Per cambiare il corso delle cose, bisogna passo dopo passo
rafforzare il Nuovo Potere a fronte del potere della Repubblica Pontificia!
A introduzione dell’argomento di questo Avviso riportiamo da il manifestino dei lavoratori Piaggio del 18 agosto un quadro sia pur sommario e parziale della situazione di alcune aziende capitaliste a Livorno e provincia premettendo, a proposito proprio della Piaggio di Pontedera (Pisa), quanto scrivemmo nel Comunicato CC 3/2014 del 21 gennaio 2014:
“Per cambiare il corso delle cose imposto dalla borghesia imperialista non bastano le proteste e le rivendicazioni sindacali, anche se sono condotte con autonomia e perfino in opposizione alla destra che dirige le organizzazioni sindacali di regime. Le vicende vissute dagli operai della Piaggio di Pontedera (PI) nel corso degli ultimi anni sono la dimostrazione più chiara e lampante di questa verità: le RSU combattive sono ridotte a dover far fronte al contratto di solidarietà per quasi la metà degli operai ancora presenti, che oramai sono ridotti a circa un quarto di quanti erano solo alcuni anni fa. Non bastano sovvenzioni e alleggerimenti fiscali a beneficio delle aziende che i padroni vogliono ridurre, delocalizzare o chiudere. Bisogna dare il via a una trasformazione generale del sistema di relazioni sociali del paese. E il primo paese imperialista che lo farà, mostrerà la strada e aprirà la via anche alle masse popolari degli altri paesi, che hanno bisogno anch’esse di cambiare il corso delle cose”.
Livorno, la “scomparsa” degli operai. La crisi dell’auto colpisce al cuore la città
Non solo il crac della sinistra battuta alle elezioni dal M5S, ma anche il declino della componentistica auto. Qui nascono sterzi, serrature, impianti a gpl: ma in 6 anni si sono persi mille posti di lavoro. La storia-simbolo: Mtm, da 800 operai al rischio chiusura.
Grazie al boom degli ecoincentivi per auto ecologiche era arrivata a occupare nel 2009 oltre 800 operai: adesso è rimasta con 108 dipendenti in cassa integrazione e rischia la chiusura. La storia è quella dello stabilimento Mtm di Guasticce (paese alle porte di Livorno) specializzato nell’installazione di impianti a gpl sulle auto. “L’azienda – racconta Simone Puppo, responsabile componentistica della Fiom – non sembra vedere all’orizzonte prospettive di rilancio e potrebbe chiudere. L’80 per cento delle difficoltà di Mtm sono legate al progressivo taglio degli ecoincentivi”. Il mercato delle auto a gpl era stato “drogato” dai cospicui incentivi stanziati nel 2009 dall’allora ministro allo Sviluppo economico Claudio Scajola. “Non dobbiamo inoltre dimenticare – aggiunge il sindacalista – che adesso la maggior parte delle case automobilistiche ha internalizzato l’operazione di montaggio dei kit per il gpl. La crisi del mercato dell’auto ha fatto il resto”. Ilaria Landi della segreteria provinciale Uilm conferma: “L’azienda ci ha comunicato che a Livorno non ha più volumi: il futuro è molto incerto”. Nei giorni scorsi è stato raggiunto l’accordo per la cassa integrazione in deroga fino a fine agosto, con il rinnovo dei sussidi per un mese. Ai lavoratori l’azienda potrebbe però anche proporre una mobilità volontaria e incentivata. Le tute blu erano venute a conoscenza della gravità della situazione a metà maggio, quasi per caso. “Mi dispiace che da lunedì non porteremo più auto nella vostra fabbrica”, aveva dichiarato un camionista ai lavoratori. A quel punto era iniziato un presidio permanente all’interno della fabbrica. E ora il futuro dello stabilimento labronico resta assai incerto. L’azienda ha sede a Cherasco (in provincia di Cuneo): circa 800 i dipendenti occupati in Piemonte. Il timore di molti lavoratori livornesi è che Mtm voglia definitivamente chiudere lo stabilimento di