martedì 30 luglio 2019

Economia ed ecologia - Libertà dalla schiavitù del denaro

"Il primo passo da compiere, se si vuole liberare la società dal cappio del ricatto bancario e finanziario che impedisce un normale fluire dell'esistenza, è la rivalutazione del denaro in quanto mezzo di scambio per beni e lavoro e non in quanto "bene in sé"..." (Saul Arpino)


Sovranità e libertà. Sì al signoraggio di popolo, no al signoraggio delle banche

Il denaro non è altro che un simbolo della capacità di un popolo di poter operare e attraverso la propria opera di poter disporre e scambiare quanto gli è necessario per la sopravvivenza ed il benessere.

Una società libera emette liberamente questo mezzo di scambio, garantito dalla forza lavoro e dalle ricchezze accumulate al suo interno, che esse siano naturali, culturali o di altro genere. Questo diritto all'emissione monetaria viene assicurato dalla "signoria" popolare su quanto posseduto e sulla capacità della comunità stessa di esprimere forza lavoro e creatività. Questa signoria, in termini tecnici e monetari si definisce "signoraggio".

Attualmente il denaro prodotto dalle banche centrali (private) non è che un "buono" cartaceo, sorto dal nulla e privo di controvalore, e dato in prestito agli stati. Questo denaro produce perciò un "debito". E tutto ciò avviene in conseguenza del "signoraggio bancario", ovvero l'alienazione di quel "signoraggio" originale della comunità ceduto alle banche centrali.

MA COSA È IL SIGNORAGGIO BANCARIO?

Rispondo in poche parole. E’ la più grande truffa mai inventata. E’ la rinuncia alla sovranità dello stato di emettere i propri valori di scambio delegando l’operazione ad una banca privata, (come è la Banca d’Italia o la BCE), e pagando a detta banca congrui interessi.

La carta moneta emessa dalla banca centrale - la BCE nella Comunità Europea- e messa in circolazione nei vari stati viene pagata dallo stato che la riceve attraverso l’emissione di buoni del tesoro ed altri titoli, posti in vendita presso le banche commerciali, e per cui lo stato paga un ulteriore interesse.

Questo processo perverso è alla radice della formazione del cosiddetto “debito pubblico” che non è altro che l’indebitarsi da parte dello stato, ovvero del popolo, nei confronti di un privato, che è la banca.

Allora potreste chiedermi: “Perché lo stato si assoggetta a questo salasso, perché non recupera la sua sovranità monetaria?” Ed io vi rispondo: Perché il processo di commistione e di sudditanza è andato troppo avanti in questo sistema, dominato dal controllo finanziario di enti privati internazionali.

Allorché la politica non sarà più dedita alla corruzione e potrà recuperare la sua funzione primaria, che è quella di servire gli interessi del popolo e non dei potentati finanziari, che sono la causa prima della corruzione, avrà riconquistato la sua indipendenza ed autonomia operativa.

Per quel che riguarda la falsità dell’informazione sulla realtà del signoraggio bancario e la volontà di mantenere il popolo in ignoranza totale su questa triste verità, vale la stessa risposta, ovvero chi detiene il potere finanziario, e di conseguenza quello economico ed amministrativo, è in grado di controllare l’informazione in tutte le sue forme ed è quindi capace di far credere al popolo qualsiasi menzogna, pur di mantenere il potere acquisito.

Spiace dirlo ma in Italia e nel mondo non esiste alcuna libertà e verità d’informazione, se non quella “falsata ed ipocrita” ammannitaci dal potere finanziario mondiale.

Però infine la legge karmica universale (causa effetto) prevarrà sulla menzogna e coloro che l’hanno sparsa saranno costretti a “raccogliere la propria immondizia”. E ciò avverrà quando nella società umana trionferà la consapevolezza di un mondo comune a tutti, concreto e collettivo, di cui tutti siamo compartecipi, in cui le forze e le cose manifeste corrispondono all’insieme del vivente e del non vivente, in cui lo star bene della mano non comporta un danneggiamento del piede, che è l’attuale meccanismo causato dall’ignoranza dell’inscindibilità della vita.

Il senso della comune appartenenza deve affermarsi nella società, coincidendo col bene personale, ed a qual punto sarà chiaro che non possono più risaltare (nelle scelte sociali e di governo) interessi rivolti a soddisfare una parte a scapito dell’altra. Questo mondo presente di attrazioni e repulsioni, di scale di valori, di motivi personalistici e di incentivi egoici, insomma il mondo della competizione, lascerà quindi il posto al mondo della collettività, sia dal punto di vista biologico che del pensiero.

Paolo D'Arpini 


lunedì 29 luglio 2019

Ecologia casalinga - Diminuzione dell'uso della carta e suo riciclaggio possibile


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Vorrei raccontarvi come a titolo personale io abbia risolto il problema del riciclaggio cartaceo. 

