E' finalmente uscito, con la Viverealtrimenti Editrice, la raccolta di racconti, di Oscar Salvador, Di Kali ed altre storie , in vendita, a partire da oggi, sul sito di Viverealtrimenti. Ne proponiamo qui uno dei più significativi.
Morte e Kali - Kathmandu
Alle sei del pomeriggio il traffico di Kathmandu è davvero tremendo.
Sono seduto su un autorikshaw collettivo in posizione quasi comoda e non mi posso lamentare ma se fossi l’autista del trabiccolo mi ucciderei.
Oltre a guidare in questo caos totale, deve stare attento a far salire e scendere i passeggeri e fargli pagare la corsa: questa sì che è una vita dura!
In effetti fra India e Nepal gli autisti di questi mezzi sono sempre molto giovani perché serve una grande energia e suppongo sia un lavoro che non si può fare per molto tempo.
Quindi non mi lamento della mia posizione e poi quasi di fronte a me è seduta una bellissima ragazza nepalese che sembra una bambolina d’ebano.
Peccato stia andando a Pashupatinath a pregare una divinità femminile, così non la voglio guardare più di tanto; quando si è diretti a un tempio mi sembra doveroso cercare di essere concentrati, mentre al ritorno credo di potermi concedere qualche piccola distrazione.
Ma allora mi capiteranno solo uomini, lo so già...
Ora stiamo attraversando proprio il centro della città ed il rikshaw si ferma ogni dieci metri a caricare passeggeri. Con tutte queste frenate improvvise e i saltellamenti vari, inizia a farmi male il sedere ma oggi mi sento in ottima forma perché in tutto il giorno non ho fatto praticamente niente.
Stamattina sono andato a fare la spesa al supermercato più grande della valle di Kathmandu, mi sono fatto un mega pranzo-aperitivo ed il pomeriggio l’ho trascorso a leggere ed ascoltare musica.
Praticamente la vita di un pensionato ma non posso fare molto di più visto che piove tutti i giorni.
Ormai sono quasi due mesi che sono bloccato qui a Kathmandu, sotto al monsone, ad aspettare i documenti dall’università per fare il nuovo visto indiano e rientrare a casa mia a Benares.
Per fortuna che la valle di Kathmandu è uno dei posti più interessanti al mondo e mi ricorda moltissimo l’India, seppur in scala ridotta.
In India per andare a visitare un luogo sacro devo percorrere migliaia di chilometri mentre nella valle di Kathmandu mi basta prendere un autobus locale ed in un’ora, in genere, sono arrivato.
A parte lo smog, perfino il traffico è più sopportabile nella sua anarchia.
La zona sacra di Pashupatinath, poi, mi sembra una Benares in miniatura: il suo Ghat crematorio, i suoi templi, il fiumiciattolo sacro...
Mi dispiace non essere a Benares o comunque non essere in India ma come alternativa il Nepal è perfetto.
Giunto a destinazione scendo dal rikshaw, pago la corsa e mi inoltro per i vicoli che conducono alla zona dei templi.
Venire qui nel tardo pomeriggio, è completamente un’altra cosa rispetto alla mattina. Fino all’ora di pranzo è pieno di turisti, guide, venditori di souvenirs, pellegrini che vengono da fuori e gli stranieri devono pure pagare un biglietto d’entrata abbastanza costoso.
Invece, al tramonto, c’è un’atmosfera meravigliosa: non ci sono turisti, quindi neanche guide e venditori, i pellegrini sono solo persone che abitano nei dintorni e lo sportello per far pagare il biglietto agli occidentali è chiuso.
In due minuti arrivo nella zona dei riti crematori e mi dirigo verso una bella terrazza dove mi siedo abitualmente: da lì riesco a vedere tutto e non disturbo i parenti che assistono alle cremazioni.
