Dal corrispondente di Viverealtrimenti, Oscar Salvador
Uno degli aspetti più controversi derivanti dal cosiddetto fenomeno chiamato globalizzazione è l’inarrestabile ascesa dei supermercati appartenenti a grandi multinazionali a discapito dei piccoli negozi a gestione familiare.
Questa ascesa, ormai inarrestabile, è partita dai paesi più sviluppati ma sta iniziando a farsi presente anche nei paesi in via di sviluppo.
In questo articolo non tratteremo delle cause, nè tantomeno delle possibili soluzioni, di tale complicata questione: non siamo qualificati e non saremmo in grado, ma daremo un’occhiata generale tenendo come punti di riferimento i nostri due cari paesi asiatici: l’India ed il Nepal.
I quali, curiosamente, riguardo al fenomeno supermercati adottano politiche completamente diverse: il protezionismo più estremo l’India, il massimo liberalismo il Nepal.
Ovviamente è l’India, che seguendo la sua caratteristica originalità, adotta un sistema utilizzato da pochissimi paesi al mondo.
Nonostante le importantissime manovre di apertura dei mercati da parte di Manmohan Singh, non solo nelle vesti attuali di Primo Ministro, ma anche nella sua precedente carica di Ministro delle Finanze, l’India continua ad adottare una politica che prevede il minor numero possibile di importazioni dall’estero, per favorire un maggior sviluppo interno.
Le leggi che favoriscono questo tipo di approccio, che l’India si può permettere visto che bene o male produce un po’ di tutto, sono chiaramente molteplici e complicate, ma si basano su due semplicissimi principi: tasse altissime, a partire dal 30%, per i generi di importazione, considerati nella maggior parte dei casi superflui, quindi di lusso e tassati come tali; la seconda limitazione, atta a salvaguardare l’industria interna, è quella che prevede un limite massimo del 49% di quote per le imprese straniere, lasciando quindi la maggioranza del business in mani locali.
Il discorso sui supermercati è argomento scottante proprio di queste ultime settimane, per la proposta di legge di aumentare del due percento la quota per gli stranieri, dal 49 al 51%, permettendo quindi l’ingresso nel mercato indiano delle grandi multinazionali, quali WalMart, 7Eleven ed altri, e dei loro prodotti.
La proposta ha causato numerose proteste ed uno stallo parlamentare che ha rischiato addirittura di far crollare il Governo e al momento la questione è stata lasciata, molto indianamente, in sospeso.
Come abbiamo detto, non siamo qualificati per stabilire se questo sia un bene o un male e prendere le parti dei supermercati o dei piccoli negozi sarebbe inutile, anche perché tra le parti interessate, nessuno sembra minimamente disposto a fare dei sacrifici per trovare almeno un compromesso: i supermercati dovrebbero moderare le loro politiche aggressive schiacciaconcorrenza; i piccoli negozi dovrebbero elasticizzare le loro attività per stare al passo con i tempi; i clienti, infine, rinunciare a qualche comodità per cercare di far sopravvivere entrambi.
Altrettanto difficile è stabilire se dia più lavoro un grande supermercato o una dozzina di negozi; questo ricorda il famoso e simile caso de “Il racconto della finestra rotta”, dove risulta estremamente complicato stabilire se la rottura di un vetro da parte di un ragazzino sia un incentivo all’economia, visto che il vetraio guadagnerà soldi che a sua volta spenderà, oppure sia in realtà un danno e se il vetro non fosse stato rotto, non sarebbero stati spesi soldi inutili; il discorso sui supermercati è leggermente diverso ma egualmente irrisolvibile.
Tornando all’India, il gigantesco polverone creatosi attorno alla proposta di favorire l’ingresso delle catene di supermercati stranieri, non va visto come un insuccesso da parte di questi ultimi, anzi, è proprio il sicuro successo che avrebbero, se gli fosse possibile essere presenti, che spaventa gli indiani.
L’India infatti, per quanto riguarda la vendita al dettaglio, si affida a milioni di piccoli negozi che però, spesso, mancano dei requisiti essenziali per essere definiti attività commerciali a tutti gli effetti: un buco nel muro di due metri per tre pieno di patatine, biscotti, bottiglie d’acqua ed altre minutaglie, in molti paesi difficilmente verrebbe classificato come negozio...
Nella maggior parte dei casi, questi negozietti, che spuntano come funghi un po’ ovunque, non sono infatti le vecchie attività portate avanti tenacemente da generazioni ma sono semplicemente creati da ex-possidenti terrieri che venduti gli ormai poco redditizi terreni, raggiungono le vicine città, si costruiscono la loro casetta e lasciano uno spazio per il “negozio”, che alla fine risulta essere solo un sistema per pagare a poco prezzo i beni di consumo.
E allora forse la presenza di qualche supermercato potrebbe portare all’eliminazione di questi business, che in realtà business non sono.
Al momento sul suolo indiano sono presenti alcuni supermercati di merce locale, cioè gli stessi identici articoli che si trovano nei piccoli negozi ma solo il fatto che siano vagamente puliti, abbiano la merce ben esposta e in genere del giovane e attentissimo personale, ne hanno già decretato un sempre crescente successo.
Il Nepal invece, data la quasi assoluta mancanza di fabbriche, non produce quasi nulla, quindi è da anni aperto alle importazioni di qualunque genere: gli alimenti soprattutto dall’India, mentre vestiti ed altri articoli vari dalla Cina.