Guasticce per concentrare la sua produzione nel quartier generale di Cherasco: “Questo non deve assolutamente succedere”, dice Landi [quando c’è un appiglio per trasformare la contraddizione tra lavoratori e padroni in contraddizione tra lavoratori, la scuola UIL non si smentisce mai! - nota nostra]. Mtm si era insediata nella periferia livornese nel 2008 avviando la produzione con una sessantina di addetti. La manodopera – gran parte della quale assunta con contratto a termine – era poi progressivamente lievitata (oltre 800 operai a fine 2009) per far fronte al boom delle vendite di auto a gpl. Con la drastica riduzione degli ecoincentivi è però di conseguenza arrivata la progressiva sforbiciata ai contratti in scadenza e il successivo ricorso alla cassa integrazione. La crisi della Mtm rappresenta solo la punta dell’iceberg nel panorama della componentistica di Livorno, settore industriale su cui si fondava una buona parte della manodopera nella città che ha già subito il “crac della sinistra” (con il trionfo M5S): “Dal 2008 a oggi – spiega Puppo – abbiamo perso un migliaio di posti di lavoro, circa un quarto dell’intera manodopera occupata nel settore”. Nei mesi scorsi era stato l’assessore regionale al lavoro Gianfranco Simoncini a chiedere al governo di riconoscere il polo produttivo livornese tra le aree di crisi industriale complessiva.
L’esponente Fiom traccia poi una rapida radiografia del comparto. La Trw fabbrica sterzi (“l’80% della produzione riguarda Fiat”) e occupa al momento 420 addetti: “E’ dal 2008 che si fa ricorso agli ammortizzatori”. Alla Magna (serrature per Audi e Fiat) i dipendenti sono circa 540: “La fabbrica ha vissuto in passato anni difficili. La situazione è leggermente migliorata: nessun ammortizzatore sociale è al momento aperto”. L’unico grande soggetto che non sembra aver risentito della crisi è la Pierburg (l’azienda produce pompe olio e occupa circa 300 lavoratori): “Negli ultimi tempi si è anche ricorso agli interinali”. Notte fonda infine per i 130 operai della ex multinazionale Delphi (nel 2006 gli allora 400 dipendenti furono licenziati via e-mail) assunti a inizio 2010 da Gian Mario Rossignolo (l’ex manager Telecom è stato poi arrestato con l’accusa di truffa allo Stato nel 2012) per il progetto De Tomaso. La fabbrica inaugurata nel marzo 2011 avrebbe dovuto sfornare auto di lusso, ma non è mai entrata in funzione. I 130 ex Delphi sono in cassa integrazione da otto anni, ma non ci sono imprenditori interessati a investire. “Mi auguro che il sindaco Nogarin – conclude Puppo – incontri quanto prima le organizzazioni sindacali: oggi si parla di tutto tranne che dei problemi della componentistica”.
Uno sguardo anche alla realtà portuale, settore fondamentale per lo sviluppo livornese che occupa direttamente 1500 addetti (più circa 6500 lavoratori dell’indotto). La situazione appare delicata: “Dal 2008 a oggi nessun posto di lavoro perso – spiega Simone Angella, responsabile di settore della Filt-Cgil – ma il dramma è stato evitato grazie a un ampio ricorso agli ammortizzatori sociali. I lavoratori hanno pagato con le proprie tasche questa crisi”. Il lavoro sulle banchine scarseggia: negli ultimi 5 anni si è perso il 25% del traffico merci. La storica Compagnia portuale di Livorno (400 lavoratori) “usufruisce da almeno cinque anni dei contratti di solidarietà”, mentre gli addetti Alp (unico soggetto autorizzato dalla legge 84/94 sui porti a poter fornire manodopera temporanea per far fronte ai picchi di lavoro) “effettuano soltanto 9 turni al mese”. Secondo Angella il porto necessita di nuove infrastrutture: “Da questo punto di vista siamo fermi da 10 anni. L’ultima grande opera realizzata nel nostro scalo, la Darsena Toscana, risale alla fine degli anni Settanta”.
