La scintilla non è stata mia. “Papà
andiamo in Mongolia?” Le parole di Jandira, mia figlia 24enne, non
mi avevano fatto immaginare la bellezza della Mongolia, né tutte
quelle in mezzo. Sono andate invece subito a mostrarmi l’esclusiva
di poter stare con lei – da anni giramondo –finalmente tutto il
tempo che volevo. Quante cose si sarebbero aggiustate, quante si
sarebbero rinforzate, quanto saremmo stati complici. Era lei invece che dal selvaggio
della Mongolia sentiva il richiamo. Cavalli nel vento e nelle
praterie, donne e uomini forti, bimbi senza nulla e magnifici per i
quali aveva voluto fare una lista di regali.
Pur sapendo che la stagione scelta non
era la più favorevole, in particolare per il tracciato che volevamo
seguire, il 5 aprile 2019 lasciavamo Milano. Avevamo davanti circa
30.000 chilometri che ci avrebbero richiesto più di tre mesi e meno
di quattro secondo le stime a tavolino. Ma nessuno dei due ne pareva
consapevole. Ognuno aveva la sua bellezza da inseguire.
Ma cominciammo con una memoria
dedicando una visita alla Risiera di San Sabba e alle foibe. Poi,
tutti i balkani rimasero coperti da una perturbazione che ci lasciò
pochi momenti asciutti. La costa dalmata sotto gli scrosci dei
temporali; le piramidi di Visoko, a nord –ovest di Sarajevo, dal
sentiero così fangoso e ripido da non riuscire ad arrivare in vetta;
l’albergo diffuso di Mokra Gora, quello di Kusturica, in Serbia,
inno alla contestazione consumistica – una specie di Campell’s
Soup Cans di Andy Warhol 50 anni dopo, ormai destinazione di
pullman e gite scolastiche, ma anche celebrazione di un mondo fatto
solo di cinema e del suo popolo divistico.
In poco tempo aveva imparato a
sfruttare tutti i segni delle carte e perciò ad essere un ottimo
navigatore.
Questioni di tempi dei visti spingono
il pedale del gas. Saltiamo così la Macedonia, una delle perle
balkaniche e percorriamo la nota Valle delle Rose in Bulgaria. Ma è
poco oltre, nella regione Haskovo, che tocchiamo la povertà e la
segregazione di un popolo apparentemente abbandonato a se stesso.
Io le dicevo quello che sapevo sulle
regioni davanti a noi e lei selezionava i luoghi da visitare.
Poi la Turchia, quel punto dal quale le
voci dei muezzin sostituiranno le campane fino ad orizzonti sempre
più lontani. L’acqua continua a non lasciarci in pace. Nonostante
le diverse varianti che avevamo pensato prima di raggiungere la
Georgia, le perturbazioni si succedono a ritmo serrato. Tanto vale
stare sulla linea più semplice. Seguiamo così la costa del Mar
Nero. Le zone balneari del suo tratto orientale si diradano
nell’ombrosa e povera parte centrale, per poi riprendere respiro
nella provincia di Trabzon.
Impiegò poco anche per aggiornare la
concezione del viaggio e il criterio per guidarlo. Non più
prendere e partire, come faceva viaggiando in aereo, né
andiamo di qui e andiamo di là. Aveva messo al centro i due
protagonisti veri: le ore di luce della giornata e le condizioni
della strada.
Nel buio della sera, a pochi chilometri
dall’ingresso in Georgia, cerchiamo un albergo a Akhaltsikhe, un
sopruso della polizia, che inventa un’infrazione, è il benvenuto
che ci è toccato. Ne seguirà un altro a Tbilisi, altrettanto
vergognoso, ma non sufficiente a farci dimenticare un popolo
serenamente orgoglioso di se stesso, quasi abitante di un’isola
lontana da tutte le altre terre. Incapace di sapere le ragioni delle
sue guerre con l’Abkazia e L’Ossezia del Sud. Solo preoccupato
del nostro transito in Azerbaijan, dove, ci ripetono, “non
troveremo persone come loro”.
Dalla letteratura che aveva studiato in
fase organizzativa, aveva segnato sulle carte monumenti, nature,
musei, villaggi e città.
Prima di andare a verificare come
fossero le persone azere, quasi al confine con l’Ossezia
Settentrionale, a Stepantsminda nel gelo di una bufera caucasica,
avevamo visitato l’emozionante chiesa della Trinità di Gergeti.
Ma, assorbiti dalla dolcezza delle oceaniche onde collinose
dell’Azerbaijan, era ormai un fatto lontano. Se la natura ci
parlava di bellezza, nelle città, e a Baku in particolare, era
evidente che il paese, come altri incontrati lungo la linea del
nostro viaggio, si era chiaramente votato all’abbraccio del
liberismo e del consumismo. Quella azera è forse una delle culture
musulmane che più si sono allontanate dal principio puro della
sharia, ovvero di una società regolamentata dai precetti religiosi.
