Racconto recensione di un libro e del lavoro di Pietro Laureano * uno dei maggiori
scienziati italiani contemporanei
Atlante d'acqua
Ciò che ora rimane, paragonato a cosa esisteva, e’ come lo scheletro di un uomo
morto di stenti. tutta la terra grassa e morbida e’ stata spazzata via,
lasciando lo scheletro nudo di un paesaggio desolato. ma a quel epoca il paese
era intatto e tra le sue montagne aveva alte colline coltivabili... e molte
foreste i cui residui sono visibili anche ai nostri giorni. Ora vi sono
montagne che non hanno nemmeno il cibo per nutrire delle api, ma che molto
tempo fa erano ricche di alberi, e le travi ottenute abbattendoli per fare i
tetti di grandi palazzi sono ancora intatte...inoltre tutto era arricchito
dalle piogge annuali di Zeus, che non andavano perdute come ora scorrendo dalla
nuda terra al mare; ma il terreno era profondo e all interno riceveva le acque
conservandole in un suolo grasso e accogliente...così ogni luogo era provvisto
di sorgenti e corsi d acqua. Platone (V sec. a.c.)
il ciclo della vita
Stonhenge (inghilterra) e’ il monumento megalitico preistorico tra i più noti e
studiati. nelle numerose interpretazioni del suo enigmatico significato
raramente viene dato il giusto rilievo al fatto che il complesso e’ circondato
da un fossato dall evidente uso idrico scavato prima della messa in opera dei
grandi massi. gli stessi circoli di pietre, realizzati progressivamente in
varie epoche, non dovevano apparire come si presentano adesso. erano
probabilmente le strutture di sostegno di una copertura circolare lignea con
impluvio centrale. e’ possibile che le grandi masse di pietre favorissero la
condensazione atmosferica e la conservazione dell umidita nel suolo. il senso
del monumento era quindi legato al ciclo dell acqua, alla funzione di quest
ultima di catalizzatore tra la sua condizione eterea nel cielo e la sua forma
fluida nel suolo.
l enigma dell acqua
narra la leggenda che Alessandro il Grande, conquistato l Egitto, si reco nei
sotterranei della piramide di Giza dove era stata ricavata la tomba di Ermete
Trismenegisto, il mitico fondatore della scienza degli antichi. qui rinvenne
una tavola di smeraldo su cui era inciso il segreto più importante dell
universo. l enigmatica scrittura iniziava con la dichiarazione che “cio che e’
in alto corrisponde a cio che e’ in basso” e poi svela l essenza dell origine
di tutte le cose descritta con queste misteriose parole:
suo padre e’ il sole, sua madre la luna, il vento la porta nel suo grembo, la
terra ne e’ la nutrice. essa genera le opere di meraviglia del mondo intero. il
potere di questa cosa e’ prefetto. dolcemente separa la terra dal fuoco il
sottile dal denso. ascende lentamente dalla terra ai cieli e ridiscende sulla
terra riunendo in se la forza delle cose superiori e inferiori.
inizia così il fantastico libro di pietro laureano ”atlante d acqua” e qual e’ l
intuizione che ha dato il via alla ricerca che l’ha portato a leggere queste
realtà in modo diverso, a scoprire le “miniere” d’acqua, le trame di
canalizzazioni, le piramidi rovesciate lo racconta lui stesso: quando lavoravo
al piano urbanistico di Bechar nel Sahara algerino, ogni fine settimana salivo
a guardare il paesaggio da una grande duna davanti all’oasi di Taghit.
L’abitato di terra cruda era stretto tra un grande cordone dunario che formava
le propaggini del Grande Erg Occidentale, l’immenso deserto di sabbia, e il
canyon di un fiume asciutto sahariano. Non vi era traccia di acqua, ma la
striscia di palme e di coltivazioni che occupava il fondo del canyon e lo
stesso abitato ne testimoniavano la presenza. Da dove arrivava l’acqua? Notavo
che vicino a me, sulla cima della duna salivano alla stessa ora anche degli
scarabei che si fermavano sulla cima inclinando in modo particolare la corazza
in direzione della brezza. Possibile che venissero anche loro a guardare il
paesaggio? Capii che gli scarabei condensavano sulla corazza il vapore d’acqua
per bere, e trovai la risposta alle mie domande.
Tutto è regolato dall’acqua. Invisibile ma in un ciclo perenne, l’acqua è sempre
intorno e dentro di noi. E’ il respiro del pianeta, di ogni organismo e anche
delle oasi. L’abitato attraverso tunnel sotterranei drena sotto le sabbie la
brina che si deposita la notte in superficie. I giardini delle oasi, scavati
nel suolo a forma d’imbuto, come piramidi rovesciate, raccolgono ogni più
piccola traccia di umidità. Questa risale nei tronchi come linfa e torna, in un
circuito di auto amplificazione, al cielo traspirando dalle fronde delle palme
che con la loro ombra proteggono le coltivazioni e la vita.
