Anni fa, quando incontravo classi di alunni delle scuole elementari per parlare di animali domestici ero solita incominciare “classificando” gli animali domestici in animali da reddito ed animali da affezione e sul diverso “uso” che si fa, noi umani, di queste due categorie di animali, dato che sempre di “uso” si tratta.
Nei loro riguardi si può facilmente notare il diverso atteggiamento dell’uomo di oggi: gli animali d’affezione o pets spesso sono considerati e trattati come veri e propri membri della famiglia, quando non sono sostituti di figli, amici o compagni non avuti o forse non abbastanza amati. Vivono all’interno delle nostre case, sono oggetto di cure, premure ed attenzioni come forse a volte non ce l’hanno nemmeno i nostri anziani, rispettati ed amati nelle culture arcaiche e spesso oggi dimenticati. A seguito di questa nuova “sensibilità” collettiva sono state emanate disposizioni che tutelano il loro benessere ed, in un clima di “animalismo” dirompente, aumentano le segnalazioni di “maltrattamento”.
Al contrario, gli animali da reddito, vengono comunemente considerati e trattati dai loro proprietari come delle macchine, che per produrre hanno bisogno di un carburante, l’alimento, di strutture, l’allevamento e che devono fornire un reddito adeguato, da cui la diffusione dell’allevamento intensivo. .Il consumatore, spesso e volentieri, è completamente indifferente a questo stato di cose, anche per una scarsa conoscenza dei sistemi di vita di questi animali. Parlo per la realtà in cui vivo ed opero, una zona ad ancora elevata produzione di alimenti di origine animale.
Durante i miei studi universitari di veterinaria, parecchio tempo fa, si cominciavano ad insegnare in zootecnia le tecniche dell’allevamento intensivo, le strutture, le attrezzature, le condizioni, i tempi, le diverse tipologie, a seconda della specie e dell’attitudine degli animali allevati, come se l’unico sistema o almeno il migliore, fosse questo: ho superato esami di zootecnia e di tecnica mangimistica in cui l’allevamento rurale non era neanche contemplato (ed in effetti, per questo sistema non c’è bisogno di particolare preparazione e studio).
Gli animali negli allevamenti intensivi sono tenuti costantemente confinati se non addirittura al chiuso per tutta la loro vita. Per molti di essi (suini, pollame) l’unico momento in cui vedono la luce del sole è l’uscita dall’allevamento per il macello.
Ma dall’altra parte, c’è ancora una moltitudine di operatori, che di questo lavoro vivono, anche se con profitti molto più modesti degli anni ’70-’80, quando ci fu il boom della fettina ogni giorno. Il consumo di prodotti di origine animale ed in particolare della carne, diventò una specie di status symbol prima e poi un’abitudine inveterata, con conseguente maggiore richiesta e necessità di aumentare le produzioni e la competitività tra le aziende. La globalizzazione dei mercati poi ha coinvolto anche questo settore produttivo ed il commercio degli animali vivi e dei prodotti di origine animale si è allargato a paesi europei ed extra europei, sia in entrata che in uscita e così quello di tutte le merci che ci ruotano attorno, principalmente mangimi.
I prezzi dei prodotti non sono aumentati come quelli di altri beni di consumo e quindi per mantenere le aziende in attivo si è dovuto ricorrere ad un aumento dello sfruttamento degli animali. Sappiamo ormai tutti che gran parte delle terre coltivate mondiali sono occupate da coltivazioni di cereali e soia per l’alimentazione del bestiame a scapito di colture che potrebbero alimentare direttamente gli esseri umani , con la distruzione di foreste che potrebbero contribuire a risanare l’atmosfera del globo.
Sembra che la riconversione di queste attività verso modelli più sostenibili dal punto di vista ecologico e del benessere animale, sia improponibile economicamente o forse solo culturalmente e si può anche capire che persone che hanno investito tutte le loro risorse, competenze, e aspettative per un futuro economicamente tranquillo per loro e magari anche per i loro figli, non siano favorevoli a buttare tutto al macero e ricominciare riavvicinandosi ai vecchi sistemi, con una nuova consapevolezza.
Questa consapevolezza tarda a diffondersi in certi settori e strati culturali . Inoltre ci sono tradizioni gastronomiche e culinarie che sono il simbolo di certe regioni e che una gran parte della popolazione tiene a mantenere ed anzi a consolidare e, nell’ambito commerciale, ad esportare, se possibile.
E quindi, se in Italia in generale diminuisce il consumo degli alimenti di origine animale , si cercano nuovi mercati e si cerca di “sfondare” in paesi come la Russia, gli Stati Uniti e tanti altri. Con le difficoltà burocratiche e le incertezze dei mercati che la cosa comporta.