La sera, bivaccando in natura, sulla
terra stepposa, o sul pavimento di qualche stanza di locanda apriva
la carta e tracciava il percorso della giornata.
Il Turkmenistan, al di là del mare, è
più lontano delle miglia d’acqua che separano Baku da
Turkmenbashi. Molte ore in banchina attendono chi ha scelto la via
del mare invece che il passaggio via terra dall’Iran. E molte ore
anche dopo l’imbarco prima di salpare. E altre ancora una volta a
destinazione, per la burocrazia scatenata e shackerata con la
peggior comunicazione.
E poi Ashgabat, dove il bianco, il
verde e l’oro sono i soli colori ammessi. Ma ancor più, dove anche
se ci vai di persona fatichi a credere ai tuoi occhi. Una specie di
The Truman Show aleggia tra le emozioni che senza soluzione di
continuità attraversano l’animo di chi non aveva mai visto la
capitale del Paese.
In viaggio compilava un excell con
molte colonne, computo di molti aspetti delle tappe.
L’obbligo di scelta della via da
seguire, imposto dalle autorità turkmene, ci portava nel nord del
paese per entrare in Uzbekistan poco a sud della latitudine di Nukus.
Lungo la strada rispettammo la deviazione d’obbligo per affacciarci
alla bocca della voragine sempre in fiamme di Darvaza,
turisticamente, o meglio, volgarmente detta Porta dell’Inferno.
Kiwa, Samarkanda erano sulla strada. Ma insieme a loro e alle loro
storie in forma di mosaici e muqarnas, si vede tutto lo sbrago
al turismo occidentale che evidentemente è stato scelto dal governo
locale. Sebbene sulla storica Via della Seta, non se ne vede degna
celebrazione.
Arrivare alla mitica Samarcanda è
ormai un fatto scontato e sfregiato dal consumismo turistico.
Nelle soste e nelle visite la vedevo
fotografare e filmare. Era bella la sua autonomia: in buona misura io
guardavo e riprendevo altro e non di rado la copiavo.
Partimmo da Dushambe per andare a
percorrere la Pamir Highway, la seconda strada più elevata del
mondo, superata solo dalla Karakorum Highway. Nonostante le pioggie e
il disgelo scegliamo di seguire la via con meno garanzie di successo,
quella che corrisponde ad una parte della famosa M41. La Pamir
Highway permette più varianti di pari o superiore soddisfazione. Noi
scegliemmo quella che segue il Panj, il corso d’acqua che separa il
Tajikistan dall’Afghanistan, prima di diventare l’Amu Darya, un
tempo chiamato Oxus, limes naturale oltre il quale nei secoli passati
c’era l’immenso turkestan, una terra ignota a tutta la civiltà
occidentale. E misteriosa. In corrispondenza della quale, sulle mappe
dell’epoca si leggeva, hic sunt dracones. Ma più dei
paesaggi che ammalierebbero chiunque, è stato il popolo tajiko che
senza sforzo ci è entrato nel cuore. Avevamo la sensazione fossero
fortemente in equilibrio, al punto da esprimere serenità
indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla condizione sociale.
Nei pochi momenti vuoti, nei
luoghi con il wifi proseguiva ad arricchire il profilo instagram
che aveva creato: riding.to.mongolia. Fotografie e didascalie
piene di sensibilità e amore modulato a favore di chi le avrebbe
viste e lette.
Le dure piste della Pamir Highway
scomparvero al passaggio in Kirgizistan. Cavalli di razza novo
kirghisa, possenti e contemporaneamente leggiadri e pascoli collinari
dal sottofondo paradisiaco ne presero il posto. Il piccolo stan
è stata una delle inattese perle del viaggio.
Nei mercati facevamo la spesa
alimentare per rimpolpare la piccola cambusa della macchina.
Nonostante l’attrazione verso le bancarelle di abiti, oggetti,
bracciali e collane – a 24 anni assai più magnetica di quanto non
fosse per me sapeva rinunciare ai luccichii, sapeva preservare la
macchina come fosse lei a sapere per prima che più materiale
trasportavamo, più si sarebbe ridotta la frugale comodità, più ne
avremmo ridotta la funzionalità.
Abbiamo percorso la parte meridionale
dell’oriente kazakho dentro la bolla dell’armonia kirghiza.
Canyon, laghi, vallate e spazi illimitati, sebbene non più così
verdi e dolci, sono il territorio fino ad Almaty. Lasciando il
capoluogo, l’incanto non poteva che frangersi. Seguirono centinaia
di chilometri uniformi, nuovamente duri e senza variazioni, né per
lo spirito, né per gli occhi.
Seguiva e si interessava alle
riparazioni della macchina. Non era una generica curiosità. In
quelle settimane aveva conosciuto il furgone Uaz. Un rustico mezzo
adatto a terreni naturali. E pensava già di acquistarne uno,
trasformarlo e riprendere a girare per il mondo. Quindi conoscere le
componenti e le problematiche di una macchina era un sapere che
acquisiva con serietà.
