La parola stessa, bioregione, è da noi quasi sconosciuta, citata da qualche avvertito articolista in ambiti minoritari ed ecologisti, dove comunque non ha trovato spazio adeguato né come concettualizzazione, né – il che è più grave – come prassi.
Questo, sebbene anche da noi il movimento del ritorno alla terra, magari non strutturato, sia piuttosto pronunciato, unito a svariate iniziative produttive e commerciali legate al biologico, e quindi alla “riduzione di scala”, sempre più radicate e credibili. Pensiamo alla estrema difficoltà che le multinazionali dei prodotti alimentari transgenici stanno incontrando nella diffusione dei loro prodotti nel paese. Ora, se c’è qualcosa che crediamo sia difficile contestare da un punto di vista ecologista, è la necessità di un totale mutamento, di un cambiamento radicale nelle abitudini di vita degli abitanti del mondo supersviluppato, nonché dei rapporti fra questo e il resto della popolazione del Pianeta, che del supersviluppo paga quotidianamente le conseguenze.
Questa necessità si manifesta con grande evidenza proprio nel momento storico in cui le ideologie e le “visioni del mondo” alternative denunciano i loro limiti e fallimenti. Ma c’è di più. La necessità di un mutamento radicale è legata anche all’atrofizzarsi dell’ecologismo, sempre più divaricato fra la reale consapevolezza e le idee mutuate dai comportamenti di vasti settori della nostra società. Il fatto è che, senza un punto di riferimento ideale, che serva da matrice per le scelte di vita personali e, quindi, politiche, le varie ricette filantropiche per la salvezza del Pianeta, il “nuovo modello di sviluppo”, la compatibilità ambientale e tutto il bagaglio del riformismo verde non sono in grado di colmare questa distanza.
È sicuramente vero che l’ecologia, nella sua sfumatura “naturistica”, è diventata “di moda”, ma ci auguriamo si avverta tutto il desolante significato di questa affermazione. Se l’ecologismo è di moda, ciò significa che è stata metabolizzata dalla società dei consumi, che il rispetto per l’ambiente è divenuto un luogo comune della banalizzazione mediatica, con il deprecabile doppio risultato di agire superficialmente e di porsi, inevitabilmente, al servizio di chi indirizza mentalità e comportamenti collettivi.
Ora, chi gestisce il potere, reale o virtuale che sia, non ha alcun interesse a proteggere la natura di tutti, a meno che questo comportamento non corrisponda ad esigenze di mantenimento del potere stesso. Non ne ha interesse reale, perché la funzione di potere è intrinsecamente anti-ecologica, essendo la natura un organismo che tende all’omeostasi e si autoregola attraverso una serie di interdipendenze relazionali e la compartecipazione delle specie a tutto il processo vitale. Il potere, al contrario, irrigidisce gerarchicamente i rapporti - oggi in forme tecnocratiche - ed ha come logica tutta moderna l’applicazione di astratte leggi economiche quali vere “leggi di natura”, determinando la mercificazione dell’esistenza.
Lo sfruttamento ne è, dunque, elemento sostanziale: sulle persone, i popoli, la natura. Se l’ecologia è di “moda”, cessa di essere conflittuale con lo status quo, perdendo quella capacità unica di rottura e critica alle cause stesse della civilizzazione industrialista e tecnomorfa. All’oggi, ad esempio, il compostaggio dei rifiuti, il loro riciclaggio o le bonifiche, sono regolati da logiche profittevoli identiche a quelle che generano inquinamento e corruzione. Per assurdo, al deteriorarsi delle condizioni di sopravvivenza relativamente allo scarseggiare di materie prime e altre implicazioni dovute al titanismo industriale, potrebbe affermarsi una sorta di ecologia di Stato – o di super Stato mondiale – destinata a fronteggiare le emergenze ambientali con una politica di restringimento delle libertà, personali e comunitarie.
È la logica secolare dell’affermazione degli Stati nazionali e dei loro mercati sui Popoli e le culture. È la logica progressista che reprime gli effetti incapace di rimuovere le cause che detronizzerebbero la sua egemonia culturale e politica.
Già si hanno piccoli riscontri di questa tendenza nella contrapposizione fra le amministrazioni e le popolazioni locali per la realizzazione di discariche e inceneritori. La gente ovviamente non li vuole vicino casa ma vive in modo da renderli indispensabili… Il potere pubblico è ovviamente pronto a imporli con la forza, o comunque senza consenso, e dunque senza partecipazione, essenza della democrazia.