L’intero territorio livornese non sembra ancora essersi ripreso dagli effetti della crisi. Secondo recenti dati Istat il tasso di disoccupazione generale nell’intera provincia si aggira intorno al 9% (tra i 15 e i 24 anni si sale al 30%). “La situazione – taglia corto il segretario provinciale Cgil Maurizio Strazzullo – resta drammatica. Abbiamo dovuto giocare in difesa per tentare di salvare quanti più posti di lavoro possibili: purtroppo all’orizzonte non sembrano esserci nuovi imprenditori”. La preoccupazione maggiore (“la vertenza madre”) è per le sorti del polo siderurgico piombinese: in ballo circa 5mila posti di lavoro tra diretti (Lucchini, Magona e Tenaris Dalmine) e indiretti.
Il settore su cui la crisi ha pesato maggiormente? “L’edilizia: dal 2008 a oggi si è perso il 40% della forza lavoro”.
David Evangelisti
La crisi generale del capitalismo rende instabile in tutti i campi e in ogni paese il dominio della borghesia imperialista e del suo clero; porta la borghesia imperialista e il suo clero a condurre una guerra di sterminio non dichiarata contro le masse popolari in tutto il mondo anche nei paesi imperialisti (il numero dei disoccupati, degli emarginati e dei disperati aumenta in ogni paese); la crisi per sovrapproduzione assoluta di capitale porta ogni capitale a doversi aprire il terreno per la sua valorizzazione eliminando altri capitali. Questa guerra dei capitalisti contro le masse popolari e dei capitalisti tra loro si traduce nella politica di eliminazione delle conquiste politiche, economiche e culturali delle masse popolari all’interno di ogni paese e nella politica di guerra a livello internazionale: le relazioni politiche sono l’espressione concentrata delle relazioni economiche.
I gruppi imperialisti considerano tutto il mondo un terreno che deve essere aperto alle loro scorrerie (il TTIP in gestazione rafforza questo stato delle cose). I magnati della finanza, delle banche e dell’industria formano raggruppamenti, nazionali come negli USA o regionali come in Europa, che dispongono dei governi e degli Stati dei singoli paesi e con essi in ogni paese impongono i loro interessi alle masse popolari e li fanno valere nel mondo.
In ogni paese le masse popolari e tra esse la classe operaia si trovano in condizioni analoghe a quelle di un paese occupato dallo straniero. Non una classe dirigente che per raggiungere i suoi obiettivi (valorizzare il suo capitale) organizza e riorganizza la vita della massa della popolazione realizzando un progresso complessivo della sue condizioni rispetto a quelle preesistenti, per quanto operi “con il ferro e con il fuoco” e facendo pagare un prezzo di sangue e di sudore (nella sua fase di ascesa principalmente questo fu la borghesia). Ma un dominio straniero che sconquassa ogni giorno di più e senza che se ne veda un limite (che in effetti non c’è) le condizioni della vita della massa della popolazione. Questa subisce perché non ha proprie istituzioni statali e sociali. Per porre fine al degradarsi della sua condizione, deve quindi crearsele nella lotta per liberarsi dall’occupante. Non si tratta di perseguire una maggiore partecipazione delle masse popolari al governo dello Stato che domina nel paese. Per sua natura è uno Stato nemico. Indurre le masse popolari a considerare lo Stato borghese come il proprio Stato è la sostanza dell’imbroglio con cui i borghesi paralizzano la lotta delle masse popolari, dell’opera della sinistra borghese, della concezione e della linea dei riformisti (parlamentaristi o conflittuali, pacifisti o armati [“colpirne uno per educarne cento”] che siano) e dei revisionisti. Il corso delle cose prodotto dalla crisi generale del capitalismo è tale che sia chiedere sia pretendere qualcosa dallo Stato borghese porta fuori strada. Bisogna che le masse popolari creino un proprio Stato. Mai come ora fu così radicalmente vera la tesi marxista che “lo Stato borghese si abbatte, non si cambia: le masse popolari devono creare un proprio Stato”.
