Si diceva, negli anni ’70, che si poteva semplificare il lavoro; si poteva ridurre il personale; le pratiche burocratiche sarebbero diventate più veloci, sarebbe anche stato ridotto il volume che soffocava gli archivi, registrando tutto su microfiches e supporti magnetici.
Questo ed altro erano i progetti legati al “boom” dell’informatica nei lontani anni ’70.
Sembrava fantascienza; ne leggevo tanti, di romanzi di fantascienza, mi divertivano certe fantasie di autori considerati stravaganti: robot che svolgevano compiti particolari, il mondo della letteratura cartacea che veniva messo al bando o, peggio, bruciato; i viaggi interspaziali e le battaglie dei virus.
Mi sentivo un po’ stravagante anch’io, nel leggere tutti quei libri; un po’ diversa dalle mie amiche che divoravano Liala e Delly. Ero giudicata un po’ stramba perché leggevo fantascienza, di solito riservata ai maschi. Ci credevo anche, a quelle storie fantascientifiche, secondo me erano una sorta di premonizioni. Ne parlavo con pochi amici coi quali condividevo questa passione. Tra noi nascevano discussioni sui pianeti abitati da altri uomini, sulla venuta degli ufo, sulla stanza 51 del Pentagono, e così via.
Per completare questa fame di sapere ultraterreno, mi cimentavo nella lettura di testi di astrologia e astrofisica piuttosto indigesti, ma, sforzandomi un po’, riuscivo anche a comprendere nozioni che normalmente masticavano solo gli universitari.
Avevo delle lacune enormi nella mia istruzione, dovute a problemi di salute che arrivavano dalla prima adolescenza. A vent’anni ancora non sapevo cosa avrei potuto fare nella vita, pur aiutando nel lavoro della famiglia.
Si parlava, negli anni ’70, dei primi computer installati nelle grandi aziende. Le ditte di un certo livello, e con un notevole numero di dipendenti, dovevano imparare ad attrezzarsi elettronicamente per evitare gli enormi costi del personale che si occupava di contabilità. Tutto veniva eseguito manualmente: registrazioni sui libri contabili, compilazione di prime note, battitura a macchina di assegni degli stipendi. Dovevano essere controllati i cartellini aziendali ed eseguire con le vecchie calcolatrici a manovella i conteggi che avrebbero consentito di erogare le paghe. In aziende che tra dipendenti stanziali e cantieristi si raggiungevano le 3000 unità, il lavoro era lungo e massacrante, sia dal punto di vista dei costi che dal tempo di esecuzione. Ma arrivarono i calcolatori elettronici che migliorarono, su tanti aspetti, l’andamento dell’azienda.
Un posto presso le aziende di questo calibro, era ambito e occorrevano diplomi o lauree; però, in quegli anni, con l’innovazione tecnologica, le figure professionali che si orientavano all’elettronica e all’informatica in generale, non richiedevano particolari titoli, piuttosto una buona specializzazione nei settori particolari: ruoli operativi, di programmazione e perforazione di schede.
I miei amici amanti della fantascienza sapevano tutto sull’argomento; eravamo tutti, chi più e chi meno, interessati ad un posto di lavoro qualificato, innovativo e specialistico; le nuove figure professionali erano ambite e stimolavano la nostra fantasia.
Negli anni ’70, le buone ragazze di famiglia seguivano le indicazioni dei genitori che suggerivano lavori da ragioniera, da maestra, o propendevano per la ricerca sistematica di un marito e dunque un conseguente matrimonio che le avrebbe “sistemate” per la vita. Alcune famiglie gestivano attività che coinvolgevano tutti i membri, anche i bambini, perché in quegli anni non si parlava ancora di sfruttamento minorile. Alcuni credevano nell’attività famigliare e desideravano che i figli proseguissero nella gestione del lavoro che si tramandava da generazioni di padre in figlio.
I miei genitori avrebbero preferito una continuità nel loro lavoro, ma io scalpitavo e con alcuni espedienti, convinsi mio padre a farmi partecipare ad un corso da operatore.