Conoscere il nostro legame con il “ventre della terra”, in Medio Oriente come a
Matera, in Africa come nello Yemen, è stato per decenni il lavoro di Pietro
Laureano, consulente Unesco per le zone aride. Studiare l’insieme dei fiumi
fossili del Sahara, e le conoscenze tradizionali, come le gallerie drenanti e i
collegamenti fra queste e le oasi, lo ha portato a una serie di conclusioni, le
cui conseguenze hanno ancora oggi molto da offrire alla ricerca.
Una fra queste è che le oasi non sono un fenomeno casuale, ma il risultato del
lavoro dell’uomo. Nei suoi libri, Laureano ne racconta la storia, ne delinea
una classificazione e ne descrive i sistemi di irrigazione. E spiega come gli
abitanti del Sahara hanno elaborato un sistema culturale che ruota intorno
all’invenzione dell’oasi. Che si realizza mettendo in atto un “circuito
virtuoso” in
cui dune, vento, acqua, piante, e rifiuti organici, formano un microclima, con
conseguenti “interazioni positive” tra fertilità, produzione di risorse e auto
sostenibilità.
Elemento decisivo, l’acqua, la cui “produzione” è frutto di tecniche
antichissime e tuttora funzionanti. Proprio così, l’acqua si può produrre. Nei
climi aridi lo si fa da millenni, attraverso sistemi di lunghe gallerie
drenanti che captano i flussi di umidità atmosferica e le precipitazioni
occulte, trasformandoli in acque libere. “Miniere d’acqua”, come le chiama
Laureano, queste “gallerie” esistono in tutto il mondo: foggara in Algeria,
qanat in Persia, madjirat in Andalusia, hoyas nel Messico precolombiano, fino
ai canali sotterranei per l’acqua costruiti a Taranto o nella Palermo di epoca
musulmana. Durevoli nel tempo dunque e diffuse nello spazio, canalizzazioni e
oasi continuano ancora oggi a prosperare. Gli equilibri ecologici su cui si
reggono cedono però quando le contemporanee tecniche costruttive si impongono
in modo pesante, devastandone le tracce e impoverendo le risorse.
Anche in questo caso, come abbiamo visto per Matera, il degrado ha inizio quando
una modernità incapace di leggere le specificità di una cultura, la obbliga alle
proprie scelte. Come di fronte a Matera, Laureano suggerisce di capovolgere i
nostri paradigmi e guardare alla realtà con occhi diversi. Invece di domandarci
se i popoli del Sahara riusciranno mai a sopravvivere in condizioni tanto
difficili, dobbiamo piuttosto chiederci “quanto tempo ancora le nostre aree
temperate potranno ospitare condizioni di vita possibile”. E già nel 1995
scriveva: “La civiltà fondata sulla concentrazione delle metropoli è ormai alle
soglie del suo superamento”. Da allora l’espansione urbana non ha smesso di
crescere. Ma se per esempio, proprio il Paese con il maggior numero di
megalopoli, la Cina, ha iniziato a riflettere sulla rivitalizzazione dei centri
rurali, forse la previsione di Laureano non era inverosimile.
Segno che il lavoro di ricerca sulle tecniche e le conoscenze tradizionali
promosso dall’Unesco e svolto da Laureano, sta iniziando a dare i suoi frutti.
Perché l’intera operazione non si limita all’inventario di questi saperi
antichi ma si
propone di riconcepirli in chiave moderna e con tecnologie avanzate. Di usarli
insomma come “serbatoio straordinario di innovazioni sostenibili”. E sulla scia
della biomimetica, Laureano propone un’ecomimetica, capace di attingere a questa
riserva di saperi, progettando il nuovo. Una sorta di ingegneria naturalistica
del futuro, consapevole dei rischi ambientali a cui si va incontro tagliando il
cordone ombelicale che ci lega alla terra.
Alla fine degli anni ’70, impegnato come urbanista nel Sahara algerino, imparavo
la cultura del deserto vivendo con i gruppi locali. Quando, stupiti di tanto
interesse per le loro abitudini, le strutture arcaiche di terra cruda, i
cunicoli sotterranei e i sistemi di raccolta di acqua, mi chiedevano da dove
venissi, io descrivevo la mia città di origine, Matera, con le sue grotte e
costumi arcaici. Così, in un gioco di ribaltamenti, i Tuareg diventavano loro
gli scopritori meravigliati del mio mondo e si creava un’empatia favorevole
allo scambio di conoscenze. Questo semplice modo di scherzare e conoscersi è
diventato un formidabile strumento di comprensione, l’abitudine a pensare che
molte nostre convinzioni sono frutto di preconcetti e le domande vanno
ribaltate. Ci chiediamo come faranno le oasi e i nomadi a persistere nel mondo
contemporaneo e invece occorre interrogarsi piuttosto su come la civiltà
occidentale potrà sopravvivere nello spreco attuale di risorse e distruzione
dell’ambiente. Nella storia, quando grandi imperi sono collassati, nuovi
modelli di civiltà si sono affermati grazie a luoghi e comunità marginali, dove
si sono perpetuate le conoscenze necessarie. Negli anni ‘90 sono tornato a
Matera e ho applicato questo stesso metodo per l’interpretazione e l’iscrizione
UNESCO della mia città.