Stasera c’è una leggera brezza che spinge il fumo dritto verso la mia postazione ma non posso avere tutto dalla vita. La temperatura è ideale, non c’è nessuno in giro a disturbarmi e pazienza se mi devo ricoprire della cenere di una pira; anzi, è sacra…
In questo momento delle sei-sette piattaforme adibite alle cremazioni solo due sono occupate: in una la pira sta quasi finendo di bruciare e nell’altra, proprio sotto di me, hanno appena portato il cadavere e devono ancora accenderla; perfetto!
Mi godo per qualche secondo la magica atmosfera del tramonto, con l’oscurità che avanza sopra i tetti dei templi, quindi fisso il fuoco della pira accesa ed inizio a ripetere mentalmente il mio mantra di Kali.
Dopo poche ripetizioni sento dei rumori dietro di me e mi giro con molta cautela, perché a quest’ora di solito sono le scimmie che scendono dalla collina. Ieri, mentre ero seduto su questo muretto, una scimmia mi è passata praticamente sopra, lasciandomi come ricordino una zecca.
Invece stasera non sono le scimmie ma una coppia di ragazzi occidentali.
È una cosa tanto insolita vedere degli stranieri in questo posto verso sera che mi fa perfino piacere che anche loro possano godersi questa atmosfera.
Noi occidentali siamo sempre molto rispettosi dei riti funebri, forse anche un po’ spaventati e, nella maggioranza dei casi, le persone che vengono qui per la prima volta stanno in silenzio o, al massimo, parlano sottovoce come sta facendo questa coppia.
Si avvicinano al muretto per vedere meglio, sento una parte della loro conversazione e mi accorgo che sono italiani.
Mentre li guardo il ragazzo si volta verso di me, sorride e mi saluta:
«Namastè!».
Da un certo punto di vista mi dispiace molto dover interrompere le mie preghiere ma cercare Dio chissà dove e non vederlo nel prossimo, nelle persone che ho intorno, mi sembra un controsenso. E poi sarebbe proprio da maleducati non rispondere ad un allegro saluto, così mi volto e sorrido: «Namastè! Siete italiani, vero?».
«Sì, anche tu?».
«Sì, sì. Mi sembrava di aver sentito parlare una lingua familiare. Di dove siete?».
«Di Milano e tu sei ligure?».
«Sì, sono di Genova. Sto un po’ perdendo le origini perchè sono quasi sei anni che vivo tra India e Nepal ma, a quanto pare, il mio accento genovese resiste».
Il ragazzo ride: «Scusa ma si capisce subito...».
«Hai ragione, me lo dicono tutti! Voi cosa fate di bello a Milano?».
Si guardano un secondo poi lui lascia rispondere la ragazza: «niente di particolare, io mi sono appena laureata e lui deve presentare la tesi fra qualche mese. Questo è il nostro viaggio di fine studi».
«Oh, che bello!», un viaggio in Nepal è proprio quello che ci vuole per festeggiare una laurea.
«E tu cosa fai in India?», mi chiede lei.
«Anch’io sono uno studente, per l’esattezza studio la lingua hindi all’università di Benares. E le vostre materie? Tu in cosa ti sei laureata?».
«In astronomia».
«Oh mamma mia, che materia cazzuta! E tu invece cosa studi?», chiedo al ragazzo.
«Anatomia».
«E mi avete detto che non fate niente di speciale... Io sono un po’ ignorante nelle vostre materie ma mi sembrano studi molto interessanti, qual è stato l’oggetto della tua tesi di laurea?», chiedo alla ragazza.
Lei sorride: «la presenza di acqua su altri pianeti o sistemi solari. Sai, se ci fosse acqua o qualcosa di simile, bèh, ci potrebbe anche essere qualche forma di vita...».
«E allora? C’è o no? Sentiamo l’opinione di un’esperta, una volta tanto!».
«Il mio studio veramente si ferma alla presenza di acqua. Però ti posso dire che forse qualcosa c’è...».
«Ma davvero? Sembra un argomento molto affascinante! E tu invece cosa studi?», mi giro verso il ragazzo.
«La mia tesi sarà sulle cellule del sistema nervoso».