Nel bioregionalismo troviamo stimoli per una risposta coerente a tutto questo. Se gli Stati Uniti sono l’avanguardia mondiale della dilapidazione naturale e dello stile di vita consumista che gli è proprio, solo sotto due aspetti hanno favorito condizioni vantaggiose per il bioregionalismo.
La spontanea tendenza – peraltro non dominante – al decentramento ed alle autonomie locali (l’aspetto che impressionò positivamente Alexis de Tocqueville nel suo Viaggio in America) e il riferimento alle culture indigene, native. Ma il continente europeo non è sicuramente da meno in fatto di riferimenti al localismo. La tradizione autonomistica, regionalistica in senso lato, è molto radicata. Ci sembra perciò che il bioregionalismo sia al cento per cento prodotto da esportazione. Ovviamente, però, non a “scatola chiusa”: le differenze storiche, culturali e sociali tra l’Europa e gli Stati Uniti sono tali da rendere impraticabile una equiparazione. Ma una simile precisazione è tautologica, visto che parliamo di una visione del mondo che nasce “aperta”, e contraddirebbe la propria essenza se pretendesse di fornire indicazioni assolute, ideologiche, universalmente valide.
Un riferimento certo è che la prospettiva bioregionalista vede nello Stato-nazione un’istituzione storicamente recente e, contemporaneamente datata, che si è imposta dopo una spietata lotta contro le autonomie locali, trasformando l’abitante da agente attivo e partecipante alle decisioni politiche – qual era nel contesto comunitario – a recettore passivo di beni a servizi in cambio della sua anonima “cittadinanza”. In controtendenza, il bioregionalismo propone una ristrutturazione complessiva dell’organizzazione territoriale, per il bene non solo degli esseri umani, ma di tutta la biosfera, ridiscutendo gli arbitrari confini statuali della tarda modernità, a partire dal principio di autodeterminazione, esprimendo autonomie ed interconnessioni naturali sulla base delle identità culturali.
Dalla più semplice – la comunità locale – alla più complessa – il pianeta terra: la mitica Gaia. Non è difficile immaginare l’alternativa al pericolo in cui il modello industriale-scientifico ci ha posto: si tratta semplicemente di tornare ad essere abitanti della terra.
Dobbiamo recuperare lo spirito che caratterizzò il “senso del limite” degli antichi Greci, considerando nuovamente la Terra come una creatura vivente.
Vi è un modo sacrale di confrontarsi con essa e con le sue creature, un modo che implica rispetto e ammirazione, un respiro comune che inibisca l’abuso e la relativa obsolescenza.
La parola bioregione si compone semanticamente di bio, la parola greca che significa vita e “regione” che deriva dal latino regere, cioè governare. La vita che si autogoverna nel limite biotico di un territorio. Un territorio abitato, un luogo definito dalle forme di vita che vi si svolgono, piuttosto che da decreti legge; una regione governata dalla natura. Tutto ciò è credibile solo coltivando una rinata sensibilità per la specificità dei luoghi e delle culture, una lealtà politica verso il territorio in cui viviamo, unite a pratiche economiche e sociali indigeste al sistema mondo capitalista.
Vorrà dire un’economia radicata nella particolarità del territorio e delle sue tradizioni, espressa dalla sensibilità delle comunità locali. La pluralità delle identità comunitarie evita i rischi di accentramento del potere e quindi di colonialismo o imperialismo.
La complementarietà e lo sviluppo di una fitta rete di relazioni intercomunitarie – tra cui la sussidiarietà e l’interdipendenza – possono definire con sufficiente approssimazione l’intento di un “federalismo ecologista”. Il problema di fondo è di ripensare pluralisticamente il mondo fuori dall’Occidente, dal suo universalismo monistico e dalla sua visione etnocentrica rispetto alla quale tutto diventa periferia. Il problema è di comprendere, per dirla con Mircea Eliade, che “in ogni posto c’è un centro del mondo” possibile.
E quel “centro del mondo” è, per ogni uomo, la sua identità personale e comunitaria, il suo specifico territorio umano, naturale e culturale. Saranno il viaggio e l’ospitalità a tessere, come capi opposti di un unico filo, le trame di una convivenza qualitativa tra le diversità, appagando la necessità profonda, per noi moderni, di ritrovare nel contatto con altre culture, la radice del nostro essere, la risposta al disagio esistenziale indotto dalla civilizzazione di massa: una risposta alla insopprimibile ansia di radicamento.
Stralcio di un saggio di Edoardo Zarelli
(Fonte: Arianna Editrice)