Ribaltando il paradigma che vedeva Matera come la “vergogna nazionale”, l’ho
interpretata, attraverso lo studio dei sistemi d’acqua e l’abitare nelle
caverne dalla preistoria, luogo geniale esempio di sostenibilità per il futuro.
Questa nuova lettura ha innescato la valorizzazione della città, e negli ultimi
anni l’impegno di tutta la comunità ne ha permesso la vittoria a Capitale
Europea della Cultura nel 2019, sancendo l’esempio di Matera come una delle
migliori pratiche al mondo di successo e resilienza urbana.
I Tuareg immaginano il Sahara come un “gigante disteso”. Una visione molto
vicina all’idea di un deserto vivo. Che un giorno potrebbe volgere il suo
“sguardo bruciante” verso l’altra sponda del Mediterraneo. Siamo già arrivati a
questo giorno, considerando ciò che sta accadendo ora, con l’arrivo di masse di
profughi da zone di conflitti spesso provocati da catastrofi ambientali?
Il Sahara è attuale ed è già tra noi. Quello che dobbiamo temere non è il
deserto ma la desertificazione. Il deserto è una condizione instauratasi nel
corso di ere geologiche con cui l’ambiente e le culture hanno avuto il tempo di
interagire, sviluppando misure di adattamento e soluzioni straordinarie che
hanno creato diversità biologica e culturale. La desertificazione è una
condizione di degrado fisico e culturale. I cambiamenti climatici dovuti a
processi innescati dall’uomo e il saccheggio delle risorse naturali determinano
distruzione dei suoli e dell’ambiente, la cui rapidità impedisce gli adeguamenti
necessari. L’impatto con la modernità, la società consumistica, l’emigrazione,
determinano il collasso dei valori tradizionali, la scomparsa delle conoscenze
locali e della gestione ambientale. Da noi gli abbandoni delle montagne e delle
campagne, la cementificazione delle coste e dei fiumi, l’espansione urbana
incontrollata determinano desertificazione fisica. L’esodo dai paesi, la
perdita delle conoscenze tradizionali, la fine della solidarietà e della
cultura dell’accoglienza costituiscono desertificazione culturale e umana.
Proprio la lezione del deserto e gli stessi flussi di popolazioni possono
aiutarci a risolvere problemi come gli estremi climatici, il collasso degli
ecosistemi e le enormi sfide globali che dobbiamo fronteggiare.
la piramide rovesciata” è stato come uno spartiacque fra l’idea dell’oasi come
fenomeno naturale e la realtà dell’oasi, frutto dell’intervento umano
sull’ambiente. Le oasi sono frutto di un enorme livello di conoscenze e
tecniche talmente adattate e integrate con l’ambiente da farle apparire come
fenomeni naturali. Anche la teoria ambientalista accettava questa concezione
perché preferiva un’idea di luoghi naturali incontaminati avulsi
dall’intervento umano. Con la maggiore conoscenza e l’emergere di una nuova
sensibilità scientifica le cose sono cambiate. Sulla base del rovesciamento di
paradigma dell’oasi, oggi anche la genesi di luoghi considerati il modello
principe della natura selvaggia, come le foreste pluviali amazzoniche, sono
correttamente reinterpretati come paesaggi creati grazie all’interazione con i
gruppi umani.
Ferdinando Renzetti
* Pietro Laureano (Tricarico, 16 febbraio 1951) architetto e urbanista, consulente
UNESCO esperto per le zone aride, la gestione dell' acqua, la civiltà islamica e
gli ecosistemi in pericolo, con vari interventi in Libia Algeria ed Eritrea. Con
i suoi studi sulle oasi del deserto algerino, condotti durante gli otto anni in
cui ha vissuto nel Sahara , ha dimostrato come le oasi siano frutto
dell'ingegno umano, patrimonio di tecniche e conoscenze per combattere
l'aridità e modello di gestione sostenibile per il pianeta. Ha insegnato nelle
facoltà di architettura delle università di Algeri di Firenze e di Bari. È
autore del progetto UNESCO per la
campagna di salvaguardia di Shibam e del progetto di restauro dell'oasi di
Ighzer in Algeria. È autore dei rapporti che hanno portato all'iscrizione nella
lista del patrimonio dell umanita UNESCO dei Sassi di Matera, dove ha vissuto
per dieci anni abitando in locali da lui restaurati con metodi tradizionali, e
del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano.È inoltre il fondatore di
"IPOGEA", organizzazione no profit con sede a Matera e a Firenze che realizza
progetti di salvaguardia del paesaggio con pratiche antiche come l'uso dei
terrazzamenti di pietra a secco e le cisterne di captazione d'acqua. Fa parte
del gruppo di esperti UNESCO che sta lavorando alla stesura della nuova
Convenzione sul paesaggio. È membro del consiglio direttivo del Comitato
italiano dell' ICOMOS; inoltre come rappresentante italiano nel Comitato
tecnico-scientifico della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta contro
la desertificazione (UNCCD), ha promosso la realizzazione di una Banca mondiale
sulle conoscenze tradizionali e il loro uso innovativo.
Nessun commento:
Posta un commento