«Ah, quelle maledette!».
Lui mi guarda divertito: «perché “maledette”?».
«Scusa, hai ragione. È che tempo fa stavo facendo delle ricerche sul funzionamento del cervello e mi sono dovuto fermare proprio alle cellule nervose. Purtroppo non sono molto portato per le materie scientifiche; sono troppo difficili da studiare senza nessuno che me le spieghi».
«E perché studiavi queste cose?».
«Mi ero messo in testa di trovare il collegamento fra il corpo e l’anima, così mi feci prestare il tomo di Gray dal mio ex padrone di casa che è un dottore ed iniziai a studiare un po’ di anatomia».
«E a che conclusioni sei arrivato?», mi chiede lui incuriosito.
«Ma guarda, in due-tre mesi ho imparato cose incredibili sul corpo umano; è davvero una macchina stupefacente ma tu lo saprai senz’altro meglio di me! Sarà che io non sapevo quasi nulla di anatomia ma più leggevo e più rimanevo esterrefatto nello scoprire come funzioni e quanto sia complesso».
Il ragazzo mi interrompe: «hai detto bene, io solo dopo alcuni anni che lo studiavo ho iniziato a capirlo bene; il corpo umano è un meccanismo complicatissimo!».
«E infatti quel collegamento mi sfuggiva, finché un giorno lessi sull’inserto scientifico del giornale indiano della domenica una lista dei dieci misteri che la scienza moderna non è stata ancora in grado di scoprire. Uno di questi è proprio il collegamento tra corpo e anima. Mi sembrava un argomento un po’ complicato...così mi misi a cercare un collegamento fra il corpo fisico e quello astrale, cioè il corpo yogico, dove si trovano l’energia Kundalini, i chakra, le nadi e tutti quegli elementi di energetica».
«Perché, scusa? Pensi che abbiano dei collegamenti?», mi chiede la ragazza.
«Certo ma dove? Devo ammettere che anche in questo caso non arrivai a nessuna conclusione, però imparai molte cose interessanti riguardo alle ossa, che sono un argomento abbastanza semplice, poi mi dedicai al sistema nervoso, partendo dalla spina dorsale e risalendo fino al cervello attraverso la medulla oblongata, il pons, il mesencefalo, fin dentro al diencefalo».
«Ma questo è proprio il percorso delle cellule del sistema nervoso!», esclama il ragazzo.
«Nonché dell’energia Kundalini che risiede nel chakra situato in fondo alla spina dorsale, sale attraverso la colonna vertebrale ed arriva al cervello».
«Per essere un autodidatta hai imparato molte cose!», esclama il ragazzo, mentre io rimango sorpreso di ricevere i complimenti sulle mie ricerche da uno che se ne intende.
«Sì ma ho dovuto mollare definitivamente quando sono arrivato alle cellule nervose, che per te saranno il pane quotidiano ma per me, come ti dicevo, sono un argomento troppo complicato».
«E scusa, quindi tu fai yoga? Hai un maestro?».
Qui andiamo sul personale, spero solo di riuscire ad esporre le mie teorie abbastanza chiaramente; loro hanno una certa cultura, quindi mi sembra giusto fare qualche sforzo: «né l’uno né l’altro. La mia pratica consiste nel leggere libri assurdi ed elucubrarci sopra; quando ho voglia di meditare vado nei luoghi dove vengono eseguite le cremazioni e ripeto mentalmente un mantra di Kali fissando il fuoco delle pire. A Benares, dove vivo, ci sono ben due ghat crematori ed uno è molto vicino a casa mia».
Non vorrei fare la figura del pazzo a parlare di ghat crematori indiani con dei bravi ragazzi milanesi ma per ora non mi sembrano scandalizzati.
Oltretutto mi piace davvero discutere di queste cose con persone abituate a studiare e a chiedersi i motivi di ogni cosa, infatti lei mi domanda molto interessata: «e perché mediti dove bruciano i cadaveri?».