A mio modesto avviso, fisiologicamente non abbiamo necessità di un consumo di tante proteine di origine animale, eventualmente solo di un’integrazione, anche a seconda dell’età e del tipo di attività fisica lavorativa che si svolge.
Sono convinta che l’agricoltura ha solo da avvantaggiarsi del concime animale, e della presenza fisica dell’animale sui terreni, magari a rotazione, ma non della quantità di letame e liquami che attualmente vengono prodotti, inquinando sempre più le falde acquifere e l’atmosfera o, in alternativa, comportando un costo esorbitante per lo smaltimento, con depuratori che raramente funzionano secondo le ottimistiche previsioni con cui furono costruiti.
Da parte di alcune frange di consumatori, si sta creando attorno all’allevamento intensivo un movimento di opinione, che punta il dito sulla sofferenza che questo ingenera in esseri viventi che condividono con noi questo passaggio sulla nostra bella e martoriata Madre Terra e sui danni di natura ecologica da esso causati.
Si stanno infatti diffondendo un vegetarismo e un veganesimo per motivi etici, per evitare in assoluto la sofferenza che deriva dal cosiddetto “sfruttamento” che sarebbe insito nell’appropriarsi di qualsiasi prodotto animale.
Io sono invece per un riequilibrio (ovvio che questo concetto è soggettivo), sono per un ritorno ai consumi che c’erano fino agli anni ‘50 del secolo scorso, prima dell’avvento dell’allevamento industriale, in una simbiosi mutualistica fra uomo e animale: l’uomo può offrire protezione e qualche piccola quantità di alimento supplementare all’animale, prendendo in cambio una piccola quota di prodotto e questo tipo di rapporto potrebbe valere anche per gli animali da compagnia, che dovrebbero essere lasciati liberi di vivere in maniera più naturale, ed, in questo sistema, potrebbero anche loro svolgere ancora compiti di una qualche utilità e non solo stare seduti sui nostri salotti come oggi avviene in massima parte.
Il tutto poi va visto in un’ottica di riduzione dei consumi e di abolizione degli sprechi, imparando ad accontentarci di quel che ci è necessario senza rincorrere beni superflui, riscoprendo la solidarietà verso tutti gli esseri viventi, umani e non, e riappropriandoci delle nostre innate ma dimenticate capacità di sopravvivenza, pensando al futuro nostro e del pianeta.
Caterina Regazzi
Nei loro riguardi si può facilmente notare il diverso atteggiamento dell’uomo di oggi: gli animali d’affezione o pets spesso sono considerati e trattati come veri e propri membri della famiglia, quando non sono sostituti di figli, amici o compagni non avuti o forse non abbastanza amati. Vivono all’interno delle nostre case, sono oggetto di cure, premure ed attenzioni come forse a volte non ce l’hanno nemmeno i nostri anziani, rispettati ed amati nelle culture arcaiche e spesso oggi dimenticati. A seguito di questa nuova “sensibilità” collettiva sono state emanate disposizioni che tutelano il loro benessere ed, in un clima di “animalismo” dirompente, aumentano le segnalazioni di “maltrattamento”.
Al contrario, gli animali da reddito, vengono comunemente considerati e trattati dai loro proprietari come delle macchine, che per produrre hanno bisogno di un carburante, l’alimento, di strutture, l’allevamento e che devono fornire un reddito adeguato, da cui la diffusione dell’allevamento intensivo. .Il consumatore, spesso e volentieri, è completamente indifferente a questo stato di cose, anche per una scarsa conoscenza dei sistemi di vita di questi animali. Parlo per la realtà in cui vivo ed opero, una zona ad ancora elevata produzione di alimenti di origine animale.
Durante i miei studi universitari di veterinaria, parecchio tempo fa, si cominciavano ad insegnare in zootecnia le tecniche dell’allevamento intensivo, le strutture, le attrezzature, le condizioni, i tempi, le diverse tipologie, a seconda della specie e dell’attitudine degli animali allevati, come se l’unico sistema o almeno il migliore, fosse questo: ho superato esami di zootecnia e di tecnica mangimistica in cui l’allevamento rurale non era neanche contemplato (ed in effetti, per questo sistema non c’è bisogno di particolare preparazione e studio).
Gli animali negli allevamenti intensivi sono tenuti costantemente confinati se non addirittura al chiuso per tutta la loro vita. Per molti di essi (suini, pollame) l’unico momento in cui vedono la luce del sole è l’uscita dall’allevamento per il macello.