L'amica Antonella Pedicelli tempo addietro mi inviò un articolo (http://altracalcata-altromondo.blogspot.it/2009/07/papiri-libri-e-giornali-tovaglioli-e.html) sul tema della "carta igienica".  In verità mi ero già occupato di questo argomento, allorché le raccontai di come risolvo il problema della "igiene". In primis quando sono all'aperto  utilizzo alcune foglie secche (ma morbide) presenti sul terreno e successivamente un po' d'acqua per risciacquare la parte (come si usa in tutto l'Oriente ed in tutta  l'Africa). 

Se invece sono in casa, ho l'abitudine di conservare i fazzoletti di carta già usati (almeno per 10 volte) e poi infine utilizzati per quello scopo... oppure conservo i tovaglioli del bar quando vado a far colazione o di qualche pizzeria se vado a mangiare una pizza e li uso poi sempre allo scopo. In tal modo ho limitato grandemente l'uso di carta igienica. 


Per quanto riguarda invece il riutilizzo della carta di giornale, che ancora raramente acquisto, non c'è problema... vanno benissimo per accendere il fuoco o per incartare qualcosa. 

Per i libri, che a volte mi regalano, se dopo averli letti non ritengo utile conservarli, li passo a mia volta a chi ritengo possano piacere oppure li do a qualche biblioteca od al giro dei libri che vengono abbandonati nei luoghi pubblici per la lettura dei passanti.

Resta solo la carta inutile delle confezioni alimentari acquistate in negozio o simili, in quel caso se si tratta di bustine di carta riusabili (quelle del pane o simili) le conservo per il riuso, se si tratta di cartoni e scatole, che non posso proprio riutilizzare brucio tutto infine nel camino o nella stufa. 


Ovviamente faccio del mio meglio per evitare prodotti con molto imballaggio... prevenendo a monte il problema.


Paolo D'Arpini





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Commento di A.D.:

Io riesco a limitare usando la stufa in inverno e riciclando a volte i tovaglioli ma gli imballaggi sono qualcosa di imbarazzante, butto tutto nella differenziata ma mi spaventa la mole di plastica e carta degli involucri di qualsiasi prodotto! Anche se vado a comprare un etto di formaggio oppure un tubetto di dentifricio c'è una montagna di imballaggio, per quanto riguarda la plastica, fornisco le bottiglie vuote ad un piccolo imprenditore che vende prodotti ecologici sfusi (e comprando da lui sto usando da mesi le stesse bottiglie per shampoo, detersivi, ecc.)... ma l'ideale sarebbe convincere anche i piccoli negozi a vendere alimentari e prodotti sfusi, legumi, pasta, cereali...”

Lorenzo Merlo: "Da Milano alla Mongolia. Un Land Rover Defender, 30.000 chilometri e 104 giorni e con mia figlia Jandira"




La scintilla non è stata mia. “Papà andiamo in Mongolia?” Le parole di Jandira, mia figlia 24enne, non mi avevano fatto immaginare la bellezza della Mongolia, né tutte quelle in mezzo. Sono andate invece subito a mostrarmi l’esclusiva di poter stare con lei – da anni giramondo –finalmente tutto il tempo che volevo. Quante cose si sarebbero aggiustate, quante si sarebbero rinforzate, quanto saremmo stati complici. Era lei invece che dal selvaggio della Mongolia sentiva il richiamo. Cavalli nel vento e nelle praterie, donne e uomini forti, bimbi senza nulla e magnifici per i quali aveva voluto fare una lista di regali.

Pur sapendo che la stagione scelta non era la più favorevole, in particolare per il tracciato che volevamo seguire, il 5 aprile 2019 lasciavamo Milano. Avevamo davanti circa 30.000 chilometri che ci avrebbero richiesto più di tre mesi e meno di quattro secondo le stime a tavolino. Ma nessuno dei due ne pareva consapevole. Ognuno aveva la sua bellezza da inseguire.

Ma cominciammo con una memoria dedicando una visita alla Risiera di San Sabba e alle foibe. Poi, tutti i balkani rimasero coperti da una perturbazione che ci lasciò pochi momenti asciutti. La costa dalmata sotto gli scrosci dei temporali; le piramidi di Visoko, a nord –ovest di Sarajevo, dal sentiero così fangoso e ripido da non riuscire ad arrivare in vetta; l’albergo diffuso di Mokra Gora, quello di Kusturica, in Serbia, inno alla contestazione consumistica – una specie di Campell’s Soup Cans di Andy Warhol 50 anni dopo, ormai destinazione di pullman e gite scolastiche, ma anche celebrazione di un mondo fatto solo di cinema e del suo popolo divistico.

In poco tempo aveva imparato a sfruttare tutti i segni delle carte e perciò ad essere un ottimo navigatore.

Questioni di tempi dei visti spingono il pedale del gas. Saltiamo così la Macedonia, una delle perle balkaniche e percorriamo la nota Valle delle Rose in Bulgaria. Ma è poco oltre, nella regione Haskovo, che tocchiamo la povertà e la segregazione di un popolo apparentemente abbandonato a se stesso.