Sicuramente, complicati accordi finanziari internazionali regolano i prezzi, che in qualche modo devono rimanere bassi per aiutare la non ricchissima clientela nepalese.
Oltre a questo, le più importanti città nepalesi, su tutte le tre della Valle di Katmandu (cioè, oltre alla capitale, Patan e Bakhtapur), ma anche la turistica Pokhara, sono provviste di grandi ed efficientissime catene di supermercati locali che accanto ai soliti articoli propongono un’infinità di alimenti e bevande provenienti, letteralmente, da ogni angolo del pianeta.
Seppur il turismo sia di nuovo in gran fermento e in Nepal vivano numerosi ricchi stranieri che lavorano in genere nell’ambito diplomatico o di progetti umanitari, viene spontaneo chiedersi quanti nepalesi possano permettersi di spendere, ad esempio, più di un euro per comprare un barattolino di olive spagnole, o magari 8-9 euro per una bottiglia di vino rosso francese...
In ogni caso, una passeggiata tra gli scaffali dei più grandi supermercati si rivela essere una specie di giro del mondo e si possono imparare alcune cose interessanti.
Per esempio che gli Arabi devono essere dei gran consumatori di cioccolato, dato che tutti gli articoli di cioccolato proveniente da Svizzera, Germania e Italia, arrivano con scritte arabe poiché importati attraverso quei paesi.
Addirittura alcuni articoli sono prodotti direttamente nella Penisola Arabica, come un quasi-gradevole ed economico wafers ricoperto di riso soffiato e cioccolato (vagamente simile al vecchio “Lion”), prodotto nientemeno che in Oman, e dal nome teneramente internazionale: Bravo.
La passione degli asiatici per patatine e snack piccanti è cosa nota e per capire gli ingredienti di alcuni pacchetti prodotti in Tailandia o Corea o Giappone bisogna possedere delle vastissime conoscenze linguistiche e naturalistiche e, nel caso si riuscisse ad intuire qualcosa, si avrà modo di constatare come le liste dei sapori possano essere decisamente interessanti...
Ovviamente i limiti economici incidono anche sulla qualità, nel senso che i prodotti importati non sono sempre di primordine, però almeno sono disponibili; caso emblematico quello del formaggio, dove accanto ai semplici formaggini indiani e ad un insipido formaggio di yak, trovano posto confezioni superimpacchettate di prodotti caseari provenienti dall’Australia, come il camambert, decisamente buoni ma di certo non paragonabili con le ben più costose produzioni francese o italiana.
Per ultimo, forse per un’inconscia relazione col periodo festivo che sta giungendo in Europa, abbiamo tenuto il discorso sugli alcolici.
Che in India sono regolati da leggi severissime, e quindi spesso ineffettive: il divieto assoluto di bere in pubblico, seppur nei pressi dei negozi ci siano sempre persone mezze-nascoste che consumano; il limite minimo d’età, che a Delhi, ad esempio, è ipocritamente fissato a 25 anni (?!?); oppure il divieto di vendere alcolici a meno di duecento metri da luoghi di culto e scuole, in vigore in Uttar Pradesh, stato indiano che ospita numerosissimi luoghi sacri e milioni di giovanissimi indiani, dove sarebbero quindi illegali pressoché tutte le rivendite di alcool...
Il Nepal invece adotta una politica permissiva come quella dei paesi “occidentali”, seppur chiaramente l’alcool sia considerato un lusso e le bevande maggiormente diffuse, al di fuori delle città, provengono da fermentazioni locali, come le popolari birre di riso e frumento o il vino di palma.
Nelle città, invece, spadroneggiano birre e liquori, questi ultimi sia importati dall’India che prodotti localmente.
Le distillerie nepalesi, tra le quali una molto grande e famosa si trova in pieno centro urbano a Patan, sono infatti tra le poche industrie nepalesi attive e la qualità in genere è leggermente migliore di quella indiana.
Un soggiorno in Nepal non può ritenersi completo senza aver assaggiato almeno un dito del mitico Khukri Rum, un rum scuro, molto dolce ed economico che comunque sembra avere la chiave del suo successo soprattutto nel nome, che si rifà ai mitici coltelli ricurvi, arma preferita dei temibili guerrieri Gurkha nepalesi.
A onor di cronaca infatti, bisogna notare come vengano prodotte anche delle popolarissime sigarette di marca Khukri, seppur in questo caso, anche solo che un minimo istinto di sopravvivenza potrebbe essere sufficiente per non andare oltre un piccolissimo assaggio...
Tornando agli alcolici, molto popolare è la vodka, distribuita dalla già citata distilleria di Patan e chiamata molto appropriatamente Ruslan, seppur, nonostante le paventate avanzatissime tecnologie di produzione proclamate sull’etichetta, conservi un deciso gusto di “grano”, forse un po’ troppo deciso...
Le birre, infine, confrontate con il liquido giallino dallo stesso nome che viene di solito servito in India, potrebbero essere considerate buone, o quantomeno bevibili.
Le marche diverse influenzano il prezzo ma non sempre la qualità, lasciando il dubbio che il processo di suddivisione della birra segua quello della famigerata birra Duff, della città di Springfield dei Simpson, dove da un unico grande tubo, vengono divise la Duff Light, la Duff Strong, la Duff Scura, etc...
Trovare infatti differenze sostanziali tra la birra Gorkha, la Everest e la San Miguel (prodotta in Nepal sotto supervisione filippina...), richiede, infatti, un palato dei più fini.
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