Questa lotta è inevitabile ed è la rivoluzione socialista: la guerra popolare rivoluzionaria attraverso la quale si afferma il Nuovo Potere. Essa avanza grazie al Partito comunista che la promuove; che grazie alla concezione comunista del mondo sa che è necessaria e possibile ed è capace di comprenderne le leggi, le condizioni e le forme; che la propaganda e raccoglie e forma le sue forze perché combattendo imparino a combattere; che coglie ogni situazione in cui lo scontro può svilupparsi con successo, lo promuove, lo sostiene e lo dirige; che coordina lo sviluppo di tutti gli scontri in modo che si combinino fino a comporre la guerra popolare rivoluzionaria che instaurerà il Nuovo Potere. A grandi linee come avviene in un paese occupato che l’occupante sottopone a saccheggio e spoliazione. La lotta incomincia in tutti i punti in cui creiamo le condizioni favorevoli, senza che la popolazione abbia una propria autorità generale già affermata: il nemico ha istituzioni e forze armate, noi no, abbiamo solo il nucleo promotore della guerra, il Partito.
Questa è quindi una guerra per il progresso perché trasforma la società borghese secondo la linea che le è propria raccogliendo e valorizzando tutti i suoi apporti storici. Ma è anche una guerra che alle masse popolari è imposta perché la borghesia e il suo clero sono oramai una forza di devastazione e distruzione senza fine: per le masse popolari è una guerra per la sopravvivenza. Quanto celermente si estenda e rafforzi, dipende principalmente dalle forze che via via siamo capaci di far scendere in guerra, perché la borghesia e il suo clero (lo straniero occupante) quanto a loro non possono che proseguire la spoliazione e il saccheggio. Lo devono fare per perpetuare il loro sistema di relazioni sociali nonostante la crisi generale del capitalismo: è la condizione della loro sopravvivenza.
Un nemico occupa quindi il nostro paese anche se parla la nostra stessa lingua e se il suo potere si avvale di istituzioni e di procedure di lunga tradizione. Esso non solo sta distruggendo una dopo l’altra le conquiste che le masse popolari hanno strappato nel corso della prima ondata della rivoluzione proletaria, nella prima parte del secolo scorso, e crea così condizioni peggiori di quelle di un tempo perché le vecchie condizioni di vita (in sintesi: l’economia di sussistenza e di vicinato) non esistono più, ma spreme e schiaccia senza limiti una parte crescente della popolazione e stringerà la sua morsa finché non glielo impediremo; sta privatizzando, riducendo e peggiorando i servizi pubblici in cui si concretizzava la civiltà raggiunta; sta riducendo o eliminando le aziende lavorando nelle quali il proletariato riceveva il reddito di cui vive; sta distruggendo per una parte crescente della popolazione i rapporti sociali attraverso cui ricavava da vivere e la riduce alla disperazione. Il suo dominio tuttavia si protrae nel tempo principalmente perché le masse popolari non hanno già pronto un altro modo di associarsi e condurre la loro vita sociale e solo secondariamente perché una parte delle masse popolari ha riserve che la borghesia imperialista e il suo clero non hanno ancora spremuto.
Disperarsi? Limitarsi a protestare e denunciare? No! Proprio la vastità delle distruzioni che il loro dominio produce e il fatto che la distruzione anche se graduale procede senza termine, creano le condizioni perché le masse popolari instaurino nuove forme di vita sociale atte a garantire i servizi, la produzione, la distribuzione e gli altri vari aspetti della vita sociale che la borghesia imperialista e il suo clero non assicurano più. Fare la rivoluzione socialista vuol dire portare le masse popolari a instaurare, anche se per forza di cose gradualmente e incominciando ora qui ora là man mano che in quel punto si hanno le condizioni favorevoli, ma con continuità e su scala crescente, relazioni sociali (politiche, economiche e altre, della società civile) loro proprie, le cui forme, a grandi linee, esistono già come presupposti del socialismo nella società attuale. Vuol dire caso per caso mobilitare le masse popolari e portarle a organizzarsi e gestire la propria vita sociale senza la borghesia imperialista e il suo clero, contro di loro. Non è un’impresa facile a farsi, ma è un’impresa possibile e necessaria.