Io le dicevo quello che sapevo sulle regioni davanti a noi e lei selezionava i luoghi da visitare.

Poi la Turchia, quel punto dal quale le voci dei muezzin sostituiranno le campane fino ad orizzonti sempre più lontani. L’acqua continua a non lasciarci in pace. Nonostante le diverse varianti che avevamo pensato prima di raggiungere la Georgia, le perturbazioni si succedono a ritmo serrato. Tanto vale stare sulla linea più semplice. Seguiamo così la costa del Mar Nero. Le zone balneari del suo tratto orientale si diradano nell’ombrosa e povera parte centrale, per poi riprendere respiro nella provincia di Trabzon.

Impiegò poco anche per aggiornare la concezione del viaggio e il criterio per guidarlo. Non più prendere e partire, come faceva viaggiando in aereo, né andiamo di qui e andiamo di là. Aveva messo al centro i due protagonisti veri: le ore di luce della giornata e le condizioni della strada.

Nel buio della sera, a pochi chilometri dall’ingresso in Georgia, cerchiamo un albergo a Akhaltsikhe, un sopruso della polizia, che inventa un’infrazione, è il benvenuto che ci è toccato. Ne seguirà un altro a Tbilisi, altrettanto vergognoso, ma non sufficiente a farci dimenticare un popolo serenamente orgoglioso di se stesso, quasi abitante di un’isola lontana da tutte le altre terre. Incapace di sapere le ragioni delle sue guerre con l’Abkazia e L’Ossezia del Sud. Solo preoccupato del nostro transito in Azerbaijan, dove, ci ripetono, “non troveremo persone come loro”.

Dalla letteratura che aveva studiato in fase organizzativa, aveva segnato sulle carte monumenti, nature, musei, villaggi e città.

Prima di andare a verificare come fossero le persone azere, quasi al confine con l’Ossezia Settentrionale, a Stepantsminda nel gelo di una bufera caucasica, avevamo visitato l’emozionante chiesa della Trinità di Gergeti. Ma, assorbiti dalla dolcezza delle oceaniche onde collinose dell’Azerbaijan, era ormai un fatto lontano. Se la natura ci parlava di bellezza, nelle città, e a Baku in particolare, era evidente che il paese, come altri incontrati lungo la linea del nostro viaggio, si era chiaramente votato all’abbraccio del liberismo e del consumismo. Quella azera è forse una delle culture musulmane che più si sono allontanate dal principio puro della sharia, ovvero di una società regolamentata dai precetti religiosi.

La sera, bivaccando in natura, sulla terra stepposa, o sul pavimento di qualche stanza di locanda apriva la carta e tracciava il percorso della giornata.

Il Turkmenistan, al di là del mare, è più lontano delle miglia d’acqua che separano Baku da Turkmenbashi. Molte ore in banchina attendono chi ha scelto la via del mare invece che il passaggio via terra dall’Iran. E molte ore anche dopo l’imbarco prima di salpare. E altre ancora una volta a destinazione, per la burocrazia scatenata e shackerata con la peggior comunicazione.
E poi Ashgabat, dove il bianco, il verde e l’oro sono i soli colori ammessi. Ma ancor più, dove anche se ci vai di persona fatichi a credere ai tuoi occhi. Una specie di The Truman Show aleggia tra le emozioni che senza soluzione di continuità attraversano l’animo di chi non aveva mai visto la capitale del Paese.

In viaggio compilava un excell con molte colonne, computo di molti aspetti delle tappe.

L’obbligo di scelta della via da seguire, imposto dalle autorità turkmene, ci portava nel nord del paese per entrare in Uzbekistan poco a sud della latitudine di Nukus. Lungo la strada rispettammo la deviazione d’obbligo per affacciarci alla bocca della voragine sempre in fiamme di Darvaza, turisticamente, o meglio, volgarmente detta Porta dell’Inferno. Kiwa, Samarkanda erano sulla strada. Ma insieme a loro e alle loro storie in forma di mosaici e muqarnas, si vede tutto lo sbrago al turismo occidentale che evidentemente è stato scelto dal governo locale. Sebbene sulla storica Via della Seta, non se ne vede degna celebrazione.
Arrivare alla mitica Samarcanda è ormai un fatto scontato e sfregiato dal consumismo turistico.

Nelle soste e nelle visite la vedevo fotografare e filmare. Era bella la sua autonomia: in buona misura io guardavo e riprendevo altro e non di rado la copiavo.

Partimmo da Dushambe per andare a percorrere la Pamir Highway, la seconda strada più elevata del mondo, superata solo dalla Karakorum Highway. Nonostante le pioggie e il disgelo scegliamo di seguire la via con meno garanzie di successo, quella che corrisponde ad una parte della famosa M41. La Pamir Highway permette più varianti di pari o superiore soddisfazione. Noi scegliemmo quella che segue il Panj, il corso d’acqua che separa il Tajikistan dall’Afghanistan, prima di diventare l’Amu Darya, un tempo chiamato Oxus, limes naturale oltre il quale nei secoli passati c’era l’immenso turkestan, una terra ignota a tutta la civiltà occidentale. E misteriosa. In corrispondenza della quale, sulle mappe dell’epoca si leggeva, hic sunt dracones. Ma più dei paesaggi che ammalierebbero chiunque, è stato il popolo tajiko che senza sforzo ci è entrato nel cuore. Avevamo la sensazione fossero fortemente in equilibrio, al punto da esprimere serenità indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla condizione sociale.