“Ma perché non fai il corso delle ragazze?” Mi chiedeva più volte il giorno, sapendo che quello scelto da me era frequentato soprattutto da maschietti.
Ero decisamente una figlia ribelle, e solo per il fatto che lui pretendeva che seguissi corsi più adatti a figure femminili, mi rendeva ancora più testarda e determinata.
Fu un giorno di settembre che iniziai a convivere con le nuove tecnologie e in una classe di 24 maschi e 4 femmine, compresa me. Il non essere la sola mi consolava, ma i compagni migliori si rivelarono i ragazzi.
Tra loop, bit, byte, sistema binario, esadecimale e schede perforate, presi, a maggio il diploma di operatrice elettronica, aggiudicandomi la migliore votazione della classe.
Negli anni ’70, le ragazze, in teoria, potevano già accedere a posizioni riservate da sempre solo ai maschi, ma c’erano delle condizioni particolari che ancora non erano superate. Per esempio i turni notturni, nelle aziende, non si potevano coprire. I corsi privati li poteva frequentare chiunque e i diplomi rilasciati erano perfettamente legali, ma poi ci si scontrava con vecchie leggi e condizioni sindacali ancora in fase di discussione.
Era il mese di agosto, erano ancora tempi in cui si potevano programmare le ferie con serenità e certezza di ritrovare nuove possibilità lavorative anche al rientro dalle vacanze; le opportunità non mancavano, però, perché certe aziende non prevedevano chiusure estive. Tra le varie domande che quell’estate inviai alle più importanti aziende che, sapevo, si sarebbero attrezzate elettronicamente, ricevetti risposta per una possibile assunzione immediata: era il 13 di agosto ed entrai con timidezza attraverso le porte a vetri dell’azienda che più di tutte speravo di contattare.
L’unica amarezza fu quella di dover accettare la posizione di perforatrice/verificatrice di schede elettroniche, perché il ruolo di operatore era riservato agli uomini.
In quegli anni ’70 i calcolatori elettronici erano veri e propri armadi dentro i quali giravano vorticosamente dei dischi che trasmettevano informazioni, ad una velocità mai conosciuta prima, di dati che avrebbero richiesto moltissime ore di lavoro e il tutto poteva svolgersi in pochi minuti. I CED erano una realtà in crescita esponenziale e le aziende che per prime utilizzavano questi nuovi strumenti, diventavano luoghi di indagine per le istituzioni e visite continue da parte di aziende più piccole, non ancora dotate di tecnologie informatiche, ma che intendevano attrezzarsi. Le tecnologie miglioravano continuamente e quello che un anno era l’ultimo calcolatore costruito, in pochi mesi diventava obsoleto. La velocità di trasmissione delle informazioni, andava di pari passo con il decadimento tecnologico di ogni nuova apparecchiatura.
Lavoravo con cinque o sei colleghe in un locale definito “area perforazione”. Le macchine erano come enormi scrivanie con ribaltina. Si dovevano riempire gli alimentatori di destra che avrebbero ceduto una ad una le schede a 80 colonne, sulle quali dodici punzoni per le dodici righe, informavano ogni colonna sul carattere che avrebbero dovuto portare.
Scorrevano su un nastro e scattavano di una colonna ogni qual volta si premeva un tasto sulla tastiera corrispondente al punzone che perforava; poi venivano rilasciate e alimentavano un serbatoio di arrivo sulla sinistra.
C’erano poi le macchine verificatrici che si utilizzavano di tanto in tanto; al posto dei punzoni avevano delle fotocellule che dovevano segnalare i fori non eseguiti o quelli fatti per sbaglio.
Ci separava dal Centro Elettronico vero e proprio, detto anche Centro Elaborazione Dati, una parete a vetri.