Anche se la Mongolia era a un passo,
qualche giornata di Russia era obbligatoria. Nessun punto di contatto
infatti con il Kazakhstan, obbliga un transito siberiano prima della
meta. I circa quindici giorni da dedicare alla terra di Gengis Khan
lo sappiamo sono pochi. Non riusciremo infatti a visitare le montagne
dell’occidentale regione di Olgij né le meraviglie del
settentrionale lago Khovsgol. Passammo in centro nelle verdi regioni
del Khangai, reame di fiori, foreste, cavalli e placidi fiumi. Poi a
sud nel deserto e tra le dune. Infine a Ulan Batar. La rada densità
della popolazione impressiona sulla carta: cinque volte la superficie
italiana per tre milioni di persone, di cui la metà nella capitale.
Ma è un dato senza emozione carnale finché dopo ore di pista,
davanti a orizzonti altrettanto lontani trovi una gher –
come si chiamano le iurte là – un bimbo che gioca e forse
una moto. E se sulla carta un popolo di cultura buddhista –
peraltro devoto, a giudicare dalla loro frequentazione dei monasteri
che abbiamo visitato – ci aveva indotto alla curiosità di vedere
in quale modalità quella cultura si esprimeva nel quotidiano, sul
campo siamo rimasti sorpresi dal nostro apparentemente neutro
pregiudizio. A parte buona parte dei russi, sono stati proprio i
mongoli i più indifferenti e disinteressati alla relazione con noi.
La prima a memorizzare i nomi dei
luoghi e dei nuovi idiomi era Jandira. Un particolare di un certo
valore per gestire le relazioni a volte anonime con le persone
locali. Non è stato un caso che lei abbia risolto più di un impasse
con albergatori o ristoratori. Capaci di promettere servizi ma meno
di mantenere e di prendersi la responsabilità.
Della Siberia tutti sanno. Sanno
che i gulag erano là; che fa freddo; che è terra poco popolata. Ma
nessuno sa che chiunque sia catapultato in Siberia non potrà
che terminare il resto della vita, in quel punto di atterraggio.
Centinaia, migliaia di chilometri di fitta foresta non permettono di
scappare a nessuno. Sconfinato, impraticabile territorio selvaggio. E
quando le foreste di conifere hanno termine, il copione si ripete con
altrettanto smisurati acquitrini ornati dai bianchi tronchi di
betulla. Non c’è mezzo che possa muoversi in quel terreno. Ma non
così lungo il tracciato della transiberiana. Tutto un popolo in
perenne movimento vi vive sopra e ai margini terrosi, polverosi,
fangosi. È il grande popolo dei camionisti. Alberghi, ristoranti,
market, gommisti, meccanici li attendono in piazzole che in futuro
saranno autogrill raffinati e forniti come già è nella parte
occidentale della Russia, in Ucraina, Polonia ed Europa tutta. La
lunga strada crea una trincea tra gli alberi. Guardare avanti è la
sola ed unica possibilità.
Ad occidente passammo a visitare la
sponda occidentale del fiume Don e Nikolaevska, oggi, assorbita da
Livenka. Fu là che decine di migliaia di uomini italiani, mal
attrezzati, furono mandati durante la Seconda Guerra Mondiale. Fu da
là che sotto il fuoco e l’inverno russo dovettero ritirarsi. Fu là
che perirono, per il freddo o per mano del fuoco nemico, circa 80.000
persone. Nostri concittadini inspiegabilmente troppo dimenticati.
Jandira premeva per tornare. Il
viaggio, lo aveva constatato, è una macina che non risparmia
nessuno. Tuttavia condivise di fermarsi il tempo necessario per
visitare alcuni luoghi, parlare con le persone, posare un fiore.
Nonostante sia a suo modo offensivo,
anche a noi toccava la nostra ritirata di Russia. Proprio da Livenka.
Rumori sinistri arrivavano dalla ruota anteriore. Poi un movimento
come se il defender avesse scartato qualcosa di sua iniziativa e
contemporaneamente i freni che andarono a vuoto. Seguirono chilometri
a passo d’uomo prima di trovare la fortuna di un artigiano capace
di rimuovere il giunto spezzato e di saldare i pezzi “almeno fino a
Charkiv, in Ucraina” – disse – “circa duecento chilometri più
avanti, dove troverai i ricambi”. Non li trovammo né lì, né a
Kiev. E a sessanta all’ora, dopo aver attraversato la Polonia
meridionale, senza mancare Aushwitz e Birkenau, la repubblica Ceca,
un po’ di Germania e l’Austria occidentale, abbiamo concluso
MilMon il 16 luglio 2019 nuovamente a Milano.
La mattina dell’ultimo giorno Jandira
posizionò il telefono per un autoscatto nella piazzola di un piccolo
borgo in Germania dove passammo l’ultima notte, la centotreesima.
Era il 12 luglio 2019. Sapevamo che avevamo fatto qualcosa di
meraviglioso. Sapevo che molto si era aggiustato con lei. Ed ancora
più meraviglioso.
Testo e foto di Lorenzo Merlo - 23.07.19
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