Ma dall’altra parte, c’è ancora una moltitudine di operatori, che di questo lavoro vivono, anche se con profitti molto più modesti degli anni ’70-’80, quando ci fu il boom della fettina ogni giorno. Il consumo di prodotti di origine animale ed in particolare della carne, diventò una specie di status symbol prima e poi un’abitudine inveterata, con conseguente maggiore richiesta e necessità di aumentare le produzioni e la competitività tra le aziende. La globalizzazione dei mercati poi ha coinvolto anche questo settore produttivo ed il commercio degli animali vivi e dei prodotti di origine animale si è allargato a paesi europei ed extra europei, sia in entrata che in uscita e così quello di tutte le merci che ci ruotano attorno, principalmente mangimi.
I prezzi dei prodotti non sono aumentati come quelli di altri beni di consumo e quindi per mantenere le aziende in attivo si è dovuto ricorrere ad un aumento dello sfruttamento degli animali. Sappiamo ormai tutti che gran parte delle terre coltivate mondiali sono occupate da coltivazioni di cereali e soia per l’alimentazione del bestiame a scapito di colture che potrebbero alimentare direttamente gli esseri umani , con la distruzione di foreste che potrebbero contribuire a risanare l’atmosfera del globo.
Sembra che la riconversione di queste attività verso modelli più sostenibili dal punto di vista ecologico e del benessere animale, sia improponibile economicamente o forse solo culturalmente e si può anche capire che persone che hanno investito tutte le loro risorse, competenze, e aspettative per un futuro economicamente tranquillo per loro e magari anche per i loro figli, non siano favorevoli a buttare tutto al macero e ricominciare riavvicinandosi ai vecchi sistemi, con una nuova consapevolezza.
Questa consapevolezza tarda a diffondersi in certi settori e strati culturali . Inoltre ci sono tradizioni gastronomiche e culinarie che sono il simbolo di certe regioni e che una gran parte della popolazione tiene a mantenere ed anzi a consolidare e, nell’ambito commerciale, ad esportare, se possibile.
E quindi, se in Italia in generale diminuisce il consumo degli alimenti di origine animale , si cercano nuovi mercati e si cerca di “sfondare” in paesi come la Russia, gli Stati Uniti e tanti altri. Con le difficoltà burocratiche e le incertezze dei mercati che la cosa comporta.
A mio modesto avviso, fisiologicamente non abbiamo necessità di un consumo di tante proteine di origine animale, eventualmente solo di un’integrazione, anche a seconda dell’età e del tipo di attività fisica lavorativa che si svolge.
Sono convinta che l’agricoltura ha solo da avvantaggiarsi del concime animale, e della presenza fisica dell’animale sui terreni, magari a rotazione, ma non della quantità di letame e liquami che attualmente vengono prodotti, inquinando sempre più le falde acquifere e l’atmosfera o, in alternativa, comportando un costo esorbitante per lo smaltimento, con depuratori che raramente funzionano secondo le ottimistiche previsioni con cui furono costruiti.
Da parte di alcune frange di consumatori, si sta creando attorno all’allevamento intensivo un movimento di opinione, che punta il dito sulla sofferenza che questo ingenera in esseri viventi che condividono con noi questo passaggio sulla nostra bella e martoriata Madre Terra e sui danni di natura ecologica da esso causati.
Si stanno infatti diffondendo un vegetarismo e un veganesimo per motivi etici, per evitare in assoluto la sofferenza che deriva dal cosiddetto “sfruttamento” che sarebbe insito nell’appropriarsi di qualsiasi prodotto animale.
Io sono invece per un riequilibrio (ovvio che questo concetto è soggettivo), sono per un ritorno ai consumi che c’erano fino agli anni ‘50 del secolo scorso, prima dell’avvento dell’allevamento industriale, in una simbiosi mutualistica fra uomo e animale: l’uomo può offrire protezione e qualche piccola quantità di alimento supplementare all’animale, prendendo in cambio una piccola quota di prodotto e questo tipo di rapporto potrebbe valere anche per gli animali da compagnia, che dovrebbero essere lasciati liberi di vivere in maniera più naturale, ed, in questo sistema, potrebbero anche loro svolgere ancora compiti di una qualche utilità e non solo stare seduti sui nostri salotti come oggi avviene in massima parte.
Il tutto poi va visto in un’ottica di riduzione dei consumi e di abolizione degli sprechi, imparando ad accontentarci di quel che ci è necessario senza rincorrere beni superflui, riscoprendo la solidarietà verso tutti gli esseri viventi, umani e non, e riappropriandoci delle nostre innate ma dimenticate capacità di sopravvivenza, pensando al futuro nostro e del pianeta.
Caterina Regazzi
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