lunedì 2 aprile 2018

“Contromano” di Antonio Albanese - Recensione

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Con le migliori intenzioni. Ieri sono andato a vedere “Contromano” di Antonio Albanese. Come temevo è un film prevedibile nel messaggio e nella costruzione. Già, perché si capisce dove va a finire dalla seconda inquadratura (la prima è bella e suggerisce una qualità che per tutto il film invece mancherà).

In realtà il film non “finisce” ma va letteralmente a sbattere contro il muro di buonismo che ha eretto dalla seconda inquadratura in poi: una tesi presentata di primo acchito ma non dimostrata, nemmeno lontanamente.

Il film va avanti a spinte incoerenti anche in senso estetico-narrativo. Quindi non ve la farò lunga, né vi “svelerò” come andrà a finire, tanto si capisce subito.

Dirò che essendo io un viaggiatore che ha passato buona parte dei suoi viaggi incontrando persone di ogni ceto e strato sociale e censo nei loro luoghi d'origine sparsi per il mondo e nelle loro condizioni di vita, a volte dure, il buonismo di questo film – che ha commosso diverse persone che conosco, tutte della mia sciagurata generazione – mi ha lasciato freddo più del marmo.

Ahi, ahi – qualcuno inizierà a dire – dove vuoi andare a finire? A parlare di immigrati, vero?

In realtà quello che avevo da dire l'ho già detto e scritto e si è scontrato col politicamente corretto che ha corroso i pochi neuroni rimanenti della ex meglio gioventù. Esattamente come quando a suo tempo motivai perché ero contrario all'utero in affitto e mi sentii dare in un nanosecondo dell'“omofobo”. Tre pagine di ragionamenti liquidati con un insulto gratuito. E' tutto molto democratico e di sinistra.

Ora, come qualcuno saprà, ho una famiglia multietnica che ha anche subito attacchi razzisti e odio il razzismo più di ogni altra cosa al mondo (e non solo per la composizione della mia famiglia ma per principi a cui tengo molto).

In famiglia non siamo immuni – e nemmeno io lo sono – da comportamenti “buonisti”: ad esempio mia moglie ieri, che era Pasqua, senza dirmelo ha portato del cibo da lei cucinato a ciò che rimane del (bruciato) Centro Baobab, cioè al campo che accoglie immigrati dal Corno d'Africa; e anch'io nel momento di crisi del 2015 vi portai scatole di pomate contro la scabbia e vestiti puliti per i bambini. Perché se c'è la fame c'è la fame e se c'è la scabbia c'è la scabbia. Né l'una né l'altra fanno caso ai documenti e ai passaporti. Sono piccole cose che servono a poco, ma che ritengo occorra fare. Non per sentirsi bene con se stessi (solo uno scemo si sentirebbe bene dopo queste minuzie) ma, al contrario, per darsi un salutare scossone di tanto in tanto.

Eppure ritenevo allora e ancora ritengo indegna la campagna di criminalizzazione dell'Eritrea e l'utilizzo degli emigrati eritrei a supporto di questa campagna.

E continuo a pensare che il buonismo sia semplicemente razzismo col cuore in mano se non si trasforma in denuncia coerente e conseguente delle guerre e delle rapine neocoloniali, cioè dello sport in cui ancor oggi, 2018, il nostro Occidente è primatista assoluto nel mondo. E se non si accompagna alla denuncia coerente e conseguente (sì, anche nel voto!) dell'austerity neoliberista targata Unione Europea-BCE-FMI, perché, come ho già detto, è evidente come la luce del sole che questa austerity (che è bonanza per i finanzieri e l'1%) emargina autoctoni e immigrati, scaraventandoli gli uni contro gli altri. E' una questione strutturale, dove le usuali scuse strombazzate dai cosiddetti "esperti"  del tipo “i giovani italiani certi lavori non li accettano” divengono enormi cazzate strutturali, di fronte al 33% ufficiale – 46% stimato – di disoccupazione giovanile, i giovani che non riescono nemmeno a lavorare gratis e un terzo della popolazione verso la soglia della povertà.

E invece sento in continuazione discorsi vuoti proprio da chi in continuazione ha votato per quelli che hanno fatto scuoiare l'Italia dalla "troika" (perché era "di sinistra"), discorsi evanescenti ma detti con le migliori intenzioni, con le lacrime agli occhi e con l'emozione nello strozzo, conditi con ideali di “libertà” e “uguaglianza” tatuati nel cuore di molti da parte di pochi, abili, ipocriti e feroci che il cuore non lo hanno mai avuto per nessuno.

Io detesto le frontiere, odio il concetto di “razza”, adoro la cultura italiana ma non la uso come sciabola contro le altre culture (che viaggiando ho conosciuto, da cui sono stato accarezzato e a volte ho studiato e apprezzato).
Amo la varietà delle culture e il loro confronto. So che esse evolvono. E' naturale. Ma combatterò la loro obsolescenza programmata, perché è una cosa diversa, è un culturicidio non un'evoluzione. So che le culture si mischiano e si incrociano (quella musulmana fecondava quella cristiana anche durante le Crociate, condotte per altro da criminali di guerra che poi sono divenuti nostri eroi popolari). Ed è un bene che sia così. Ma combatterò il potpourri pianificato a maggior gloria del Capitale, la tabula rasa che è sempre stato lo spazio ideale dell'accumulazione, dalla proto-borghesia seicentesca alla post-borghesia odierna che idealizza persino una tabula rasa sessuale (cosa che ovviamente non ha nulla a che vedere con la legittimità dei rapporti omosessuali; ma è difficile farlo capire a chi ha delegato i propri ideali ai potenti, ai farisei e ai loro scribi).

La testa bisogna utilizzarla e lasciare che il cuore faccia il suo lavoro, in modo normale. Da anni, dato che così mi va, sostengo a distanza una bambina down indiana, la mia Deepa. Non c'è mica bisogno di avere il cuore in mano per farlo. Basta essere normali e comportarsi in modo normalmente umano, con la testa funzionante in modo normale, che per sua natura dovrebbe essere un modo critico e non passivo.

Se si fa così non sarà difficile allora capire l'osceno gioco neo-schiavista orchestrato da élite con l'acqua alla gola e il sangue negli occhi, alle quali dell'eritreo, del somalo, del nigeriano, del siriano non è mai importato storicamente un bel nulla, popoli dai quali, se occorre, bisogna “far grondare sangue” come, affermò Hillary Clinton parlando di quello siriano, popoli ai quali si possono ammazzare mezzo milione di bambini perché “il prezzo è giusto”, come affermò l'altra indimenticabile Segretaria di Stato democratica, Madeleine Albright, a proposito di quello iracheno.
E storicamente si sono sempre ripetute le stesse balle.

Non ci credete?

«Il terzo Bonaparte [cioè Napoleone III], il patron della schiavitù in tutte le sue forme, [è stato denunciato da Lord Malmesbury] in termini chiari e semplici come il principale schiavista d'Europa, come l'uomo che ha riportato alle sue condizioni peggiori l'infame traffico col pretesto della “libera emigrazione” dei neri nelle colonie francesi». (K. Marx, “Il governo inglese e il traffico di schiavi”, 18 giugno 1858).

Impressionante, vero?

Diceva Marx proprio a proposito di Luigi Bonaparte, che la Storia si ripete sempre due volte: la prima volta in tragedia e la seconda in farsa.

Si sbagliava: si ripete tre volte, e la terza è di nuovo in tragedia.


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