«L’ho imparato leggendo di una setta di asceti che, in effetti, è considerata piuttosto estrema. Secondo loro, essendo la vita e la morte due facce della stessa medaglia, se conosciamo l’una conosciamo anche l’altra. Per conoscere la vita bisogna conoscere la morte e per fare questo i cimiteri ed i posti adibiti alle cremazioni sono i luoghi ideali.
Se non altro, una buona dose giornaliera di tristezza altrui, squallore e sporcizia funziona benissimo per metterci di fronte alla futilità ed alla transitorietà della vita che conduciamo».
«Su questo non c’è dubbio! È la prima volta che visitiamo un posto del genere e non è che metta proprio allegria...».
Mentre il ragazzo dice questo, lei lo interrompe: «però stavamo notando che non c’è un’atmosfera triste ma serena, pacifica».
«Senz’altro! Cosa c’è di più pacifico della morte?».
Mentre sghignazziamo sotto di noi stanno iniziando ad accendere la pira ed il fumo viene dritto nella nostra direzione.
D’istinto i due ragazzi si coprono la bocca e lui suggerisce: «scusate, ci spostiamo un po’? Non credo di essere pronto a venire investito da una zaffata di carne umana bruciata!».
«Aspettate un attimo. Sentite che buon odore ha questo primo fumo!», dico loro.
Entrambi mi guardano perplessi, così giustifico questa mia affermazione: «davvero, la carne non inizia a bruciare subito! Quella polvere marrone che prima hanno sparso sul cadavere e quei pezzetti di legno che stanno mettendo adesso sono di sandalo. Vi giuro che le prime zaffate hanno l’odore di un buon incenso».
Loro si guardano, allentano la presa del fazzoletto sul viso ed annusano titubanti.
La ragazza annuendo esclama sorpresa: «il profumo di sandalo si sente eccome!».
«Adesso però, ragazzi, dobbiamo spostarci per forza, perché quando Caronte mette quei fasci di erba secca sopra la pira si alza un fumo bianco densissimo».
«Perchè lo chiami Caronte il signore che si occupa delle cremazioni?».
«Un po’ per scherzo ma un po’ anche perché, come Caronte, ci aiuta a raggiungere l’aldilà: per gli indù la cremazione è l’ultimo stadio della nostra vita fisica prima di diventare definitivamente spiriti e quindi ci “traghetta” nel mondo dei morti».
Ci spostiamo sopravento, io mi siedo di nuovo sul muretto e loro rimangono in piedi in silenzio, a vedere le fiamme che si innalzano dalla pira.
Osservandoli penso che sono proprio due belle persone: il classico esempio di coppia affiatata, chissà da quant’è che stanno insieme.
Di sicuro sono di buona famiglia, si capisce non solo da come sono vestiti ma anche dai modi educati e gentili che hanno.
Dopo un po’ il ragazzo si avvicina: «scusa, il concetto che per conoscere la vita si debba conoscere la morte teoricamente non fa una grinza ma a livello pratico cosa vuol dire?».
«Semplice, perdere l’attaccamento per la vita che conduciamo. Che non vuol dire smettere di fare ciò che facciamo o fare le cose senza attenzione, bensì non attaccarsi ai risultati.»
«Ma questo è l’insegnamento della Bhagavadgita!», esclama la ragazza ed ammetto di essere sorpreso da questa sua pertinente osservazione.
«Esatto, anche se lì non si parla di cadaveri perché quello è un percorso ortodosso basato sulla purezza, non sulla sporcizia e sul terrore! In fondo, tutto deve morire: o muore ciò che otteniamo per mezzo delle nostre azioni o moriamo direttamente noi, quindi perché attaccarsi? Conoscendo la morte e la sua inesorabilità se ne perde la paura e quando non si ha paura di morire la vita si rivela lo splendido gioco di Dio che in realtà è!».
Sempre più interessata, la ragazza mi interrompe: «ma scusa, chi è che non ha paura della morte?».