Nei pochi momenti vuoti, nei luoghi con il wifi proseguiva ad arricchire il profilo instagram che aveva creato: riding.to.mongolia. Fotografie e didascalie piene di sensibilità e amore modulato a favore di chi le avrebbe viste e lette.


Le dure piste della Pamir Highway scomparvero al passaggio in Kirgizistan. Cavalli di razza novo kirghisa, possenti e contemporaneamente leggiadri e pascoli collinari dal sottofondo paradisiaco ne presero il posto. Il piccolo stan è stata una delle inattese perle del viaggio.

Nei mercati facevamo la spesa alimentare per rimpolpare la piccola cambusa della macchina. Nonostante l’attrazione verso le bancarelle di abiti, oggetti, bracciali e collane – a 24 anni assai più magnetica di quanto non fosse per me sapeva rinunciare ai luccichii, sapeva preservare la macchina come fosse lei a sapere per prima che più materiale trasportavamo, più si sarebbe ridotta la frugale comodità, più ne avremmo ridotta la funzionalità.

Abbiamo percorso la parte meridionale dell’oriente kazakho dentro la bolla dell’armonia kirghiza. Canyon, laghi, vallate e spazi illimitati, sebbene non più così verdi e dolci, sono il territorio fino ad Almaty. Lasciando il capoluogo, l’incanto non poteva che frangersi. Seguirono centinaia di chilometri uniformi, nuovamente duri e senza variazioni, né per lo spirito, né per gli occhi.

Seguiva e si interessava alle riparazioni della macchina. Non era una generica curiosità. In quelle settimane aveva conosciuto il furgone Uaz. Un rustico mezzo adatto a terreni naturali. E pensava già di acquistarne uno, trasformarlo e riprendere a girare per il mondo. Quindi conoscere le componenti e le problematiche di una macchina era un sapere che acquisiva con serietà.

Anche se la Mongolia era a un passo, qualche giornata di Russia era obbligatoria. Nessun punto di contatto infatti con il Kazakhstan, obbliga un transito siberiano prima della meta. I circa quindici giorni da dedicare alla terra di Gengis Khan lo sappiamo sono pochi. Non riusciremo infatti a visitare le montagne dell’occidentale regione di Olgij né le meraviglie del settentrionale lago Khovsgol. Passammo in centro nelle verdi regioni del Khangai, reame di fiori, foreste, cavalli e placidi fiumi. Poi a sud nel deserto e tra le dune. Infine a Ulan Batar. La rada densità della popolazione impressiona sulla carta: cinque volte la superficie italiana per tre milioni di persone, di cui la metà nella capitale. Ma è un dato senza emozione carnale finché dopo ore di pista, davanti a orizzonti altrettanto lontani trovi una gher – come si chiamano le iurte là – un bimbo che gioca e forse una moto. E se sulla carta un popolo di cultura buddhista – peraltro devoto, a giudicare dalla loro frequentazione dei monasteri che abbiamo visitato – ci aveva indotto alla curiosità di vedere in quale modalità quella cultura si esprimeva nel quotidiano, sul campo siamo rimasti sorpresi dal nostro apparentemente neutro pregiudizio. A parte buona parte dei russi, sono stati proprio i mongoli i più indifferenti e disinteressati alla relazione con noi.

La prima a memorizzare i nomi dei luoghi e dei nuovi idiomi era Jandira. Un particolare di un certo valore per gestire le relazioni a volte anonime con le persone locali. Non è stato un caso che lei abbia risolto più di un impasse con albergatori o ristoratori. Capaci di promettere servizi ma meno di mantenere e di prendersi la responsabilità.

Della Siberia tutti sanno. Sanno che i gulag erano là; che fa freddo; che è terra poco popolata. Ma nessuno sa che chiunque sia catapultato in Siberia non potrà che terminare il resto della vita, in quel punto di atterraggio. Centinaia, migliaia di chilometri di fitta foresta non permettono di scappare a nessuno. Sconfinato, impraticabile territorio selvaggio. E quando le foreste di conifere hanno termine, il copione si ripete con altrettanto smisurati acquitrini ornati dai bianchi tronchi di betulla. Non c’è mezzo che possa muoversi in quel terreno. Ma non così lungo il tracciato della transiberiana. Tutto un popolo in perenne movimento vi vive sopra e ai margini terrosi, polverosi, fangosi. È il grande popolo dei camionisti. Alberghi, ristoranti, market, gommisti, meccanici li attendono in piazzole che in futuro saranno autogrill raffinati e forniti come già è nella parte occidentale della Russia, in Ucraina, Polonia ed Europa tutta. La lunga strada crea una trincea tra gli alberi. Guardare avanti è la sola ed unica possibilità.
Ad occidente passammo a visitare la sponda occidentale del fiume Don e Nikolaevska, oggi, assorbita da Livenka. Fu là che decine di migliaia di uomini italiani, mal attrezzati, furono mandati durante la Seconda Guerra Mondiale. Fu da là che sotto il fuoco e l’inverno russo dovettero ritirarsi. Fu là che perirono, per il freddo o per mano del fuoco nemico, circa 80.000 persone. Nostri concittadini inspiegabilmente troppo dimenticati.

