Sullo stress lavoro-correlato in Italia c’è un evidente paradosso. Il fenomeno è in rapida diffusione (come dimostra l’essere stato il tema della campagna europea 2014-2015 di Eu-Osha), nei paesi europei si stima che il 25-30 per cento di lavoratori siano esposti a elevato “rischio organizzativo”. Negli ultimi anni in Italia abbiamo assistito al peggioramento delle condizioni contrattuali (con blocco del turn-over nella pubblica amministrazione), all’aumento della precarietà, all’allungamento degli orari di lavoro, alla criticità gestionale di alcuni diritti (come malattia e maternità), all’incremento degli indicatori di malessere (come fumo, alcol, psicofarmaci, suicidi).
Eppure, malgrado queste “premesse”, i primi risultati delle indagini e delle valutazioni dei rischi sullo stress lavoro-correlato (2010-2014) non rispecchiano gli esiti degli altri paesi europei. In Italia vi è frequentemente un anacronistico e tranquillizzante “semaforo verde”, questo anche nei settori notoriamente più critici (come sanità, scuola, trasporti, commercio) o in periodi difficili come le ristrutturazioni aziendali. E c’è di più: le patologie legate allo stress da lavoro (segnalate e denunciate ) sono in Italia in numero nettamente inferiore a tutti i dati europei e mondiali, malgrado siano assodati gli effetti.
Quali sono le cause di questo paradosso? La limitata valutazione del rischio stress e le “mancate” valutazioni (pur dovute ai sensi dell’articolo 28 del decreto legislativo 81/2008) possono essere in parte spiegate con l’atteggiamento difensivistico e formalistico, da mero adempimento burocratico, del mondo imprenditoriale, che non ha colto l’occasione culturale di rivisitare, nella partecipazione, la propria organizzazione, andando verso un benessere o almeno un miglioramento delle condizioni di lavoro. Le aziende hanno messo un po’ la testa sotto la sabbia, producendo non analisi e soluzioni condivise ai problemi bensì costosi e anonimi tomi di carta.
I benefici derivanti dalla gestione dei rischi psicosociali superano ampiamente i costi di implementazione per le imprese di qualsiasi dimensione, ma questo messaggio non è stato valorizzato culturalmente. Ci hanno creduto soltanto pochi dirigenti e datori di lavoro, che pure avrebbero trovato ampio supporto nella partecipazione dei lavoratori e dei medici competenti. Il mondo dei professionisti sanitari è rimasto invece defilato, pur ascoltando e verificando quotidianamente lo stato d’animo e il malessere di molti lavoratori. Anche il mondo sindacale e delle rappresentanze ha qualche responsabilità, non avendo sostenuto in modo continuo la rete degli Rls e non promuovendo in modo esteso confronti di comparto e di settore.
Tra le altre cause vanno evidenziate la limitata adozione dell’Accordo quadro europeo sullo stress, il frequente affidamento della valutazione a esterni (con scarsa valorizzazione delle competenze e conoscenze interne all’impresa), la mancata valorizzazione e lo scarso coinvolgimento di lavoratori e medici competenti, la maggiore attenzione che viene data nelle valutazioni alla safety (attrezzature, impianti, dispositivi di protezione) rispetto alla security (ruoli, benessere, organizzazione), la sottostima delle patologie professionali.
Lalla Bodini
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