Non instauriamo di colpo, né sarebbe possibile instaurare di colpo un nuovo ordine sociale in forme compiute e in tutte le ramificazioni che la vita sociale comporta. Ma diamo caso per caso un corso diverso al disordine che comunque la borghesia e il suo clero creano man mano che, spinti dalla crisi generale del capitalismo, distruggono il vecchio ordine che si è formato nel corso della prima ondata della rivoluzione proletaria; caso per caso preveniamo l’attacco della borghesia e del suo clero quanto più siamo capaci di farlo, quanto più impariamo a farlo; caso per caso approfittiamo delle condizioni favorevoli per indebolire la resistenza della borghesia ai nostri attacchi e neutralizzare la repressione.
Un caso particolare ad esempio di molti: un’azienda che il capitalista decide di chiudere
Per esporre più chiaramente il concetto, esaminiamo a modo d’esempio un caso particolare, un ben definito atto della guerra di sterminio non dichiarata che la borghesia imperialista e il suo clero conducono contro le masse popolari. Consideriamo un’azienda che il capitalista decide di chiudere. Quello che diremo per il caso particolare preso in esame è estensibile, con adattamenti, a tante altre situazioni reali che si moltiplicano man mano che la crisi del capitalismo segue il suo corso: la chiusura di un ospedale o di un scuola, la riduzione o eliminazione di un servizio, l’impiego di edifici per abitazione o altri usi, la salvaguardia del territorio e dell’ambiente, le bonifiche di edifici e di territori, ecc.
Per il capitalista la sua azienda è la materializzazione del suo capitale, una forma del suo capitale. Egli la computa in denaro e il sistema di relazioni sociali di cui è esponente richiede che questo denaro generi nuovo denaro, si valorizzi. Un’azienda capitalista che non produce profitti non può esistere e che una data azienda produca o no profitti dipende principalmente dal corso generale degli affari. Anche se produce profitti ma lo stesso capitale può produrne di maggiori impiegato altrimenti (in particolare ora attraverso la speculazione finanziaria), l’azienda per il capitalista è condannata.
Ma noi comunisti non guardiamo all’azienda solo dal punto di vista del capitalista. Secondo la concezione comunista del mondo la società è divisa in classi con interessi contrapposti. Dal nostro punto di vista, un’azienda capitalista è almeno anche altre tre cose:
1. è un centro di produzione di beni e servizi per il resto del mondo, con specifiche competenze, conoscenze e corrispondenti attrezzature, organizzazione e relazioni;
2. è un collettivo di lavoratori oggettivamente costituito capace di una vita politica, sindacale e culturale più o meno intensa (l’intensità dipende sostanzialmente dallo stato generale del movimento comunista cosciente e organizzato, ma anche dalla storia particolare dell’azienda e del territorio dove è ubicata, dalla coscienza e volontà dei lavoratori);
3. può essere (e in una certa misura comunque già è) un centro di riferimento, di orientamento, di aggregazione, di organizzazione e di direzione per le masse popolari della zona circostante (della lotta di classe e della loro vita, ha strumenti (locali di riunione e altro) per esserlo: lo si è visto in casi di calamità naturali e di altre vicende) e di connessione di questo con la lotta di classe dell’intero paese.
Quando il capitalista chiude la sua azienda, questo secondo la prassi vigente comporta che gli operai e impiegati che vi lavoravano sono o licenziati con una liquidazione o buonuscita, o messi in mobilità, o messi in CIG o una combinazione definita di queste tre sorti (ammortizzatori sociali e sussidi di disoccupazione). Viene comunque meno il vecchio rapporto di lavoro, in cui i lavoratori diretti dal capitalista producevano merci che il capitalista vendeva e in questo modo valorizzavano il capitale che il capitalista aveva investito nell’azienda. È la morte lenta a cui oggi nel nostro paese sono già sottoposte centinaia di aziende; è la morte lenta che attende molte altre aziende se non cambiamo in tempo il corso delle cose, se non preveniamo i padroni, se non passiamo dalla difesa all’attacco.
