Era il 18 ottobre 2010 e Valentina Zurru e Patrizia Saias, professione minatrici, dichiaravano: «Se c’è qualcosa di pericoloso da fare, e un uomo la fa, io la faccio anche meglio». Mentre il mondo seguiva in diretta tv il salvataggio dei 33 minatori cileni, ci siamo calati a 400 metri di profondità, nell’ultima miniera di carbone della Sardegna con Valentina e Patrizia, le uniche donne italiane che hanno scelto questo lavoro: «Quello dei nostri padri»Patrizia e Valentina per andare al lavoro prendono l’ascensore. In sei minuti scendono di quasi 500 metri, da più 100 sul livello del mare a meno 373, fino al cuore dell’ultima miniera di carbone della Sardegna, la Carbosulcis di Monte Sinni, vicino a Portoscuso.
Sono le uniche minatrici italiane a lavorare nel sottosuolo, le uniche donne a cimentarsi in un mestiere durissimo, storicamente riservato agli uomini. Un mestiere pericoloso, come racconta l’avventura a lieto fine dei 33 minatori cileni di San José. Patrizia e Valentina si muovono nel buio più profondo delle gallerie.
Si fanno luce con la lampada sul casco, zavorrate dal peso dell’autosalvatore, l’erogatore d’ossigeno per le emergenze. Camminano con i grossi scarponi fra le zone di scavo delle gallerie e di taglio e raccolta del carbone. Quando escono sono nere come i loro colleghi nelle foto di inizio secolo. Tutte e due hanno avuto padri minatori che si sono ammalati di silicosi. Ciononostante amano il loro lavoro, e sono orgogliose di far parte dell’ultima realtà produttiva della tradizione mineraria sarda…”
Oggi in un torrido agosto 2013 leggiamo: “…La nona edizione del “Minatore d’oro” è dedicato a loro, a Patrizia e Valentina.
Le uniche due minatrici italiane in attività nella galleria Montesinni nel cuore del Sulcis. Non si tratta di un premio, o meglio non solo. Ma di un attestato di stima e di amicizia. Dell’abbraccio simbolico di una comunità. Il sindaco di Motta San Giovani, Paolo Laganà spiega che “oltre al premio, sarà consegnato loro anche la storia delle donne di Motta San Giovanni.
Quelle mogli e figlie che nel corso del ’900 hanno patito assieme ai loro uomini i sacrifici della miniera”.La miniera a Motta San Giovanni sanno bene cosa sia. Per decenni, e soprattutto dagli anni ’50, le squadre di minatori partivano per “bucare” l’Italia del nord.
A centinaia si mettevano in viaggio carichi solo di una bisaccia e di poche altre cose per andare a lavorare dove c’era un’opportunità. Era bravi quelli di Motta che andavano in galleria dove servivano squadre affiatate, coese, che ben conoscevano il lavoro. Si partiva per bisogno e quella in galleria era fatica pagata bene. Le braccia del paese hanno scavato il Sempione e il Kariba, senza soluzione di continuità.
Dove c’era da aprire una strada sotto la montagna c’era un mottese. Erano specializzati a fare quello che altri non volevano o non sapevano. E hanno pagato caro il prezzo di quel minimo benessere garantito alle famiglie restate in Calabria.
Secondo le statistiche, tra il 1950 ed il 1960, il dieci per cento dei decessi di maschi di Motta erano collegato alla silicosi. Per non parlare poi delle vittime dei cantieri, con 2 persone su 5 – tra quelle morte fuori paese – decedute in galleria. Le stime messe assieme nel tempo parlano di circa 500 giovani uomini deceduti per malattie polmonari, scompenso cardiocircolatorio e tubercolosi.
Una mattanza che fino alla fine degli anno ’50 non veniva neppure riconosciuta come causa di lavoro. Una mattanza che oggi è anche un monumento in paese, come quello per i caduti in guerra. La prima delibera del comune di Motta che cita il minatori è del 1956. Gli amministratori guidati dal sindaco Davide Catanoso rivolgevano una petizione al Capo dello Stato, e ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, per chiedere “un’apposita legge a tutela dei minatori affetti da silicosi”.
Aiuti economici sopratutto e, “una super alimentazione a totale carico dello Stato consistente in un litro di latte e 100 grammi di carne al giorno”. Il sindaco Laganà spiega come l’intento del “Minatore d’oro” sia quello di “onorare la storia importante della comunità, legandola idealmente all’esperienza di queste lavoratrici ed al dramma vissuto nel corso del secolo dalle dinne della nostra città”. Dice: “Lo facciamo perché un patrimonio culturale e ideale non venga disperso e possa diventare un bene di tutti”.
Patrizia Saias e Valentina Zurru sono le uniche due minatrici italiane che ancora oggi scendono in miniera, “donne speciali che vanno giù con i guanti, col casco, con l’erogatore di ossigeno”.
Altra cronaca ci dice che a Valentina Zurru, 43 anni, padre minatore, ultima di sette figli, piace la campagna, il nuoto e correre in bici. Patrizia Saias, 49enne, divorziata con due figlie di 19 e 13 anni (Eleonora e Francesca) divisa tra famiglia e lavoro, ha tempo solo per riposarsi. Le loro storie, diverse come non mai, hanno solo un punto in comune: la voglia di vivere normalmente ciò che normale ancora oggi non è. «È un lavoro come tanti, con qualche disagio in più ma con mille soddisfazioni. Forse dobbiamo sfatare qualche luogo comune, ci guardiamo intorno, vediamo tanti uomini che manifestano tutte le debolezze possibili in miniera».
A loro, Patrizia Saias Valentina Zurru i lavoratori delle miniere le famiglie alla Sardegna che lotta…va il nostro abbraccio, fortissimo. Grazie!
Doriana Goracci
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