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mercoledì 2 gennaio 2019

Grottammare: "Più che l’amore" - Recensione


Più che l’amore
da Gabriele D’Annunzio

Riscrittura scenica di Vincenzo Di Bonaventura
con
 Vincenzo Di Bonaventura, Simone Cameli
e il Gruppo Aeoidos

Ospitale delle Associazioni  -  Grottammare Paese Alto  -  30 Dicembre 2018  h17



LA MIA SETE

        “La mia sete io non la estinguerò se non ai pozzi di Aubàcar”: le parole di Corrado al fraterno amico Virginio dicono la febbre bruciante di conoscenza e scoperta, la rivolta contro “l’ordine che mi opprime”, contro le “risposte ambigue, i sorrisi prudenti e vili” che l’Italietta dei burocrati e dei ministeri oppone alla sua ansia di volo.

        Vive ancora stasera, con il gruppo Aeoidos (ed è riscrittura scenica ogni volta diversa, testo dis-fatto e ri-creato dalla macchina attoriale), la tragedia dannunziana dal destino più ingrato, la meno rappresentata tra quelle dell’artista il cui “teatro di poesia” fu tuttavia la folgore destinata a scuotere dal profondo i codici drammaturgici della tradizione.

        Sono al di là di noi, i poeti, dice Di Bonaventura, sono malati di speranza: D’Annunzio - come Ibsen, come Strindberg – ha lo sguardo rivolto al ‘900, come loro addita allo smarrimento dell’uomo d’oggi un ideale o una realtà possibile; ma la tristizia dei contemporanei volle vedere, nell’Ulisside protagonista, la ferocia del colonialismo e non piuttosto – in Corrado Brando - l’antitesi del superuomo, l’eroe inconciliabile col modello societario che lo ingabbia, destinato alla sconfitta dall’improponibilità del suo stesso sogno. 
“Quando Corrado Brando pronunzia le sue prime parole - scrive D’Annunzio a Vincenzo Morello - egli ha già su di sé l’ombra di un’ala, che non è quella della Vittoria”; e lo paragona all’Aiace sofocleo, già perduto al suo apparire sulla scena, “disperato di vivere, già dato al Buio”.
       
        L’attrazione dell’inesplorato, il perpetuo desio della terra incognita che è nei Caboto d’ogni tempo (“Sono della razza dei Caboto” dice Corrado all’amico), utopia di un mondo altro e diverso, è il fil rouge che dall’antieroe dannunziano giunge all’oggi lungo il percorso del secolo breve. 
E  Corrado Brando non è lontano se non per cronologia dall’informatico De Andrade che “sotto l’erba dei campi da golf” (Fabio Cavalli, 1993) esplora incessantemente i meandri del sottosuolo nella certezza di un “mondo di sotto” popolato da un’umanità ribelle e felice: universo utopico alla cui conoscenza lo spinge l’insofferenza per la disarmonia di cui è parte, stirpe di Caino come l’intera specie umana destinata alla nostalgia dell’innocenza perduta, e che nell’Utopia cerca orizzonti di virtù e bellezza.

        “Cerco la mia libertà” dice Corrado, nella vita che “per me è un mezzo di esperimento e di conoscimento” ma anche ”necessità di abbandonare sempre qualcosa o qualcuno: un’idea, una riva, un essere caro”. Non è la gloria il suo orizzonte, ma la lontananza, la “vocazione d’oltremare”, toccare il suolo di “quelle regioni incognite ove l’uomo crede di sentire sotto di sé la totalità della Terra”.

         Balenano alla memoria le cicogne in volo sull’ Uèbi, ancora gli par di sentire il fischio dell’aquila pescatrice: nel tormento febbrile, nella frenesia quasi dionisiaca di Corrado, i due amici rivedono se stessi davanti al Mosè michelangiolesco che da studenti ogni giorno visitavano nella penombra di San Pietro in Vincoli; “…Mettevamo il nostro avvenire su quelle ginocchia di pietra”, su quel marmo in cui Michelangelo aveva imprigionato tutta la tempesta, gli scrosci e i turbini dell’anima.
E il ricordo è già commemorazione di ciò che non può più essere raggiunto, né la sete dell’eroe potrà estinguersi ai pozzi di Aubàcar: è un ritmo funebre quello che accompagna Corrado come un’ala silente.

        “Io ti dico addio, in una gloria che fu silenziosa”: a Corrado non bastano la devozione dell’amico Virginio, la limpida forza del suo intelletto, i gesti e le parole della consuetudine, il legame fraterno; nè lo trattiene Maria nel dono totale di sé (Ella torna come Alcesti dal regno profondo), il suo fremito di leonessa ferita e l’annuncio della nuova vita che nasce in lei: Corrado è già “oltre l’amore e oltre la morte”, il crimine commesso - come la follia di Aiace - rende la morte “necessaria”.
L’errore immobile che legge nei suoi occhi conferma a Maria il presagio del sogno (Pareva venuto non so che autunno di sotterra…), imprime eco profetica alle parole del libro offertole dall’amico Marco Dalio: “Io piango perché l’Amore non è amato…”

        È al sardo Rudu, il devoto servo isolano partecipe come un Coro greco della solitudine dell’eroe, che questi rivolge l’ultima preghiera “In ogni primavera (…) accendimi un fuoco di lentisco sopra un nuraghe, e non mi dimenticare nei tuoi canti”. E nulla più ormai - per “il vincitore di Olda”come per Aiace – potrà “interrompere la corsa dell’eroe verso la tenebra”.

 Sara Di Giuseppe       faxivostri.wordpress.com    letteraturamagazine.org



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