Per
chi avesse visto “L’uomo della Mancha” film vecchiotto (1972)
con un Peter O’ Toole all’apice della forma, forse si ricorderà
l’insolito finale, che è anche il momento clou della storia.
L’anziano Don Chisciotte, una sorta di nobile decaduto, si
imbarca in imprese ritenute” folli”(celebre su tutte la lotta con
i mulini a vento, divenuta paradigmatica di un certo modo di battersi
contro difficoltà inesistenti) , che nel suo immaginario visionario
medioevale sono in realtà il dovere di un cavaliere (ma in realtà
siamo ben oltre la fine dell’epoca cavalleresca: la vicenda è
ambientata fra il il XVI e il XVII secolo). Ai suoi aristocratici
parenti tutto ciò non garba, un po’ per il discredito sul casato,
e molto per il timore di perdere quei pochi averi ancora rimasti.
Così escogitano un trucco in cui lui possa cascare facilmente:
assoldano alcuni uomini, che a cavallo e travestiti con armature da
soldati medioevali, lo raggiungono e lo circondano, mostrandosi
ostili: lui crede siano cavalieri nemici e si prepara a combattere.
Ma essi non fanno che puntargli contro i loro scintillanti scudi
metallici, estremamente levigati e lucidissimi, che facendo da
specchio gli rimandano la sua immagine di vecchio debole e sconfitto.
Quella è la fine delle sue imprese. “Rientrato in sè” (poi
vedremo quanto sia mistificante questa espressione) Don Chisciotte
torna a casa e praticamente si lascia morire.
C’è
un mondo, o meglio un universo, in quello specchiarsi e riconoscere
tutti i propri limiti, tutta l’enorme inadeguatezza umana; quello
che succede in realtà è una sorta di cessione o scambio di
identità: egli stava vivendo una dimensione permeata da quello che
negli antichi culti misterici greci veniva definito enthousiasmos,
letteralmente “ essere
in dio” cioè in altre parole, “essere posseduti dal dio” e
quindi “diventare dio”; si trattava di uno stato in cui nei riti
iniziatici dell’antichità si veniva condotti al punto in cui si
superava la propria natura semplicemente umana per entrare pienamente
in contatto con la propria natura divina e ci si rendeva conto di
appartenere realmente ad un altro piano di realtà, o meglio che una
parte dell’uomo è già in quella dimensione, e l’acquisizione
della consapevolezza, con la susseguente espansione della coscienza,
ve lo può proiettare completamente, qualora il processo sia totale.
Si tratta in sostanza dell’immortalità di cui parlano gli
insegnamenti dell’antica sapienza universale, uno stato che cessa
di essere corporeo, la “spiritualizzazione del corpo” o
trasmutazione di cui parla l’alchimia, eventualità ben illustrata
nel film “Lucy” e anche in parte da “Limitless” (che
significa appunto “senza limiti”).
Per
tornare a Don Chisciotte, quella che per l’uomo ordinario era
follia per lui era la sua realtà divina che si era impossessata di
lui e che egli viveva con qualche limitazione mentale ma nondimeno
veicolando pienamente lo spirito che l’animava, come dimostrato dal
cambiamento avvenuto in colei che lui chiamava Dulcinea (Sofia Loren
nel film) una povera sguattera zotica e ordinaria la quale,
trasfigurata dall’amore e dalla visione che ha di lei Don
Chisciotte – che la tratta come una grande dama - riconosce la
propria nobiltà di spirito ed inizia a vivere in maniera consona
alla sua “nuova” identità, quella profonda armonia interiore che
trasforma la misera argilla in un capolavoro cosmico quando si
riconosce ciò che si è veramente: lei ri-conosce la vera se
stessa, cioè la sua natura divina, e da allora in poi la sua vita
non sarà mai più la stessa; ma tutto ciò avviene grazie al “pazzo”
Don Chisciotte, che le trasmette la sua visione “magica”, il suo
vedere oltre le apparenze per cogliere l’essenza, la realtà dietro
la parvenza. Il fatto è che Don Chisciotte la “vedeva” nelle sue
vesti regali dello spirito, come allo stesso modo vedeva la realtà
ordinaria attraverso altri occhi – gli occhi di un dio costretto a
misurarsi con la cosiddetta “normalità” cogliendone però
l’inespressa e sottesa essenza.