«Chi non è attaccato al corpo, per esempio. Il corpo, per quanto meraviglioso, è effimero, lo spirito invece è eterno: per questo bisognerebbe curare di più lo spirito! Di certo non è una cosa che si possa realizzare dall’oggi al domani, bisogna modificare tantissime tendenze mentali e fisiche che sono profondamente radicate negli esseri umani. Se non mi prendete per necrofilo, vi racconto un esercizio mentale che faccio ogni tanto per allenarmi a questo fine».
Forse mi sto spingendo troppo con questo argomento ma questi due ragazzi capiscono tutto al volo.
Lui mi guarda sorridendo: «ti prendiamo per necrofilo ma un necrofilo simpatico; avanti, raccontaci il tuo esercizio!».
«È molto semplice; ogni tanto, soprattutto quando sono di buonumore, penso: “E adesso muori!”. Non che voglia suicidarmi ma mi può venire un colpo o cadere qualcosa in testa o potrei rimanere folgorato da una scarica elettrica, cosa che vivendo in India è anche più probabile di quanto possa sembrare...comunque mi immagino di morire, all’improvviso. Le prime volte ammetto che mi spaventavo tantissimo e non riuscivo a pensarci per più di qualche secondo. Poi, a poco a poco, imparai a sopportare meglio questa idea ed iniziai a pensarla anche delle persone che mi sono care. Sono convinto che così facendo sarò più pronto quando la cosa avverrà davvero. Come se una parte della sofferenza per la morte, propria e altrui, sia possibile pagarla “virtualmente” già prima che avvenga. Vi faccio un esempio molto semplice: voi avete un cane?».
La ragazza aggrotta le sopracciglia: «sì, ne abbiamo uno a casa nostra e poi c’è quello a casa dei suoi».
«Perfetto, quindi sapete a cosa mi riferisco. Ora, credo di non dirvi niente di particolare se affermo che li vedrete morti. Per paradosso, anzi, bisogna perfino augurarselo, visto che la durata della vita degli uomini è di gran lunga superiore a quella dei cani. Mio fratello ha un bellissimo pastore tedesco femmina ed un giorno, quando lei aveva circa otto-nove anni, lui mi disse che non riusciva a pensare a quanto avrebbe sofferto al momento della sua morte. Così gli suggerii: “incomincia a pensarci adesso, tanto non ci puoi fare niente, prima o poi morirà!” Lui, che vive in simbiosi con quell’animale, mi rispose: “ma come faccio a pensare che lei non ci sia più?”. Invece secondo me è bellissimo pensare che qualcuno sia morto quando in realtà non è così. Certo in quei momenti non si è proprio di ottimo umore ma non occorre pensarci continuamente a queste cose, solo ogni tanto, come quei vaccini che hanno bisogno del richiamo. In più, dopo questi pensieri, mi diverto troppo a festeggiare mandando un sms, una mail o anche solo un pensiero alla persona che avevo pensato morta; aiuta tantissimo ad apprezzare le relazioni che viviamo».
Dopo questo panegirico il ragazzo ha un’espressione quasi spaventata: «ma io avrei paura di “gufare”, a pensare che sia morto qualcuno che mi è caro!».
«Naturale! Ma personalmente non credo che l’inesorabilità della morte possa aumentare o diminuire in base ai nostri pensieri».
«Hai ragione, però a me fa paura lo stesso!» e guarda la ragazza con un’espressione timorosa.
«In effetti non sono argomenti bellissimi a cui pensare ma il fine è piuttosto elevato: uccidere la morte, almeno a livello psicologico. Sapete, gli aspiranti asceti, quando ricevono l’iniziazione, compiono dei rituali che rappresentano la loro morte, la morte del loro vecchio, falso e materialistico sé.