Jandira premeva per tornare. Il viaggio, lo aveva constatato, è una macina che non risparmia nessuno. Tuttavia condivise di fermarsi il tempo necessario per visitare alcuni luoghi, parlare con le persone, posare un fiore.


Nonostante sia a suo modo offensivo, anche a noi toccava la nostra ritirata di Russia. Proprio da Livenka. Rumori sinistri arrivavano dalla ruota anteriore. Poi un movimento come se il defender avesse scartato qualcosa di sua iniziativa e contemporaneamente i freni che andarono a vuoto. Seguirono chilometri a passo d’uomo prima di trovare la fortuna di un artigiano capace di rimuovere il giunto spezzato e di saldare i pezzi “almeno fino a Charkiv, in Ucraina” – disse – “circa duecento chilometri più avanti, dove troverai i ricambi”. Non li trovammo né lì, né a Kiev. E a sessanta all’ora, dopo aver attraversato la Polonia meridionale, senza mancare Aushwitz e Birkenau, la repubblica Ceca, un po’ di Germania e l’Austria occidentale, abbiamo concluso MilMon il 16 luglio 2019 nuovamente a Milano.

La mattina dell’ultimo giorno Jandira posizionò il telefono per un autoscatto nella piazzola di un piccolo borgo in Germania dove passammo l’ultima notte, la centotreesima. Era il 12 luglio 2019. Sapevamo che avevamo fatto qualcosa di meraviglioso. Sapevo che molto si era aggiustato con lei. Ed ancora più meraviglioso.


Testo e foto di  Lorenzo Merlo - 23.07.19





Articolo collegato: http://www.milanomeravigliosa.it/lorenzo-merlo-milanese-giramondo-qui-sono-a-casa-mia-ma-da-lontano-la-mia-citta-sembra-molto-provinciale/

domenica 28 luglio 2019

Bioregionalismo, ecologia profonda e spiritualità naturale


La trinità della nuova filosofia della natura




Secondo me non vale la pena di risalire all’inventore del termine “bioregionalismo” poiché, come in effetti è per l’ecologia e per la spiritualità, è qualcosa che è sempre esistita, in quanto espressione della vita, perciò nelle diverse epoche storiche questi processi hanno ricevuto nomi diversi: panteismo, genius loci, animismo, etc. Ed in ogni caso questi tre modi descrittivi sono indivisibili l’uno dall’altro, come è indivisibile l’esistenza. Diceva un grande saggio: “Noi non possiamo essere altro che una parte integrante della manifestazione totale e del totale funzionamento ed in nessuna maniera possiamo esserne separati” (Nisargadatta Maharaj).

Ed ora alcune espressioni al vento:

“E’ buona norma, nell’approccio bioregionale, prima di tutto tentare di conoscere l’ambito in cui si vive, delimitandolo attraverso lo studio geomorfologico del territorio, della flora e della fauna. La bioregione è un’area omogenea definita dall’interconnessione dei sistemi naturali e dai viventi che le abitano. Una bioregione è un insieme di relazioni in cui gli umani sono chiamati a vivere e agire come parte della più ampia comunità naturale che ne definisce la vita”

“L’idea bioregionale consiste essenzialmente nel riprendere il proprio ruolo all’interno della più ampia comunità di viventi e nell’agire come parte e non a parte di essa, correggendo i comportamenti indotti dall’affermarsi di un sistema economico e politico globale, che si è posto al di fuori delle leggi della natura e sta devastando, ad un tempo, la natura stessa e l’essere umano”

“La limitazione e separazione nella coscienza non è reale, allo stesso modo in cui la luce del sole non risulta compromessa o menomata dallo specchio, parimenti la pura consapevolezza è intonsa e non divisa dall’operato immaginario della mente individuale. Dove sono interno ed esterno per la coscienza suprema che entrambi li compenetra e li supera? In realtà la sola idea di una tale separazione è impensabile nella sorgente di luce che unicamente è...”

“…la necessità di “ridurre e dare delle spiegazioni” sta proprio nel distacco che la lo spirito intelligente ha nel momento del concepimento una parte del tutto si contestualizza un un modulo storico. La singola parte ancestralmente sa di appartenere al tutto e quindi nelle condizioni ristrette dello spazio tempo tende in continuazione (ascesi) a ricongiungersi con lo spirito intelligente infinito di cui fa parte e cui inevitabilmente tende..”