Supponiamo ora che il collettivo aziendale non accetti di sciogliersi, si impadronisca dei locali, del macchinario, dei magazzini, che abbia la forza e la volontà per farlo.
Basta questo per continuare a produrre? Evidentemente no, occorrono un sistema di direzione, vie di rifornimento (di materie prime, semilavorati, materiale ausiliario, pezzi di ricambio, energia, ecc.), sbocchi per i prodotti, danaro liquido (quello che per il capitalista è il capitale circolante). È pensabile di imporre alla pubblica amministrazione e alle banche di fornire il circolante necessario per pagamenti e acquisti, come ora sborsano le liquidazioni, gli assegni di mobilità e di CIG, i vari ammortizzatori sociali. Quanto agli sbocchi per i prodotti, è pensabile di imporre alla rete commerciale di assorbire i prodotti dell’azienda, di ridurre la quantità prodotta se eccede il fabbisogno per il mercato nazionale e per gli accordi di esportazione e importazione che si riescono a stabilire, di impiegare il tempo di lavoro così liberato in altri lavori o per le attività politiche, culturali e formative dei lavoratori. Un elemento della crisi generale del capitalismo consiste nel fatto che il tempo di lavoro (la durata della giornata lavorativa) che il capitalista impone e deve imporre al singolo operaio (perché il suo lavoro sia produttivo di plusvalore per il capitalista) moltiplicato per il numero di lavoratori disponibili (i proletari) è enormemente superiore al tempo di lavoro necessario a produrre (con le forze produttive attuali) i beni e i servizi che il mercato è in grado di assorbire (e anche i beni e i servizi che entrano nel consumo dell’intera umanità, anche se questo è valutato al livello necessario perché tutta l’umanità conduca una vita civile): è la contraddizione tra il contenuto del processo lavorativo e la sua forma capitalista. Che i lavoratori (e tutti gli esseri umani) dedichino una parte crescente del loro tempo alle attività specificamente umane (alla politica, alla cultura, alla ricerca, allo sport, alle attività utili alla formazione fisica e spirituale di ogni individuo, alle attività necessarie perché la massa della popolazione impari a organizzarsi e a pensare, ecc.) è incompatibile con il modo di produzione capitalista (“perché insegnare filosofia a uno che farà lo spazzino?”, esclamano all’unisono Letizia Moratti della banda Berlusconi e Luigi Berlinguer del circo PD), ma è del tutto conforme ai presupposti del comunismo già presenti dalla società borghese. Quindi che si riduca la produzione alla misura del consumo o fabbisogno previsto e che i lavoratori si dedichino ad altre attività, è un aspetto della ricchezza del futuro di cui la società borghese ha creato i presupposti, benché sia cosa che può imporsi solo in lotta con la prassi del capitalista (Marchionne ha ridotto le pause agli operai che fa lavorare, gli altri li ha gettati sulla strada - Renzi sopprime i permessi sindacali).
Ritorniamo ora al nostro collettivo aziendale: cosa fa sì che abbia la forza e la volontà necessarie per non lasciarsi sciogliere e per prendere in mano l’azienda, per imporre il suo ordine nell’azienda sottratta al capitalista?
Il percorso e le misure fin qui indicate che esso deve imporre non corrispondono a quanto la borghesia e il suo clero vogliono, a quanto sono abituati a fare e far fare. Ma dal punto di vista economico non lo contrastano più di quanto lo contrastano il versare ammortizzatori sociali, l’occupazione di uno stabile vuoto, le manifestazioni di strada e altre azioni che la borghesia e il suo clero ingoiano. È dal punto di vista politico, dei rapporti di potere, che lo contrastano radicalmente. Il percorso e le misure indicate fanno sorgere un centro di potere antagonista a quello della borghesia e del suo clero. Si creano due poteri antagonisti. È possibile?