Negli anni ’70 i CED dovevano essere predisposti con caratteristiche precise: i pavimenti erano leggermente sopraelevati per poter posare i cavi e spostare l’elaboratore ovunque fosse necessario, sollevando soltanto qualche piastrella del pavimento; l’aria interna era pressurizzata per evitare che si impolverassero i delicatissimi ingranaggi, in parte ancora meccanici. I chip non avevano ancora assunto la conformazione degli attuali circuiti stampati, praticamente invisibili, e talvolta si potevano riparare manualmente; qualche tecnico si cimentava ancora con saldatore e filo di stagno per piccoli problemi tecnici. In quei locali era già vietato fumare e gli operatori portavano camici bianchi.
Talvolta, durante brevi pause, guardavamo attraverso i vetri: sembrava di guardare un acquario; stavamo ad osservare l’attività frenetica di quei camici bianchi, ancora affascinate dalle potenzialità di queste nuove tecnologie. Per Natale, un anno, gli operatori ci regalarono il calendario stampato con numeri e lettere che formavano i disegni tipici del natale: l’albero e la stella cometa. Un briciolo di rimpianto, a volte, faceva capolino, quando pensavo che per stupidi motivi sindacali e burocratici non avevo potuto essere inserita in quel ruolo che mi affascinava ancora. Nel mio settore avevo qualche punto in più, data la preparazione scolastica specifica e talvolta mi toccava lavorare su verificatrici numeriche e comporre le informazioni in esadecimale per rendere alfabetici i numeri della tastiera, parte di una materia che le perforatrici non imparavano durante i corsi.
Gli operatori, nei momenti di pausa, venivano a chiacchierare con noi e ci riempivano la stanza di fumo e di aroma di caffè. Erano momenti piacevoli, camerateschi e nascevano anche simpatie e forse qualcosa in più.
Per eseguire una banale stampa di assegni, relativamente allo stipendio di 100 persone, in quegli anni ’70, potevano occorrere un centinaio di schede perforate che richiedevano qualche ora di lavoro e qualche minuto di lettura da parte del calcolatore; poi si sentiva la stampante ad aghi che cominciava a far scorrere i tabulati a piccoli scatti di riga, con il ronzio continuo degli aghetti sopra i fogli che lentamente scivolavano all’indietro e l’operatore doveva essere accorto nel sistemarli immediatamente, per non incorrere in un’emissione selvaggia del cartaceo che avrebbe rischiato di far bloccare la stampante.
Noi perforatrici eravamo il punto di raccolta di ogni operazione contabile. Concluso il nostro lavoro, tutto passava agli operatori, ma tra noi dovevano inserirsi le operazioni dei programmatori che preparavano le minute, a mano, da consegnarci. Dovevamo perforare le schede che sarebbero diventate il programma di esecuzione per l’elaboratore.
Per la contabilità e l’amministrazione si utilizzava il linguaggio COBOL. Ebbi la possibilità di impararlo ad un corso aziendale. Mi cimentai dunque con logica di programmazione e diagrammi a blocchi, linee con frecce direzionali, rombi con le uscite GO TO, IF, uguale e pagine e pagine di minute con le istruzioni che dovevano necessariamente essere ripetitive e pedestri; ma nuove e più importanti innovazioni stavano arrivando dall’America e fu introdotto anche il concetto di Data Base.
Quando furono collaudati i sistemi elettronici per le operazioni più banali, in quei favolosi anni ’70, arrivarono apparecchiature sempre più complesse. Le figure professionali dovevano necessariamente avere una preparazione scolastica elevata. Non ci si poteva più accontentare di un diploma di geometra o di ragioniere. I laureati che venivano richiesti nelle aziende, erano ingegneri e architetti; se poi, autonomamente, avevano già seguito specializzazioni in informatica, le aziende se li contendevano. Si programmava in Fortran, Basic e Assembler. I giganteschi calcolatori cominciavano a ridimensionarsi e occupare meno spazio, mentre entravano, all’interno dei CED, grandi tavoli che stampavano tabulati da AUTOCAD, un innovativo programma di progettazione che in pochi minuti poteva realizzare una proiezione ortogonale, una piantina o un prospetto per la progettazione di un’acciaieria.