Ma
torniamo allo specchio: che succede in quel drammatico momento in cui
egli non vede più il Sè, il cavaliere eroico, il dio, ma solo un
uomo ordinario con tutti i suoi limiti e un’identità da pazzo
fallito? L’identificazione con l’ego, l’io anagrafico,
impedisce il contatto con il Sè, e l’anagrafico travolge e
cancella il divino, trascinando le vibrazioni vitali in basso, in un
vortice di pochezza esistenziale. Lo specchio è qualcosa di
vagamente misterioso, presente nelle fiabe e molto usato nella magia,
come anche collocato nella tradizione popolare (in alcuni luoghi è
d’uso coprire gli specchi con un drappo nero quando in casa muore
qualcuno) proprio per la sua capacità di riflettere –forse- anche
quello che non c’è (su questo piano) o meglio che non si vede e
non sembra esserci ma c’è eccome, evocando presenze parallele. Può
agire evidentemente anche al contrario, come nella vicenda di Don
Chisciotte: e cioè attuare un distacco netto fra il Sé eroico del
cavaliere e la sua banale dimensione egoica che affiora implacabile:
imprime forza alla personalità, all’io, vampirizzando il Sé. Noi
vediamo specchiata la nostra pochezza individuale, e non l’indole
fiammeggiante che ci appartiene veramente. Oppure, ed ecco girate le
carte in tavola ma il trucco è sempre l’immagine riflessa, ecco
un Narciso che viene talmente sedotto dal proprio volto specchiato
nell’acqua, che , lungi dall’esserne sconvolto se ne innamora, e
perdendosi nella contemplazione idolatra dell’io si immedesima
talmente con la sua immagine (oggi si dice: “è tutta questione di
“immagine”!) da smarrirsi in essa, perdendo così non solo il Sé ma anche l’ego, poiché annega nel laghetto in cui si è specchiato
cercando di abbracciare la sua stessa immagine: mito estremamente
sintomatico della mentalità di oggi in cui vanno in voga i
palestrati tutto muscolo e le veline tutta coscia –ma cervello
poco. Ma nel caso di Don Chisciotte – come vedremo anche di Dioniso
- naturalmente lo specchio è solo simbolico della concezione che si
ha di se stessi, tutte le idee limitanti e castranti che ci siamo
fatti (o che ci hanno comunicato altri) di noi stessi: sei un
fallito, un inetto, o comunque sei solo un corpo, un pezzo di carne e
niente più: che ti aspetti? Mentre per Narciso è l’illusione di
senso contrario ma altrettanto deleteria, il miraggio dell’apoteosi
dell’io ben al di là dei suoi contorni reali.
Ritroviamo
lo stesso meccanismo che fa leva sul vecchio aristocratico spagnolo
(e forse Cervantes da lì ha preso spunto) in un mito greco molto
antico, quello dell’infanzia di Dioniso, considerato uno degli dèi
ma in realtà solo parzialmente lo è, in quanto figlio di Zeus, il
re dell’Olimpo e di una donna mortale, Semele. Dioniso era odiato
dai Titani, una classe di divinità tradizionalmente avverse agli dèi
olimpici con cui nella mitologia greca combatterono una grande
guerra, la Titanomachia. Rappresentano perciò, simbolicamente, le
forze della disgregazione, le energie disordinate e destabilizzanti
del caos, in contrapposizione all’ordine cosmico instaurato dagli
dèi olimpici.
