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venerdì 5 aprile 2019

Grottammare - INFERNA DANCTIS ORKESTRA. Recensione


INFERNA DANCTIS ORKESTRA

INFERNO DI DANTE A CONCERTO
Canti I-X e XIII

a cura di
Vincenzo Di Bonaventura

con
Vincenzo di Bonaventura, Lirim Gela e con Luca Giulivi alle percussioni

Ospitale delle Associazioni  -  Grottammare Paese Alto  -  31 marzo 2019  h17



       “Viaggio del pellegrino”, quello di Dante: così lo definisce Di Bonaventura nel riproporre quell’Inferna Danctis Orkestra che fu avanguardia vent’anni fa nel suo Teatrodue e - replicato in Festival internazionali e in tutte le possibili vie e vicoli del passato e del presente - è avanguardia ancor oggi, con buona pace di paludati recital o di benignesco Dante-spiegato-al-popolo-e-alle-scuole.

       Abbatte schemi e rovescia canoni questo “Concerto” per voce sola, percussioni e immagini: qui l’attore “canta” e il musicista “narra”; qui l’endecasillabo dantesco è partitura musicale che dall’Ouverture dei primi tre Canti dispiega il tema nei successivi, è evento sismico che scuote e sovverte.
“Dovrete tornare fra trent’anni, e lo capirete”, scherza l’attore. Ci saremo, in qualsivoglia forma…

       Il “brivido allucinatorio” che amalgama alla sonorità del verso quella della musica percussiva ci scaglia al di là di noi (al di là di Andromeda dirà l’attore), dentro l’oltremondo dantesco e dentro quell’ineguagliata architettura linguistica, la più alta che dal Trecento in qua mente umana abbia innalzato.

       Il disperato loco d’ogni luce muto, l’orrore dei corpi attorti nella pena senza fine: sulla parete ne scorrono le immagini nelle forme che la visionarietà artistica ha prodotto; con altra forza ci percuotono il verso e il respiro solenne del metro dantesco, la duttile materia dell’endecasillabo che nelle Comedìa non teme dissonanze audaci e contrasti.

       Il tamburo fiammante dilata l’andamento ritmico dei canti che voce e percussioni scandiscono in “movimenti”. Se nelle terzine "sentiamo la robusta architettura intellettuale del suo poema” (Fubini), l’attoriale memoria metabolica si fa oggi, di quell’architettura, “macchina narrante” e concertante, tessitura poetica e musicale che dalle atmosfere ancora sospese dell'apertura e dalle tonalità calde dell’incontro con Virgilio - intima vibrazione che avvicina i due “pellegrini dell’oltretomba” - s’inarca poi nel ribollente magma dei gironi infernali, distorce in gorgoglìo aspro di pena la voce dei dannati.

       Così dall’ombra di Francesca sorge roca, come da profondità senza tempo, la narrazione dell’amore rovinoso, forza incoercibile e tragica per la quale tignemmo il mondo di sanguigno; il pianto di Paolo accompagna quella voce frantumata e scoscesa che piange e dice, e Dante viene meno - così com’io morisse - nell’urto con la propria materia di uomo e le sue fragili certezze.

       Perché è sostanza umana quella che il poeta porta con sé, con lui la politica e la storia irrompono nella dimensione ultraterrena.  E se continuo è il trapasso dal particolare all’universale, dalla realtà effettuale alla norma assoluta, ognuna delle ombre incontrate è tuttavia legata al gesto che ne ha connotato il destino; così Francesca nella bufera infernal che mai non resta è abbracciata a Paolo, essi sono quei due che ’nsieme vanno; Farinata è scolpito nella fierezza del ruolo giocato nel Concilio di Empoli; Ciacco è, pur nella depravazione del vizio, il concittadino da cui apprendere la sorte di Firenze corrotta e dilaniata dalla discordia, il (quasi) contemporaneo che gli chiede dolente di ricordarlo ancora, quando sarà tra i vivi (Ma quando tu sarai nel dolce mondo / priegoti ch’a la mente altrui mi rechi).

       La sequenza serrata degli incontri, l’ineluttabile eternità della pena che sfigura i volti e i corpi in continua tensione tra orrore e grottesco, l’“espressionismo titanico” che nella cantica disegna l’oltremondo infernale: tutto si dispiega nel possente respiro del verso per poi ricongiungersi e fondersi nell’implacabilità delle percussioni, la voce si deforma negli accenti irosi o striduli delle creature infernali, del bestiario medievale che s’intreccia al mito antico.

       Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegiàs, le Arpìe, i diavoli della città di Dite… sono l’universo allucinato che tuttavia l’umanità del poeta vivente e la dignitas del poeta antico sovrastano, pur scosse e provate. Per un Virgilio furente che inveisce contro i diavoli di Dite, c’è un Dante vendicativo che respinge il barattiere Filippo Argenti, ben conosciuto in vita, perché sprofondi al più presto nella palude fangosa da cui è emerso.

     È l’irriducibile concretezza della vita terrena che continua ad agire nell’oltretomba, è “temporalità contenuta nell’eternità senza tempo” che proietta le forme terrene sub specie aeternitatis: è incessante ricerca di significati universali che permea il dialogo ininterrotto con Virgilio - duca, maestro, “padre” - e si amplia nelle discussioni dottrinali, evoca gli spiriti magni che il poeta colloca nel Limbo. Della magnanimità di quelli, megalopsuchia che è grandezza virtuosa opposta all’ignavia e all’indifferenza, si illumina il poeta prima di lasciare per sempre la queta, il loco aperto, luminoso e alto dal quale s'inoltrerà nel regno ove non è che luca.

    E umana affettuosa pietà, terrena e accorata, accompagna Dante nella selva dei suicidi: la sorte di Pier della Vigna - canto XIII, omaggio finale e intenso del validissimo allievo Lirim - il ramo secco e sanguinante da cui si leva voce che poco ha di umano - Uomini fummo, e or siam fatti sterpi - colpiscono il poeta con insopportabile intensità; così tanto da chiedere che sia Virgilio a rivolgere a quello spirito nuove domande, ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora.

      Sempre presente e concreto con la sua storia personale, il poeta ritrova, nel personaggio retto, spinto al suicidio dall’ingiusta accusa e dall’invidia, le ragioni della sua stessa vicenda politica, la dirittura che rifiuta il compromesso, la crudeltà del distacco da quella Firenze che mai rivedrà.
Così è forse anche dello stesso Dante la preghiera di quel magnanimo: E se di voi alcun nel mondo riede, / conforti la memoria mia, che giace / ancor del colpo che ’nvidia le diede.

      L’ Inferno di Dante a Concerto ci restituisce interi, oggi, l’afflato poderoso e il messaggio umano e morale del poema, la tensione agonistica che è paradigma di un’esperienza universale di ricerca.  
      E sono state viaggio - tutto terreno - anche le nostre preziose due ore di catartico, vitalissimo abbandono.

Sara Di Giuseppe                       faxivostriwordpress.com      letteraturamagazine.org


      

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