Il collettivo di un’azienda per avere la forza di seguire con successo la strada indicata deve 1. essere abbastanza coeso al suo interno, capace di una volontà comune (quanto al ruolo dell’azienda come centro di produzione nel contesto nazionale e mondiale e quanto a quello che è in grado di realizzare in termini di protezione dell’ambiente, gestione dell’energia e delle materie prime, ecc.) e 2. avere un ricco sistema di relazioni e appoggi nel resto della società. Queste condizioni si formano con lo sviluppo generale del movimento comunista, ma richiedono anche nella singola azienda un lavoro preventivo, precoce e lungimirante, di comprensione, denuncia e contrasto del percorso con cui il capitalista ha creato le condizioni per chiudere l’azienda e di aggregazione organizzativa e ideologica dei lavoratori.
Dove noi abbiamo la forza (l’ascendente, il seguito, l’autorevolezza, le capacità) per fare esistere tutto questo per quanto riguarda i lavoratori, quindi dal lato delle masse popolari, dal lato della borghesia e del suo clero impedirlo e distruggerlo imponendo il loro disordine (che ognuno si arrangi, liquidazione, CIG, sussidio di disoccupazione, ammortizzatori sociali vari, ecc.) non è operazione semplice, né è scontato il loro successo. Sono due poteri che si scontrano, ma in condizioni in cui noi possiamo vincere se la coesione nel nostro campo è sufficiente. La borghesia e il suo clero non sono un blocco unico: un capitalista ha deciso che a lui conviene chiudere, ma il resto della borghesia e del suo clero ha bisogno della collaborazione e dell’acquiescenza delle masse popolari, queste se si organizzano autonomamente non hanno più bisogno della borghesia e del suo clero; la borghesia e il suo clero dispongono di forze armate formate ed equipaggiate per reprimere, ma metterle in moto presenta alcuni rischi anche per la borghesia e il suo clero, la loro fedeltà e unità non sono a tutta prova e il corso della crisi generale le mette a dura prova; la borghesia e il suo clero dispongono di un ben rodato sistema di diversione e divisione: sta al nostro campo mettere a punto le misure necessarie per farci fronte e anche qui il fattore decisivo è la coesione del nostro campo, quindi dipende da noi.
È chiaro che, salvo casi eccezionali, una soluzione come quella descritta non può essere adottata e imposta solo per azione di un singolo collettivo aziendale, come una nicchia, mentre il resto della società continua il suo corso come niente fosse, né è in grado di adottarla e imporla un collettivo aziendale che si pone il problema solo all’ultimo momento, quando il padrone chiude. Ogni singola soluzione comporta un rapporto di forza tra classi che implica, oltre a un certo livello di coesione del collettivo aziendale, un sistema di relazioni del collettivo aziendale con altri collettivi aziendali e con altri organismi popolari, il loro appoggio all’azione del collettivo, per cui lo scontro delle istituzioni della borghesia e del suo clero con il collettivo è scontro con una rete di organismi, è scontro tra due classi.
Quindi per arrivare al risultato illustrato, ogni collettivo aziendale deve organizzarsi al suo interno al modo dei Consigli di Fabbrica di un tempo, gli operai più avanzati devono costituirsi in organismi operai (OO). Ogni collettivo deve proiettarsi all’esterno dell’azienda, usarla come centro di mobilitazione della popolazione della zona circostante, spingerla a costituire organismi popolari (OP). Sulla scala più larga, regionale e nazionale, le OO e OP devono stabilire relazioni di solidarietà, di collaborazione, di scambio in ogni terreno, fino a costituire una rete di istituzioni: le istituzioni locali del Nuovo Potere.
L’azione descritta da parte del collettivo del caso preso ad esempio è per sua natura e per la forza delle cose partecipazione al movimento per costituire un governo d’emergenza dell’intero paese, il Governo di Blocco Popolare che dia forza e forma di legge ai provvedimenti che ogni particolare collettivo elabora e adotta, un governo che faccia suo il programma riassunto nelle Sei Misure Generali:
1. Assegnare a ogni azienda compiti produttivi (di beni o servizi) utili e adatti alla sua natura, secondo un piano nazionale (nessuna azienda deve essere chiusa).