Insomma,
in qualche modo i Titani riescono a mettere, fra i giocattoli di
Dioniso bambino in sua assenza, uno specchio, che egli poi prende
per rimirarsi: questo è il momento clou della vicenda, perché in tal
modo viene meno il potere protettivo che evidentemente aleggiava sul
bambino e che non permetteva alle forze del caos di toccarlo, di
penetrare nel suo mondo rispondente all’ordine cosmico: Dioniso
vede riflessa la sua natura umana scissa da quella divina, e crolla
così , come per Don Chisciotte, quella barriera che si ergeva fra il
Sé reale e l’ego illusorio, fra l’essenza vera e la sostanza
illusoria, cancellando la prima e lasciando il bambino in balia
dell’identificazione con un ego debole, mortale, transeunte e
fondamentalmente illusorio, non più “guidato” dall’ordine
interiore, dal suo inserimento nel progetto che va ben al di là
della sua individualità; non più “tenuto insieme” perciò
dall’unità del flusso universale di cui fa parte. Viene meno la
consapevolezza di Sé e di tutto ciò che comporta e prende il
sopravvento la coscienza egoica (con la conseguente disunità), e
così egli viene letteralmente dilaniato dai Titani, che poi mettono
a cuocere i pezzi e se li divorano. Ma in qualche modo tralasciano il
cuore (organo sempre simbolico del centro della persona, della sua
unità interiore trascendente) che viene recuperato da Atena (la dea
della saggezza) la quale lo porta a Zeus che ricompone, partendo da
lì, il fanciullo: è ovviamente, un nuovo Dioniso, che tuttavia reca
con sé il segno indelebile dell’opera traumatica delle forze
caotiche, e diverrà il dio dell’ebbrezza, dell’intossicazione
psichica che però può essere anche possessione divina: una visione
oltre gli angusti limiti umani e schemi sociali che fanno di Dioniso
il dio della libertà ma anche del pericolo dell’andare oltre i
limiti senza avere ben chiaro dove si va, insomma una bipolarità,
un’ essenziale ambivalenza, una situazione borderline.
Dunque
qui abbiamo uno smembramento che ritroviamo nel mito di Osiride, che
viene poi a sua volta miracolosamente “ricomposto” per giusto il
tempo di concepire il figlio, Horus, il quale sconfiggerà le forze
del caos (e rappresentate simbolicamente da Seth, il fratello
cospiratore a cui si deve lo smembramento di Osiride); ma lo vediamo
con ancor più precisione nel rituale iniziatico sciamanico, in cui
gli “spiriti” fanno a pezzi il candidato al ruolo di sciamano, e
spesso li cuociono in un calderone come i Titani hanno fatto con
Dioniso. Finito il processo di disgregazione totale, di annullamento,
l’individuo viene ricomposto con pezzi nuovi, finché alla fine è
una “nuova creatura” e degno del ruolo di sciamano-guida della
sua comunità. Ovviamente tutto ciò avviene in uno stato alterato di
coscienza, ma nondimeno come esperienza molto reale sul piano
psichico (come del resto le abductions,
i cosiddetti rapimenti
UFO), ma è sintomatico, insieme alle storie mitiche già raccontate,
di un principio fondamentale: che nel nostro stato ordinario, per il
”gioco” ingannevole dello specchio, noi, crescendo e uscendo dai
dorati cancelli dell’infanzia veniamo “smembrati”, nel senso
che non possediamo un’unità interiore vera e propria, e per via
delle forze dissolutrici del caos che vengono a predominare in noi
non abbiamo un ordine interiore, la nostra personalità diventa
disomogenea e perciò non guidata dallo spirito che è Unità
assoluta.
E
allora che fare? Occorre rimettere insieme i pezzi (quelli veri,
rigenerati), ossia ri-membrarci, attuare cioè il ricordo di Sé,
l’anamnesis pitagorica:
riacquisire, come Dulcinea, il ricordo di chi siamo veramente. Nella
mente del cosmo.
Simon
Smeraldo