“Che cosa sarebbe la vita senza memoria?… Mi sono posta questa domanda osservando alcune persone ammalate di Altzeimer. Questi esseri, che pure hanno vissuto una intensa vita, di lavoro, di relazioni, di affetti, oggi per qualche strano meccanismo, sono “uscite” dalla realtà con cui non condividono più nulla…. Chi erano prima?…dove e come hanno vissuto? … appartenevano ad una cultura, ad un territorio, avevano un carattere, delle abitudini, celebravano dei riti, rispettavano delle tradizioni, parlavano una lingua o più d’una!…tutto questo è cancellato nella loro memoria…. Essi non ricordano più nulla… sono semplicemente dei corpi ancora in vita che vivono senza relazioni: respirano, mangiano, osservano ciò che gli sta’ intorno…..ma non sono collegati a niente… le relazioni originano identità…”

“L’attuazione bioregionale in chiave politica. Il Bioregionalismo ha due obiettivi: recuperare e tutelare al massimo l’ambiente naturale; ridisegnare nuovi confini delle regioni, tenendo finalmente conto delle loro caratteristiche etniche, ambientali, linguistiche, sociali e produttive. Il tutto in una visione della Stato che ”invece di amministrare se stesso, attraverso la sola tutela della burocrazia, (tra le più arretrate del mondo), si occupi finalmente e seriamente dei grandi problemi nazionali e della tutela dei cittadini”

“…l’immagine che si vuole evocare con la parola “bioregionalismo” un neologismo usato dallo stesso Peter Berg. Diciamo che il “bioregionalismo” contraddistingue un modo di pensare che muove dall’esigenza profonda di riallacciare un rapporto sacrale con la terra. Questo rapporto si conquista partendo dalla volontà di capire -riabitandolo- il luogo in cui viviamo. Una bioregione infatti non è un recinto di cui si stabiliscono definitivamente i confini ma una sorta di campo magnetico (aura – spiritus loci) distinguibile dai campi vicini solo per l’intensità delle caratteristiche che formano la sua identità, alla stessa stregua degli esseri umani, contemporaneamente diversi e simili l’uno all’altro…”

“Riconoscendo l’esistenza delle diverse realtà delle nostre quotidianità siamo in grado di coglierne la ricchezza e l’unicità, conservandone la memoria quale eredità culturale. Possiamo in tal modo cogliere l’anima del luogo dove abitiamo, ove mente e corpo si fondono in un atto profondo d’amore e di gratitudine verso questa terra che ci ha donato la vita, la quale racchiude le leggi cosmiche. Difenderla implica tutto questo, nella piena consapevolezza che esiste un’altra realtà molto insidiosa, quella della perdita delle identità, della distruzione delle culture con i loro paesaggi uniformi, prossimi ai deserti..”

“L’esperienza degli orti e dell’agricoltura urbana, seppur con qualche anno di ritardo, si sta diffondendo molto velocemente anche in Italia. Se esistesse una mappatura, vedremmo migliaia di puntini disegnati sulla cartina dell’Italia: gruppi auto-organizzati, orti didattici, orti sul balcone, aiuole coltivati a lattuga, orti sinergici. Tra tangenziali, cavalcavia, ponti, semafori, autostrade, ecco apparire qua e là un orto in tutta la sua bellezza”

“…non si può fare a meno della biodiversità, ovvero i sistemi naturali che sostengono la sopravvivenza di noi tutti. Osserviamo che ovunque avanza la desertificazione (non soltanto siccità bensì perdita dell’humus in seguito al dilavamento dei terreni di superficie), la deforestazione, l’utilizzo improprio dei terreni per produzione elettrica, l’impoverimento dei suoli dovuti a monoculture, la modifica dell’ambiente e, in generale, la dispersione del patrimonio biologico delle specie animali e vegetali, tutti aspetti che determinano una perdita economica considerevole anche nell´economia…”

“L’unico “sviluppo” che consente la vita della biosfera è un processo completamente non-materiale, qualcosa che significhi l’evolversi di cultura, arte, spiritualità”

“Il nostro è un lavoro di chi ama osservare l’inverno che finisce e la primavera che avanza, sentire tamburellare il picchio, sentire l’improvviso fruscìo degli stormi di fringuelli sopra la testa come l’ala di un angelo. Quale calcolo economico possiamo fare di questo lavoro, che faccia rientrare anche la sensazione di essere lambiti da un’ala di angelo? Ho cercato di dare un esempio piccolo e concreto di un modo di lavorare che abbia cura della terra e degli altri esseri perché vorrei fare una domanda. E’ concepibile un’amministrazione politica -di qualunque livello organizzativo- che legifera attorno a questa modo di lavorare slow?”