Quando finalmente i dibattiti sindacali sulla possibilità o meno di concedere il part-time alle donne, furono risolti, mi affrettai a chiedere questa facilitazione.
Mi ero sposata, in quegli anni, e dopo i due figli, stava diventando impossibile sostenere le dieci ore di lavoro da svolgere lontano da casa.
Questa condizione, ovviamente, mi obbligò a scegliere una posizione lavorativa inferiore e mi fu offerta la possibilità di “creare” l’area della segreteria informatica. Se per certi versi fu una rinuncia, per altri, il nuovo lavoro, tutto da inventare, mi consentì di cimentarmi con nuove macchine elettroniche per la memorizzazione dei testi.
Ancora, negli anni ’70, si usava la stenografia per poter poi redigere una lettera con il tempo e la calma necessaria per non “batterla” sbagliata. Le macchine da scrivere erano meccaniche o tutt’al più elettriche. Si dovevano usare le carte veline per poter fare più copie di una stessa lettera: bianca era la copia per il mittente, verde quella che doveva essere consegnata al protocollo, gialla quella che andava archiviata. Le possibilità di errore erano elevatissime e i modi per correggere gli errori erano assai pochi e quasi sempre identificabili.
Venivano utilizzati dei piccoli foglietti sui quali, infilandoli tra rullo e battuta del tasto, coprivano la lettera errata; poi, sopra, si poteva ribattere quella corretta. Il problema erano le tre veline che rimanevano sotto. Spesso si vedevano lettere incomprensibili che si riconoscevano solo per il senso della frase. In seguito subentrò lo “sbianchetto”, un vero flagello perché macchiava di bianco ovunque se non si faceva più che attenzione e non lo si lasciava asciugare.
Pur avendo una buona manualità sulla macchina da scrivere, sia meccanica che elettrica, non si poteva, in un nuovo CED, ricco di apparecchiature di ultima tecnologia, vedere una segretaria che batteva energicamente su tasti meccanici.
Incontrai da subito le macchine a palline che ruotavano, e qualche mese dopo quelle a schedine di 96 colonne per arrivare nel giro di un anno alle macchine da scrivere con un piccolo floppy disk che conteneva 4 pagine digitate. Ma il vero capolavoro di queste nuove macchine era la possibilità di correggere senza stampare!
Cominciarono ad arrivare le prime fotocopiatrici, mettendo definitivamente in pensione le tante veline colorate che riempivano le cassettiere delle segreterie.
Mentre si passava velocemente dalle schede perforate ai video terminali che registravano su cluster, in quei lontani anni ’70, anche per l’elaborazione dei testi cominciava una vera rivoluzione. I calcolatori non necessitavano più di schede perforate, ma ogni programmatore sia di contabilità che di progettazione, era dotato di un video terminale collegato alla memoria centrale. L’operatore diventava così un semplice esecutore e controllore; doveva essere sempre vigile affinché l’apparecchiatura fosse in funzione e le stampe giungessero a buon fine.
Le segretarie persero la connotazione primaria di passacarte e battitrici di lettere e diventarono delle piccole operatrici nel loro settore per le quali era necessario un diploma di studi adeguato e una preparazione specialistica che poteva variare da azienda ad azienda. La segreteria diventava “gestione delle informazioni”.
Per motivi di lavoro, mio marito fu trasferito a Milano e l’evoluzione informatica, per me, si interruppe bruscamente soffocata nelle nebbie padane. Quando i bambini cominciarono ad andare all’asilo, mi sentivo una lavoratrice mancata e mio marito, per tentare di stimolare ancora la mia antica propensione per le innovazioni tecnologiche, una sera entrò in casa con uno scatolotto bianco, una tastiera e un video. Li mise su una scrivania e mi fece vedere dove si accendeva, affidando il tutto alla mia inventiva, allo studio del sistema e alla possibilità di un lavoro svolto in casa.