Io penso agli asceti hindu ma in realtà ogni rituale iniziatico, di qualunque religione o setta, raffigura fondamentalmente due cose: la morte e la rinascita dell’adepto. Gli Aghori, gli asceti hindu più radicali, consigliano sempre di considerarsi già morti; in pratica considerano tutto già morto al momento della nascita, in quanto i semi della distruzione sono collocati nell’istante stesso della creazione e crescono a velocità stabilita, fino alla morte. Possiamo chiamarlo traiettoria o ciclo atomico ma in ogni caso qualunque cosa prima o poi morirà. Una loro massima è: “morire mentre si è ancora vivi”».
«Cioè rinunciare ai propri desideri?».
«Esatto. Che poi tra l’altro è proprio ciò che cerca di insegnarci la dea Kali, la divinità preferita dagli Aghori, con il suo aspetto violento e sanguinario. Lei in realtà ci garantirebbe la vita eterna, sebbene questa abbia un prezzo elevato. Kali sembra spaventosa e distruttiva ma non è noi che vuole uccidere e divorare, bensì il nostro ego, il nostro falso sé. Tanto tutti dobbiamo morire, tutti perderemo i nostri attaccamenti, compresi quelli del corpo e della mente. Il nostro desiderare non ci ha mai portato a possedere per sempre gli oggetti dei nostri desideri ma a soffrire e a sentirci frustrati perché sappiamo che prima o poi li perderemo. Quindi, la fine della nostra natura mortale è inevitabile: se siamo forzati a questa involontariamente, cadiamo nel ciclo infinito di morte e rinascita, nel vano tentativo di soddisfare i nostri desideri inappagati; se invece lo facciamo volontariamente, grazie a Kali, guadagniamo l’immortalità».
«Non avevo proprio idea che potesse avere questi significati!», esclama la ragazza, «di sicuro le immagini di Kali incutono un certo timore, sembrano rappresentazioni del divino alquanto violente. Tu la conosci bene Kali?».
Magari conoscessi Kali...«come vorrei poterti rispondere di sì! Se la conoscessi bene, non sarei qui seduto come uno stupido in un campo crematorio a cercare di capire qualcosa della vita! Però è senza dubbio la mia divinità preferita, quindi qualcosa di Lei so».
«Sai per caso cosa rappresenta il fatto che abbia sempre la lingua penzolante?».
Adoro rispondere a queste domande sulla mia Mamma spirituale: «mah, esistono parecchie interpretazioni di questa sua caratteristica. Allora, fatemi pensare...nel significato più arcaico senza dubbio simboleggia la sua fame di sangue, come anche il suo corpo emaciato. Kali è affamata e tende la lingua di fuori per soddisfare il suo appetito insaziabile».
«Cioè ha solo fame?», mi chiede il ragazzo poco convinto.
«Sì. Sembrerebbe un po’ una sciocchezza questa teoria ma va collegata al fatto che Lei rappresenta il Tempo che tutto consuma e divora. Una seconda spiegazione è che sia in imbarazzo perché ha posato i piedi sul corpo di suo marito Shiva. Questo si rifà ad una bellissima interpretazione mitologica della rappresentazione classica di Kali: lei in posizione eretta con un piede sul corpo sdraiato di Lui. Dopo aver sconfitto un’armata di demoni, Kali, nel suo aspetto più selvaggio e completamente ubriaca di sangue, incomincia a divorare tutto quello che le si para davanti. Le altre divinità sono spaventatissime e non osano intervenire, così Shiva si sdraia sul Suo cammino fingendo di dormire. Lei, per quanto inebriata e fuori di sé, appena poggia il piede su Suo marito rinsavisce e smette di distruggere tutto. Quando si accorge di cosa stava facendo è in imbarazzo, per questo si morde la lingua. Invece secondo il tantra, che è una filosofia molto poco ortodossa, un’altra interpretazione possibile è che la lingua penzolante sia dovuta al fatto che Lei sia eccitata sessualmente. Sempre riguardo l’episodio mitologico di prima, quando Lei poggia il piede sul corpo di Shiva, Lui ha un’erezione, La penetra e Lei tira fuori la lingua in estasi sessuale. Personalmente conosco un pochino di filosofia tantrica e per me questa è una forzatura. Sono convinto sia un’idea messa in giro per screditare il tantra, perché non ha nessun fondamento. È vero che in qualche rara immagine Shiva, sdraiato sotto di Lei, ha un’erezione e qualche volta Kali è sdraiata su di Lui e stanno facendo sesso, però Lei la lingua fuori ce l’ha sempre, anche quando è rappresentata da sola nei campi crematori: come fa a essere eccitata sessualmente in quei casi?».