“…continuo a dedicarmi, in teoria ed in pratica, a questa ricerca, occupandomi magari di agricoltura biologica, alimentazione bioregionale, cure naturali, spiritualità e arte della natura.. Io personalmente sono giunto, per mezzo di esperienze vissute e di considerazioni e riflessioni sugli eventi, a condividere pienamente il pensiero ecologista profondo, il vegetarismo e la spiritualità laica”

“Il mondo è un grande laboratorio bioregionale. Forse non abbiamo bisogno di ricorrere alla Storia che con le interpretazioni di chi riporta, narra, commenta, fatti e comportamenti umani, non ci fa vivere o rivivere esperienze aderenti alla realtà dei tempi. Forse ci dobbiamo rivolgere a quel grande laboratorio che è il mondo oggi. Di fatto, in questo momento possiamo entrare nella storia, possiamo guardare a tutte quelle popolazioni presenti oggi nel mondo, che sono rappresentative di realtà che vanno da uno stato che non si discosta molto da quello primordiale a quello che rappresenta lo stato più avanzato della tecnologia. Questo gioco della natura ci consente un’osservazione diretta di sistemi di aggregazione sociale, culturale ed economica, di interpretarli e di cercare di capire che fare per superare le vecchie e le nuove miserie e di essere attori entusiasti nel progetto di costruzione di un mondo equo, solidale, felice, e quindi con un futuro”

“…per me ecologia profonda vuol dire: amore per la vita, per la natura, per gli esseri viventi, solidarietà umana, ognuno secondo la propria natura e le proprie possibilità: una tendenza a... nei limiti del possibile. I cambiamenti non avvengono in un giorno, ma ognuno di noi può fare la sua parte”

Paolo D’Arpini


Referente della  Rete Bioregionale Italiana
Tel. 0733/216293 – bioregionalismo.treia@gmail.com

martedì 23 luglio 2019

Montecorone di Zocca, 26 luglio 2019 - "Incontro con le poesie del cuore"


Montecorone di Zocca - Cerchio poetico in piazza


Venerdì 26 Luglio alle ore 20:30 presso la sede dell’Associazione: “RISORGIMONTE”, in via Braglie, 1830 a Montecorone di Zocca (Mo).

"Incontro con le poesie del cuore" 

La lettura sarà preceduta dalla condivisione dei partecipanti sull’argomento della poesia.

La partecipazione è libera, è gradita la conferma entro la mattinata del 26 luglio.

Per info: T. 059 795 841 Maria Bignami
oppure Franca 334 167 5727
mail: casavaldisasso@gmail.com


Un esempio di poesia:

L’AMORE

Che cos’è per te l’Amore
lo vorrei proprio sapere
ascoltar quelle parole
che fluiscono dal cuore.
Per qualcuno è quel sentire
che non sa ben definire
come un luminoso raggio
infinito è il suo linguaggio.

Chi lo esprime con parole
di sostegno nel dolore
con un gesto generoso
o uno sguardo silenzioso.
C’è chi dice che l’Amore
abbia a fianco un’alleata
molto stretta è l’amicizia
il suo nome è la Giustizia.
Non si posson separare
sempre unite a conciliare
questo loro stare insieme
dappertutto fan del bene.

Forse c’è chi può pensare
a chi ha fatto tanto male
che si debba giustiziare
e una pena far pagare.
E se invece in tribunale
fosse giudice il Signore?
qual sarebbe la sentenza?
non necessita cercare
tu sai già che è dentro al cuore.
Se qualcuno vien ferito
e si sente risentito
può sanare quel dolore
con l’aiuto dell’Amore.
E chi sta dall’altra parte
forse non si rende conto
col suo grande contributo
d’aver dato tanto aiuto.
Se ti trovi in un contesto
e non percepisci Amore
con la Luce puoi cambiarlo
attingendolo dal luogo
che proviene sai da dove.
Osservando la natura
piante, mari ed animali
se siam presi da stupore
lo possiam chiamare Amore.
Camminando nella vita
può succeder di cadere
se in Amore resterete
presto voi vi rialzerete
Nello stare ad osservare
vedo dentro in molti cuori
tanto Amore imprigionato
che vuol esser liberato.
Tutti sanno come fare
ed è semplice imparare
basta stare ad ascoltare
quello che ci detta il cuore.
Vi confido, l’intenzione
è portare riflessione
che se ci rendiamo conto
quanto Amore abbiamo dentro
no, non più elemosinare
e se siam disposti a dare
questo ci farà arricchire
Per finire vorrei dire
e di questo ne ho le prove
quando noi doniamo Amore
quello allevia ogni dolore.

Maria Bignami

Civitanova Marche: "Io, Don Chisciotte" - Recensione

IO, DON CHISCIOTTE

Io, Don Chisciotte

Coreografia, regia e scene
Fabrizio Monteverde
Produzione
Balletto di Roma
Voce recitante
Stefano Alessandroni
Musiche
Ludwing Minkus e AA.VV.

Civitanova Marche, Teatro Rossini  20 Luglio 2019


A TUTTI I CAVALIERI ERRANTI *

“… il sublime si è impazzare senza alcun perché al mondo…”
                   M.De Cervantes Saavedra, Don Chisciotte.