Gli anni ’80 videro un continuo compattamento nelle dimensioni dei calcolatori elettronici, fino ad arrivare al prodotto definito “personal computer”. Qualcosa che si poteva usare staccato da ogni collegamento a memorie principali, ma solo, in principio, ad un cavo della corrente elettrica, in seguito nemmeno più a quello; possiede una vita propria, seppur breve, ma cos’è permanente in questo nostro mondo? L’impermanenza è l’unica possibilità che ci trascina alla continua ricerca di un dove e di un come. Negli anni ’70 tutto veniva dirottato dalla parte meccanica a quella “morbida”, cioè dall’hardware al software; inizialmente il software veniva sorretto dall’hardware, ma in seguito le posizioni si sono ribaltate e hanno visto moltiplicarsi l’importanza del software a scapito della lenta e implacabile riduzione dell’hardware.
Svolgevo una piccola attività di digitazione testi. I giovani universitari che abitavano lontano dalla città, cominciarono a chiedermi di preparare le loro tesi.
Mi divertivo in questo lavoro: imparavo cose nuove, praticamente studiavo con loro, perfezionavo il mio lessico e coprivo qualche necessità economica della famiglia. I giovani mi rimanevano affezionati e seguivo i loro progressi, finché mi avvisavano di aver conseguito la laurea e magari di avere già un posto di lavoro.
Con alcuni rimasi in contatto per anni, poi ne ho perse le tracce.
Le nuove tecnologie informatiche non si arrestarono più e negli anni ’90 dalle capacità di tanti esperti in software, cominciarono a svilupparsi i programmi di impaginazione elettronica.
Questi software sempre più potenti, se da una parte semplificano il lavoro di chi lavora sul testo o sui numeri e necessita di strumenti che accelerino i processi di calcolo e di sviluppo di pensieri in parole stampate, dall’altro presentano il pericolo di una prevaricazione della macchina a scapito dell’ingegno dell’uomo, come per esempio succede coi traduttori elettronici e con la preparazione di lettere e documenti istituzionali.
Chi ci conosceva, sapeva che, sia io che mio marito, lavoravamo nel campo dell’informatica e qualcuno ci coinvolse in un’attività di impaginazione, fotocopiatura e preparazione di manualistica tecnica. Ed ecco che la mia passione per l’informatica riprese il sopravvento e non saprei contare le ore della notte che passai a comporre manuali inserendo immagini create attraverso i nuovi programmi di grafica spicciola. Imparai ad utilizzare i nuovi impaginatori elettronici, fino alla possibilità di insegnare ad altri il loro utilizzo.
Per motivi personali e di incompatibilità caratteriali, dovetti abbandonare questo lavoro e per tanto tempo ho dovuto accantonare il mio procedere verso le conoscenze informatiche.
Ora utilizzo il web, scrivo e-mail e mi diverto a comporre poesie scorrendo velocemente sulla tastiera che, fedelmente, segue il mio pensiero.
Nel terzo millennio il dialogo con la macchina è ormai un fatto consolidato; si vedono e si sentono le persone che operano sui terminali, dialogare come se dall’altra parte ci fosse una persona. Chiedono consigli e suggerimenti come “pacchetti” pronti le loro scelte e si affidano ai pensieri di altri, di coloro che programmano gli strumenti informatici. Altre teste, altre personalità, tendenze negative e positive penetrano nei tanti operatori dei terminali senza che ne abbiano la coscienza; messaggi subliminali che modificano il pensiero di chi non ha ancora avuto modo di formarsene uno proprio, come i tanti giovani che si lasciano assorbire dai video giochi. Si “conversa” con un altro sé, convinti di avere libertà di scelta; ma non è il proprio sé, è quello di altri.
Ora c’è il rischio di un software che si dilata, sempre più potente, e che crea una rete nell’etere che coinvolge ogni oggetto dotato di antenne riceventi, proprio come noi, esseri umani, che siamo antenne posate sulla terra e riceviamo frequenze dall’universo, anche se ancora non ne siamo consapevoli.Quando costringeranno a installare nel corpo un chip che possa essere schiacciato con un solo tasto? Un dio carnale potrà governare la terra e nessuno avrà la possibilità nemmeno di conoscerlo. Tutto questo conviene? O forse sarebbe più giusto riconsiderare quel Dio immanente che qualche capo carismatico predica da migliaia di anni? Quel Dio che le scelte le consente e che aspetta pazientemente che le coscienze si dilatino; un Dio che accoglie e consola anche quando la materialità di questo mondo colpisce pesantemente.