2. Distribuire i prodotti alle famiglie e agli individui, alle aziende e ad usi collettivi secondo piani e criteri chiari, universalmente noti e democraticamente decisi.
3. Assegnare ad ogni individuo un lavoro socialmente utile e garantirgli, in cambio della sua scrupolosa esecuzione, le condizioni necessarie per una vita dignitosa e per partecipare alla gestione della società (nessun lavoratore deve essere licenziato, ad ogni adulto un lavoro utile e dignitoso, nessun individuo deve essere emarginato).
4. Eliminare attività e produzioni inutili o dannose per l’uomo o per l’ambiente, assegnando alle aziende altri compiti.
5. Avviare la riorganizzazione delle altre relazioni sociali in conformità alla nuova base produttiva e al nuovo sistema di distribuzione.
6. Stabilire relazioni di solidarietà, collaborazione o scambio con tutti i paesi disposti a stabilirle con noi.
Con questo il collettivo diventa per forza di cose un organismo politico, l’istituzione locale di un nuovo potere, di un sistema politico antagonista a quello della Repubblica Pontificia.
Il ruolo che il collettivo deve svolgere comporta che esso abbia una capacità di gestione di rapporti interni (coesione, disciplina, creatività, egemonia, ecc.) e di rapporti esterni (progettazione, relazioni commerciali e altro) che non è patrimonio abituale dei lavoratori. Il livello culturale e la capacità di coesione sociale e di organizzazione sono molto cresciuti tra le masse popolari con la prima ondata della rivoluzione proletaria; questo e il disastro che comportano le soluzioni che via via la borghesia e il suo clero adottano (il corso delle cose che essi impongono) sono fattori che favoriscono la soluzione che abbiamo illustrato. Tuttavia resta che occorre una capacità di direzione, di organizzazione, di egemonia che non è patrimonio corrente e che per far fronte con successo alle raffinate arti di dominio di cui dispongono la borghesia e il suo clero le masse popolari devono far tesoro della concezione comunista del mondo. Quindi accanto alla rete di OO e OP e a loro promozione, supporto, orientamento e direzione deve formarsi la rete dei Comitati di Partito (CdP). Essi uniscono, formano e danno forza e capacità di azione sociale agli elementi più avanzati e generosi delle masse popolari, disposti a compiere da subito volontariamente lo sforzo necessario per trasformarsi, per compiere personalmente quella trasformazione della concezione del mondo, della mentalità e in qualche misura anche della personalità con cui il singolo individuo si ritrova formato dalla sua storia personale.
Per fare le rivoluzione socialista è indispensabile che la parte più avanzata delle masse popolari si unisca e si educhi, si formi e trasformi per essere capace di orientare e dirigere il resto delle masse popolari: senza Partito comunista unito sulla concezione comunista del mondo è impossibile fare la rivoluzione socialista.
La rivoluzione socialista è il risultato sicuro dell’attività di un Partito che applica nella lotta di classe la concezione comunista del mondo, che conduce la lotta di classe con una comprensione abbastanza avanzata delle sue condizioni, forme e risultati. La lotta di classe è, come ogni altra cosa, conoscibile e comprensibile, quindi è possibile dirigerla. Non esiste niente che gli uomini non sono capaci di conoscere e padroneggiare. Non esiste alcuno degli dei e dei misteri di cui si ammantano i preti e a loro modo anche i borghesi e ogni classe dominante: la forza di ogni classe dominante in definitiva sta infatti nell’arretratezza e nella debolezza delle classi che non sono ancora capaci di governarsi da sé, che hanno bisogno del suo dominio, che solo grazie alla sua direzione riescono a produrre anche quello di cui esse stesse hanno bisogno e a fare quello di cui esse stesse hanno bisogno. La classe dominante impersona l’organizzazione sociale che la massa della popolazione non è in grado di darsi autonomamente. La liberazione dall’oppressione di classe non richiede di patire con gli oppressi, di condividere la loro pena, ma di insegnare agli oppressi a organizzarsi, a ribellarsi, a combattere, a vincere e instaurare il socialismo.
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