         Il cono di luce rossastra piove su un ossuto Don Chisciotte sommariamente vestito, ripiegato su se stesso, solitario sulla scena: i versi che la voce fuori campo dedica “A tutti gli illusi* sono preludio alla convulsa gestualità di marionetta di quel corpo che si torce, si piega, s’inabissa, riemerge. Cammina sui libri come su pietre disposte per un guado, li sposta, li raduna, li accatasta; li raccoglie devotamente dentro una carrozzina per bambini il fido Sancho Panza, qui reinterpretato al femminile, figura tenera e stracciona come una Gelsomina senza il crudele Zampanò: in luogo del quale c’è invece il Cavaliere dalla Triste Figura, patetico non meno del suo Sancho, malconcio non meno dell’arrugginita carcassa d’auto che occupa il fondale, sorta di meccanico Ronzinante del tutto degno dell’ingenioso hidalgo a cui “per il poco dormire e per il troppo leggere si prosciugò il cervello”.

         Presto la scena si dilata dalla solitudine dei protagonisti alla coralità energica del corpo di ballo: l’aggregarsi, il convergere, il frammentarsi degli interpreti, i movimenti ora spezzati ora lineari disegnano traiettorie narrative ed emozionali che intersecano il microcosmo isolato e visionario del cavaliere, ne ampliano lo struggimento e la follia, ne incoraggiano o ne contrastano il sogno, materializzano nella bella Dulcinea l’infinita sete di bellezza e di amore.

         È un Don Chisciotte, quello coreografato da Monteverde, che aderisce intimamente al connotato problematico e tragico del Cervantes eppure è al tempo stesso poderosamente moderno: e se il prorompente tessuto musicale e l’impianto coreografico - intenso e originalissimo - hanno colori e forme di sapore iberico, dentro questa cornice complessa e cangiante la vicenda dell’hidalgo si fa metafora attualissima e universale di ogni ricerca di libertà percepita come “follia”; di ogni guerra, in partenza perduta, contro i muri alti delle convenzioni, delle ipocrisie, dei poteri consolidati.

         Don Chisciotte, cavaliere invincibile degli assetati, è solo con la sua struggente diversità, inerme contro i mulini a vento scambiati per giganti, né la saggia concretezza dell’ignorante Sancho può salvarlo dalle ombre; non è che follia la sua ricerca di giustizia, sembra dirci la scena che va connotandosi in senso tragico: l’automobile-Ronzinante (una Renault R4) va in fumo, il petto del cavaliere è trafitto da una rosa di frecce, intensa citazione da “La notte di San Lorenzo”  dei Taviani [l’antico guerriero col petto trafitto - nella fantasia della bambina - da decine di lance].

         Resta la pietà dell’umile Sancho che lava il sangue del suo padrone, e riconduce entro i confini del reale e del quotidiano il sogno smarrito del cavaliere folle. E se al buon Sancho (convinto che, come nei grandi poemi del passato, un cavaliere debba avere un buon motivo per la propria follia) Don Chisciotte nel romanzo  risponde che “Non v'è né merito né grazia in un cavaliere errante se impazzisce per qualche giusto motivo: il sublime si è impazzare senza un perché al mondo”, questo Don Chisciotte - “poeta, folle, mendicante” - immaginato da Monteverdi si spinge oltre: il suo “impazzare” non è senza perché, è piuttosto il reagente che smaschera l’illusione di ciò che definiamo realtà, rovescia i rassicuranti canoni che cementano le nostre ipocrisie, addita infine “la maglia rotta nella rete”, il volo verso la libertà sempre pagato a caro prezzo.

          L’eccellenza delle coreografie, della regia, degli interpreti - premiati dall’entusiasmo del pubblico e dalle numerose “chiamate” - hanno prestato all’eternità di un classico la suggestione di linguaggi altri: le traiettorie dei danzatori incrociano un tessuto sonoro potentemente evocativo ed è continuo scambio fra tradizione e modernità; nel il ritmo di flamenco scandito dal solo battito delle mani, nei movimenti spezzati e nei repentini cambi di direzione, nei ritmi convulsi o distesi, le geometrie dei corpi disegnano trame dove i passi sono ciò che nella poesia è la parola: svelano e definiscono il reale, quello della vita che pulsa e prorompe intorno, come quello dell’anima che si slancia verso il sogno e l’utopia.

         Non soltanto un magnifico spettacolo, ma un “omaggio ai grandi slanci, alle idee e ai sogni”, agli “illusi che parlano al vento”, alla pazza idea che sempre, su qualche terra o pianeta, un cavaliere errante ci sia, che segua “la legge che batte nel suo cuore” perché il cuore, come quello del Don Chisciotte di Nazim Hikmet, “ha un peso rispettabile”...


Sara Di Giuseppe   -  faxivostri.wordpress.com       letteraturamagazine.org

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*In:  Don Chisciotte, diario intimo di un sognatore
          di Corrado D’Elia