Mi interrompo un attimo per aspettare la loro reazione: annuiscono ed io proseguo: «nell’ultima interpretazione che mi viene in mente, la lingua penzolante simboleggia l’atto di assaggiare e godere di ciò che la società considera proibito, sporco, inquinato. Questo fa parte del suo carattere e delle sue abitudini che senza dubbio hanno lo scopo di scioccarci, di repellerci. Proprio questo è il suo insegnamento: quello che noi consideriamo disgustoso, lurido, orribile si basa solo sulle nostre percezioni umane che sono in realtà ordinate e regolate dal nostro ego, dalle nostre idee personali di che cosa sia bello e cosa sia brutto. Kali, in maniera decisamente rude, ci aiuta a distruggere queste percezioni, invitando i suoi devoti ad assaggiare anche ciò che può sembrare disgustoso, in modo da percepire l’unità e la sacralità del Tutto che Lei stessa rappresenta. Da qui le pratiche che possono essere considerate estreme: per esempio, se Dio è in Tutto e Tutto è Dio, non ci dovrebbe essere nessuna differenza fra l’annusare la pasta di sandalo o una cacca...».
«Addirittura?», esclama la ragazza quasi disgustata, poi prosegue: «lasciando perdere la cacca, qual è alla fine l’interpretazione giusta della lingua di Kali?».
«Tutte! Ognuna insegna qualcosa, scegliete quella che vi piace di più. Questo è il bello della filosofia tantrica di cui Kali è sicuramente la divinità più venerata: ognuno è libero di interpretare tutto come gli pare, l’importante è trarre sempre un insegnamento da qualunque cosa».
«E tu allora? Quale versione preferisci?».
«La quinta...» e li guardo di sottecchi.
«Ma non erano quattro?», mi chiede lei.
«Brava! Ma quattro sono quelle che ho letto sui libri, la quinta è la mia personale. Non lo dico perché sia fiero di me stesso (se lo pensassi sarei davvero finito…) ma perché Le voglio molto bene e Lei mi ripaga insegnandomi delle cose meravigliose: in fondo la lezione che devo imparare è la mia, non quella di qualcun’altro. Le idee degli altri possono essere utilissime ma se non ci convincono, perché non crearcene di nostre?
Tra l’altro la mia teoria è molto semplice: pensate un attimo al motivo più semplice per cui si tira fuori la lingua».
Il ragazzo guarda la ragazza, le sorride e le fa una bella linguaccia. Lei fa finta di offendersi, si gira verso di me e dice: «per prenderci in giro?».
«Esatto! Bravi! Kali si prende gioco di noi! E prende in giro le nostre paure, le nostre preoccupazioni, i nostri attaccamenti. Ogni tanto, quando sono a casa mia a Benares e sono frustrato per qualche sciocchezza quotidiana, d’istinto mi rivolgo a Lei. A dire il vero lo faccio in maniera abbastanza maleducata, più o meno su questo tono: “perché Mamma mi fai arrabbiare per queste piccole cose?”. Poi guardo una Sua immagine appesa al muro e Lei è lì che mi fa le linguacce! Mi fa sentire davvero un deficiente e la mia rabbia sparisce all’istante… poi non so se l’avete notata ma un’altra caratteristica del suo viso è che sorride sempre».
Il ragazzo mi interrompe: «aspetta, oggi ho comprato delle cartoline devozionali e credo di averne presa anche una di Kali».
