mercoledì 20 dicembre 2017

Kenan Malik: Il multiculturalismo e i suoi critici – Recensione di Marinella Correggia


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Kenan Malik, Il multiculturalismo e i suoi critici. Ripensare la diversità dopo l’11 settembre, edizioni Nessun dogma, Roma 2016, pag. 94, 10 euro

Studioso britannico di origine indiana, Malik motiva in questo breve, utile saggio la propria critica sia agli avversari del multiculturalismo (solo 20 anni fa universalmente visto come la soluzione ai tanti problemi dell’Europa sociale, e ora invece sempre più accusato – con venature razziste – di minare la civiltà occidentale), sia al…multiculturalismo stesso: «Io lo critico proprio perché sono a favore dell’immigrazione, contrasto l’odio che monta verso i musulmani e accetto la diversità».

Sembra una contraddizione, adesso che «sotto i colpi della destra razzista è caduta la lunga tradizione di critici progressisti e di sinistra al multiculturalismo come processo politico che ha l’obiettivo di gestire l’esperienza vissuta della diversità culturale». Eppure, «la sfida al multiculturalismo e quella ai suoi nemici di destra sono inseparabili», perché il processo politico multiculturale tende a «inserire le persone in contenitori etnici e culturali» (la comunità bengalese, la comunità sikh, la comunità musulmana…). Un argomento «per sorvegliare i confini fisici, culturali e immaginativi anziché aprire le menti e i confini» come fanno invece la diversità e le migrazioni di massa.

La maggior parte dei multi-culturalisti ritiene che le persone dovrebbero essere trattate non in maniera uguale malgrado le differenze ma in maniera differenziata proprio per via di queste ultime. Così va a quel paese l’antico concetto di uguaglianza, fondato sull’idea illuminista di universalismo. 

«Al posto dei diritti universali arrivano quelli differenziati». E c’è uno «slittamento dall’idea che gli esseri umani siano portatori di cultura a quella che debbano farsi portatori di una determinata cultura». Questo approccio nega le differenze individuali dentro le comunità di minoranza. Si cade – il colmo dei paradossi – in un discorso di differenza razziale, di «cultura definita dalla discendenza biologica». Un modo garbato di fare del razzismo «scientifico»; un invito a pensare alle culture umane in termini di immutabilità.

Il saggio è denso di esempi pratici (una donna musulmana che rifiuta la sharia, dimostra che non si vuole integrare? Un afrocaraibico a Birmingham deve per forza aderire alle chiese dei neri? Un bengalese che non sente l’orgoglio islamico, è fuori? Un ebreo che non si sente parte dell’ebraismo, è incapace di vivere bene? Insomma i tuoi antenati definiscono ciò che tu devi fare e pensare?) e storici (le passate generazioni di migranti in Occidente erano preoccupate non per il desiderio di essere trattate in maniera differente, ma perché erano trattate in maniera differente!).

Molto interessanti, e non note, le vicende storiche delle politiche multiculturaliste di cui l’élite politica si è servita in Germania (dove invece di garantire cittadinanza e inclusione, agli immigrati fu «permesso» di conservare cultura, lingua e stile di vita, creando «comunità parallele») e nel Regno unito, con gli individui provenienti dalle comunità di minoranza classificati non come cittadini ma come membri di gruppi etnici. In entrambi i casi si sono create società frammentate, fomentando rifiuto e razzismo da parte degli autoctoni e ostilità e alienazione da parte delle «comunità», avverse anche le une alle altre, in una sorta di «monoculturalismo plurale» (Amartya Sen).

Forse il disastro più grave del multiculturalismo è stato quello di far promuovere a rappresentanti autentici delle comunità le figure più conservatrici e fanatiche; marginalizzando le altre. Emblematica la vicenda delle vignette danesi su Maometto (2005), che andò in modo molto diverso da quanto raccontato. Furono necessarie la tigna maligna di certi giornalisti che sobillarono imam pro-Bin Laden, e la follia dell’Arabia saudita – che arrivò a boicottare le merci della Danimarca – per passare dall’indifferenza (da parte degli stessi cittadini musulmani) a una reazione a valanga mondiale e mortale . Le vignette furono uno strumento usato dall’estremismo.

E i versetti satanici di Salman Rushdie? Andò allo stesso modo, sempre con lo zampone dei Saud che indusse per contrasto l’Iran a emettere la fatwa.. Con lo stesso risultato: l’identificazione dei musulmani con i fondamentalisti.

Ecco così che alla fine «il bersaglio principale del multiculturalismo diventano gli stessi immigrati», percepiti come una minaccia anziché come una ricchezza. E «l’illuminismo diventa un’arma nello scontro di civiltà, anziché di progresso sul fronte dei diritti civili e della giustizia sociale»; diventa «tanto un criterio di attaccamento tribale, quanto di politiche progressiste». Si sfocia nel contro-illuminismo.

Nessun Dogma è la casa editrice dell’Unione degli atei agnostici razionalisti (Uaar).


Marinella Correggia

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