituiva lo stesso quantitativo alle altre famiglie. Per alcuni mesi, mediamente ogni 7 – 8 giorni, a turno, ogni famiglia poteva contare su una buona scorta di latte.

Per la famiglia di mia madre, ad occuparsi di questi servizi erano lei, suo fratello maggiore e ovviamente la mamma. Quasi sempre, la persona a cui veniva venduto il piccolo capretto, una volta ammazzato, si premurava di restituire la parte dello stomaco che sarebbe servita per cagliare il latte.

Il giorno dopo la raccolta, la nonna lo versava in un grande contenitore di rame, meglio conosciuto nell’idioma locale con il nome di “cuttur”. Il recipiente, stagnato all’interno per evitare che il latte si irrancidisse, veniva appeso al gancio del caminetto. Una volta pronto il mucchietto di legnetti secchi posti sotto il contenitore si accendeva il fuoco e lentamente il latte cominciava a scaldarsi. Ma prima di versare il caglio bisognava portarlo alla giusta temperatura. Era un’operazione che richiedeva una certa perizia. Man mano che si alimentava il fuoco, mia nonna prima con il dito e poi con il gomito (!), si accertava di continuo che la temperatura non superasse i 37° - 38°. E non avendo a disposizione un termometro si lasciava guidare dall’esperienza.

Raggiunta la temperatura ideale si toglieva il recipiente dal camino e si versava il caglio. Con il passare dei minuti l’azione del caglio formava la pasta del formaggio separando la parte liquida da quella solida. La lavorazione successiva avveniva secondo le antiche tradizioni casearie:  prima si lavorava la pasta con le mani e si compattava, poi veniva sistemata nei  contenitori, nelle fuscelle, fruscell in dialetto, e infine si premeva forte per far fuoriuscire il siero.

Nei giorni successivi, la massa di pasta, ormai compatta, si salava più volte. Dopodiché il formaggio, ancora fresco, si toglieva definitivamente dalle fuscelle, una volta intrecciate con il giungo, e veniva sistemato in un locale idoneo per la definitiva stagionatura. Invece, dal liquido rimasto nel contenitore si otteneva la ricotta…

Che cosa posso aggiungere ancora a questo racconto, per me molto istruttivo, se non l’ammirazione per quelle famiglie che hanno saputo, in un’epoca, non certo facile, funestata da ben due guerre mondiali, individuare ed instaurare quei necessari e indispensabili rapporti di solidarietà senza i quali sarebbe stato molto più arduo vivere. Ovviamente la solidarietà non veniva praticata solo in occasione del latte in prestito, ma in tanti piccoli e grandi lavori domestici e di campagna.

Ho voluto raccogliere questa testimonianza di mia madre e trasmetterla, anche per un debito di riconoscenza nei confronti di quelle generazioni a cui appartengono i nostri nonni e genitori, che per tanto tempo, e forse ancora oggi, sono vittime di pregiudizi diffusi e di atteggiamenti sprezzanti, come si può facilmente intuire dagli epiteti che vengono loro spesso rivolti, come: cafoni, buzzurri, pecorai, terroni, zappatori, ignoranti,…

E’ vero, molti di loro erano analfabeti, alcuni sapevano a mala pena leggere e scrivere, ma hanno saputo unire i loro singoli sforzi per affrontare meglio la vita. Hanno compreso il grande valore della condivisione perché solo unendosi hanno potuto sopravvivere.

Una bella lezione, frutto della sapienza antica, per le nuove generazioni che, spesso, forti di una presunta superiorità intellettuale, di fronte alle nuove sfide, preferiscono rinchiudersi in un desolante e sterile individualismo. Per fortuna non sempre è così…

 Michele Meomartino

2 commenti:

  1. Caro Michele, bellissima descrizione. Ho vissuto anch'io i bei tempi in cui la nonna preparava il formaggio quando il latte (vaccino) abbondava. Dopo seguiva la ricotta. Dalle camere sopra la cucina, arrivava l'odore acido del latte cagliato che poi veniva dato da bere alle mucche, mentre in tempo di guerra, mia mamma e le mie zie se lo rubavano per la fame... Il dito sì, poi il gomito perché col gomito hai più la sensazione della temperatura giusta; si faceva così anche per fare il bagnetto ai bambini. Grazie ancora per la rispolverata.

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