Si rivolge alla ragazza che, nel frattempo, sta già frugando nella sua borsetta e tira fuori una busta con dentro un bel pacchetto di cartoline. Me le porge e la terza che trovo è quella di Kali.
«Eccola qui. Peraltro, cartolina splendida! Non avevo mai visto questo stile: moderno ma senza quel tocco kitsch che ogni tanto è disgustoso. Vedete, tutte queste immagini sono prese dai tantra, che sono stati scritti più o meno fra il 500 e il 1500 e sui quali è basata l’omonima filosofia. Oltre a descrivere rituali e pratiche a dir poco sconcertanti, questi manuali spesso si dilungano in dettagliatissime descrizioni ‘fisiche’ delle divinità che vengono chiamate Dhyani Mantra. Sebbene al giorno d’oggi il tantra abbia una brutta fama perché in alcuni rituali si fa uso di sostanze inebrianti, alcool e sesso, pare che le raffigurazioni delle varie divinità, sia nei templi che sulle cartoline, seguano fedelmente questi Dhyani Mantra. Io ne conosco tre su Kali e tutti dicono che Lei sorride. In particolare ce ne sono due che mi fanno impazzire: dopo averLa descritta per dieci righe e più come una creatura sanguinaria, armata, semi-nuda, con una gonna di braccia umane tagliate e una collana di teste mozzate, terminano dicendo: “She smiles”. Ma come: “She smiles”? A quel punto uno si aspetterebbe un’espressione seria, arrabbiata, consona all’atteggiamento che il resto della figura esprime. Invece guardate questa immagine. Sta chiaramente sorridendo: per questo secondo me si fa beffe di noi. Lì per lì sembra che voglia spaventarci ma se La guardiamo bene in realtà ci rassicura!».
Mentre restituisco le cartoline alla ragazza sentiamo gridare sotto di noi; ci affacciamo e vediamo una donna che si sta letteralmente disperando; sembrerebbe che il giovane in procinto di essere cremato sia suo figlio.
Povera donna, com’è disperata! Ora si è gettata sul cadavere e lo sta scrollando come se volesse risvegliarlo; per fortuna ci sono molti parenti uomini che cercano di calmarla.
Poco lontano vediamo avvicinarsi uno strano baba: ha capelli e barba corti e bianchi, una lunga tunica nera ed una grande borsa a tracolla. Che è un santone lo si capisce dalle collane che porta ed è anche uno di quelli un po’ estremi visto che appese al collo ha un paio d’ossa che dovrebbero essere umane...
Cammina con passo deciso guardando in terra ma quando arriva sotto alla terrazza si deve fermare perché, con un funerale in corso e due che stanno inziando, inizia ad esserci un bel po’ di gente.
La signora che si disperava è accasciata per terra di fianco al cadavere di suo figlio e quando vede passare il baba gli si butta ai piedi come per chiedere aiuto.
Lui sembra ritornare alla realtà, si guarda attorno, aggrotta le sopracciglia e si china per liberarsi gentilmente dalla presa della signora.
Quindi si dirige verso il cadavere, si inginocchia, giunge le mani e chiude gli occhi per qualche secondo.
Li riapre, allunga la mano sinistra sopra il cadavere e gli accarezza la fronte in maniera molto tenera, poi si alza e se ne va.
La signora nel frattempo ha smesso di urlare e, con calma, sta parlando al corpo del ragazzo.
All’improvviso ricomincia a sbraitare ma questa volta sembrerebbe di gioia: è impazzita del tutto?
Invece cazzo, non ci posso credere, il cadavere ha riaperto gli occhi!
Si è tirato su ed ora parla con i parenti!
Noi tre ci fissiamo con gli occhi sgranati, poi mi guardo in giro per vedere dov’è andato il baba ma ormai è sparito.
«Porca miseria ragazzi, avete notato da che parte è andato il baba?»
Loro rispondono all’unisono: «no, perché?».
«Come perché? Ragazzi, credo ci sia appena passato davanti un semi-Dio e noi non ce ne siamo accorti!».
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