La pace nel mondo (Europa inclusa), quella poca che c'è, è riuscita a portarla in modo finora stabile solo la bomba H. In 71 anni di era nucleare militare nessuno si è mai azzardato ad attaccare in guerra una potenza atomica, per quanto piccola possa essere (tranne gli scontri di confine tra India e Pakistan nella zona del Kashmir, anch'essi evitati dopo che il Pakistan si dotò di armamento atomico, costringendo entrambi i contendenti ad una maggiore prudenza).
Si tratta chiaramente di una semplice impossibilità di guerra, dunque di una situazione di pace limitata e dimezzata, e sub condizione, con riserva, cioè niente affatto piena mentre le nazioni non nucleari vengono attaccate in guerra comunque, quando fa comodo.
Il deterrente nucleare si manterrà dispositivo efficace (anche se non universale) contro la guerra fintanto che non sarà raggiunta una tecnologia capace di difesa sicura contro un attacco atomico, cosa che per il momento nessuno è ancora in grado di realizzare.
Ma se un giorno la scienza si svilupperà fino a rendere possibile una simile contromossa, allora il tabù dell'impossibilità di attacco contro le nazioni atomiche comincerà a cadere.
Dovrebbe allora risultare evidente l'importanza degli sforzi internazionali per la costruzione di una sempre più estesa rete di stabili relazioni politiche pacifiche tra le nazioni, e di organismi internazionali capaci di garantirla.
Ma né gli incontri insistentemente richiesti dalla neonata Unione Sovietica, né la Società delle Nazioni, né le conferenze di Losanna e di Monaco, né L'Onu, o le conferenze Pugwash, sono mai riuscite ad raggiungere l'obiettivo dichiarato.
Uno dei costruttori della bomba atomica americana, Julius Oppenheimer, come molti altri scienziati ed intellettuali (Bertrand Russell, Albert Einstein, Harold Coxeter, Jean Paul Sartre...), dedicò per molti anni, durante la guerra fredda, parecchi sforzi a propagandare la consapevolezza che la bomba impediva la guerra ma non costruiva la pace, risultato indispensabile per la popolazione umana.
Ma nemmeno le parole dei migliori intellettuali hanno raggiunto il risultato fallito pure dagli organismi istituzionali.
Forse ci vorrebbe un Gandhi. Ma posto che un Gandhi non si inventa, e non compare facilmente, anch'egli andò incontro ai propri limiti, quando, dopo essere riuscito a condurre alla separazione complessivamente pacifica della Gran Bretagna dall'India non riuscì ad evitare i feroci e sanguinosi scontri tra mussulmani e indù, che condussero al frazionamento tra India e Pakistan, cui si aggiunse successivamente la separazione del Bangladesh (nell'ultimo secolo, d'altronde, il pianeta non si è mosso verso l'unione transnazionale, bensì verso una maggiore frammentazione, e se alla fine della seconda guerra mondiale le nazioni della Terra erano una settantina, oggi sono due centinaia).
Ci vorrebbe un altro Don Milani, ma perfino della sua patria la maggioranza lo ignorò.
Davanti a questa collezione di insuccessi, e nella situazione complessivamente di pericolo a lungo termine in cui viviamo, è sbalorditiva l'indifferenza della maggior parte del mondo politico, ad alto e basso livello, al tema della pace, che viene affrontato sporadicamente in modo retorico, e quasi mai in modo concretamente operativo, dimostrando spesso una doppiezza desolante.
Si tratta di un atteggiamento superficiale e pericoloso.
Ma siccome il mondo politico sussiste solo sulla base della sufficiente accettazione ed obbedienza della popolazione, non rimane che riconoscere la necessità che la pretesa teorica e concreta di coesistenza, pace, cooperazione e disarmo sorga dallo sviluppo attivo della coscienza del popolo, con tutta la capacità di pressione che esso riesca a progettare e realizzare.
Evidentemente, la specie umana non si è ancora evoluta in modo sufficientemente pacifico, sicché proseguire, completandolo, il lavoro mancante tocca a tutti noi, attraverso una profonda rivoluzione culturale, mentale, psichica.
Bisogna ancora trasformare, in modo profondo, la mente umana.
Compito inarrestabile di tutti e ciascuno.
Ignorandolo, tutti perderemmo qualcosa, poiché tutti siamo coinvolti nelle conseguenze della guerra. Non si tratta di un problema sentimentalmente astratto, si tratta di un problema concretissimo. La guerra, molto banalmente, è sempre una operazione decisa dai ricchi contro i poveri. La guerra non produce popoli vincitori e popoli vinti, bensì solo pochi profittatori arricchiti a spese di popolazioni tutte sconfitte.
Ogni volta che il problema verrà nuovamente posto, si sarà sempre fatto qualcosa di insufficiente ma utile, contribuendo a disgregare almeno un poco l'ipocrisia dominante.
La pace non può essere disgiunta dalla pretesa di equità sociale, e l'equità sociale non può essere disgiunta dalla pretesa di pace.
Pace e giustizia sociale non si costruiscono "il giorno delle elezioni", pace ed equità sociale si costruiscono ogni giorno, altrimenti non si costruiscono mai.
Attualmente, lo stato italiano è in guerra, in vari modi più o meno diretti o subdolamente indiretti, perlomeno contro Afghanistan, Libia, Siria, Donbass.
E il popolo non è riuscito ad impedirlo. Non è complessivamente riuscito a rifiutare ed espellere la politica e i politici della guerra, non è riuscito ad affermare sufficientemente la politica ed i politici della pace.
Non è affatto un buon inizio, evidentemente c'è davvero ancora molto da fare.
Namastè, Shanti Om.
Vincenzo Zamboni
Ottima occasione di riflessione.
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