Salomè
da un testo di Oscar Wilde
Riscrittura scenica di
Vincenzo Di Bonaventura
con
Vincenzo Di Bonaventura - Simone Cameli
e il gruppo teatrale Aeoidos
Ospitale delle Associazioni / Grottammare Paese Alto / 25 Novembre 2018 h17
PERDERE LA TESTA
“E ogni uomo uccide la cosa che ama, tutti lo devono sapere” (O.Wilde, La ballata del carcere di Reading)
“Com’è buio laggiù… Somiglia a una tomba”: è forse l’unico momento, nel dramma di Wilde, in cui Salomè sembra un essere umano e non la mantide perversa, lunare e macabra, la “bête monstrueuse” dipinta da Moreau.
È vertiginosa, la tenebra di quella cisterna-prigione dalla cui profondità la voce del profeta Iokanaan grida poderosa e incompresa. E nell’opera che Strauss compose sul testo di Wilde (grazie a dio senza adattamenti librettistici) è il tuono di cinque contrabbassi all’unisono, che ne trema l’orchestra, a suggellare il brivido di Salomè.
Di questo discorre Di Bonaventura col suo pubblico prima dello spettacolo, e di altro ancora: della versione cinematografica di Carmelo Bene (1972), per esempio - “catarifrangente e allucinata” (M.Vignolo Gargini) - che a Venezia suscitò un putiferio (I veneziani in frac mi sputavano addosso… Evitai il linciaggio, narrava lo stesso Bene).
Non era andata molto meglio a Wilde, nell’Inghilterra vittoriana e bacchettona - poco dissimile da certe italiche atmosfere, non solo di ieri… - se il suo dramma (1891) si potè lì rappresentare per la prima volta solo nel 1931.
È “rassicurante” la chiave di lettura che lega al clima decadente di un preciso periodo storico la ripresa nell’arte, e in molteplici forme, di un personaggio - Salomè - che appare piuttosto come figura archetipica e dunque universale, compendio di fantasie e immagini custodite nell’inconscio collettivo più di quanto si sia disposti ad ammettere, e che solo la grande arte col suo potere catartico può metterci in grado di affrontare.
Forse per questo Salomè - misto d’angelo inviolato e sfinge antica per dirla con Baudelaire - ha attraversato tempi e culture, sperimentato ogni forma artistica, percorso tutte le sensibilità, fino ad “esplodere” nell’arte del XIX secolo come “vera ossessione maschile”.
Da perderci la testa. Ed è quella di Iokanaan il profeta, ad esser servita realmente su un vassoio d’argento, immolata all’erotismo degenere, alla perfidia, all’infantile collera di Salomè.
Nella riscrittura odierna la scena, già scarna in Wilde - “Un’ampia terrazza nel palazzo di Erode” - è solo uno spazio vuoto: si direbbe occupato unicamente dalle traiettorie degli sguardi - di Narraboth e del Capitano delle guardie, di Erodiade e dello stesso Erode - rivolti alla luna e da questa a Salomè: ciascuno in modo diverso stabilisce un’identificazione tra Salomè e la luna, premessa ad una sorta di legame dionisiaco e misterico che avrà nella danza il suo epilogo, come un rito pagano che esiga il suo finale tributo di sangue.
Fulcro della “dinamica centripeta” che converge su di lei attraverso gli sguardi, ancor prima che ella compaia fisicamente in scena, Salomè è figura lunare e insieme sepolcrale (per Narraboth, suicida per amore di lei, la luna “sembra una principessa dai piedi d’argento” ma è anche “come una donna morta, si muove così lenta”), e l’insistito simbolismo selenico richiama miti antichi e timori ancestrali (pure nell’Otello shakespeariano “… È colpa della luna, quando più s’avvicina alla terra, rende gli uomini folli ”).
E Salomè, che per Iokanaan ha perso la testa (lei sì, solo in metafora) e ne è resa quasi folle, di lui dice “Certamente è casto come la luna”.
La posta del gioco erotico e perverso è comunque il potere: quello per il quale Erodiade plaude alla richiesta scellerata della figlia che la libererà d’un pericoloso antagonista e implacabile accusatore; quello soprattutto, spietato, che Salomè è conscia di esercitare su chi le è intorno (Non mi hai voluta, Iokanaan. Mi hai respinta. Mi hai detto cose infami. Mi hai trattata come una cortigiana, come una prostituta, io, Salomé, figlia di Erodiade, principessa di Giudea! Guarda, Iokanaan, io sono ancora viva, ma tu sei morto e la tua testa è mia).
Per questo è “tragedia materialistica del desiderio” la sua, e non tragedia d'amore.
Quella luna che s’era fatta rossa (Guardate la luna! ... È diventata rosso sangue!) si spegne sull’ordine di Erode, Uccidete quella donna, dopo aver posato il suo ultimo raggio su una Salomè sanguinaria e mostruosa e sul suo folle “Io ho baciato la tua bocca, Iokanaan, io ho baciato la tua bocca”.
Ed è forse un riscatto, o solo l’insostenibilità dell’orrore, il gesto conclusivo del tetrarca di Giudea, cui Di Bonaventura ha offerto tutti i colori e le sfumature di una personalità ambigua, contraddittoria, spesso grottesca, sintesi d'ogni fosca tirannide: il ghigno lussurioso e la petulanza ridanciana, la miope arroganza (Non ho paura di lui, non ho paura di nessuno… Non l’autorizzo a risuscitare i morti...) e il confuso isterico sgomento (Sento nell’aria come un battito d’ali, un battito d’ali gigantesche).
Tra la Salomè dei Vangeli, adolescente vittima delle istigazioni materne, e la “fredda incantatrice lunare”, Wilde sceglie quest’ultima. Che appartenga all’esasperata sensibilità decadente di un’epoca o che getti una luce universale sugli abissi dell’inconscio umano, è anche nella voce di questa tragedia che ritroviamo - su questa scena ammaliante e ipnotica - il Wilde artista geniale che cambiò “la mente degli uomini e il colore delle cose” risvegliando l’immaginazione del suo secolo; e l’esteta prodigioso, soave nella coerenza del proprio sentire, che alla miseria dei legulei incalzanti perché rispondesse alle accuse infamanti, oppose il suo gigantesco inimitabile: “Non so rispondere a prescindere dall’arte”.