Osservo con compassione quelli che faticano a percepire il vero senso del linguaggio di programmazione e mi diverto quando sento brontolare chi utilizza un PC negli uffici pubblici. Ripenso alle ore passate sulle schede perforate e ai momenti in cui tutto il lavoro doveva essere rifatto perché un piccolo foro sbagliato sulla scheda programma aveva vanificato ore e ore di perforazione. Guardo gli schermi colorati e rammento le letterine verdi che scorrevano e che a sera, al buio, mi facevano vedere tutto rosa.
Sui video tutto si muove a icone; immagini convenzionali che consentono di svolgere in pochi secondi operazioni che a noi richiedevano ore.
Non invidio i giovani che ora lavorano con questi nuovi, e a volte inquietanti, aggeggi elettronici, perché non conoscendo la loro composizione reale, non riusciranno mai ad entrare col pensiero all’interno dei concetti che scorrono guidati dalle icone; questa velocità di trasmissione, a mio avviso, a volte consente tante, troppe, vane e vaghe operazioni.
Mi accorgo, però, che hanno sviluppato una prontezza che alla mia generazione non è più consentita, e non è solo una questione di riflessi più lenti. Penso piuttosto alla formazione originaria, così specifica e minuziosa delle prime e fondamentali operazioni informatiche. Si tratta, evidentemente, di un modo di pensare diverso, di uno spostamento orizzontale dell’attenzione verso i particolari, piuttosto che il susseguirsi verticale di operazioni che percorrevano l’antico filo logico della diagrammazione a blocchi.
L’evoluzione rapida e globale dell’informatica ha consentito salti generazionali dei quali ancora non siamo consapevoli e forse avranno conseguenze che non sappiamo, ad oggi, quantificare.
In questi ultimi anni le tecnologie stanno superando le capacità intellettive dell’uomo. Una macchina, come Al di “2001 Odissea nello spazio”, prenderà il posto di un presidente, di un capo carismatico o di un semplice cameriere che incontriamo al ristorante. Si potrebbe faticare a riconoscere il robot dall’uomo, perché l’estetica potrebbe intervenire sull’etica e tentare di far scomparire le differenze, proprio come già si fa per mascherare l’età anagrafica. I valori morali diventano messaggi obsoleti e altri “cervelli” costringeranno l’uomo a non comprenderne più il significato, né a saper distinguere il buono dal cattivo. L’essere umano, l’homo sapiens, concepito come oggi, nato da un uomo e da una donna e alimentato a prodotti vivi, diventerebbe così il nuovo dinosauro della storia.
Negli anni ’70 mi sembrava di essere un pioniere dell’informatica, un astronauta che partiva con la sua navetta per l’iperspazio in cerca di mondi nuovi, un esploratore sempre alla ricerca, tra un universo scontato e visibile e una realtà infinitesimale ancora da esplorare. Il progresso ci prendeva per mano, ora ci ha preso la mano e tutto il braccio; certe volte mi sento prendere in giro dai figli perché invece di “agire” sul computer, preferisco “ragionare” su quanto sto facendo: voglio sapere, essere presente a me stessa quando compio un’azione che potrebbe avere conseguenze viaggiando alla velocità della luce attraverso l’etere. Non era lo spostamento di un granellino di sabbia che provocava un terremoto all’altro capo del mondo? Dubbi, pensieri lontani, un ultimo sprazzo di lucidità prima della fine della vita; incertezze e timore di aver contribuito ad un progresso deleterio per il genere umano, mi assalgono e mi fanno riflettere, senza ottenere risposte, né soddisfazioni. Forse sono anch’io come un dinosauro: una specie in via di estinzione.
Franca Oberti