giovedì 31 agosto 2017

In memoria di Nanni Svampa, il gufo... - di Gianni Donaudi



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Nanni Svampa aveva fondato, attorno alla metà degli anni '60 (insieme a Lino Patruno e ad altri 2 amici), il gruppo cabarettistico de "I GUFI". Ma non di un cabarettismo  fine a se stesso. Nei testi recitati si inseriva sempre  un'allusione politica e sociale, contro l'imperialismo $.U.A., contro i gruppi di potere che allora dominavano la nostra penisola, e qualche satira alla burocrazia vaticana (e non tanto alla religione in sé).

La metropoli meneghina aveva in quel periodo un grosso fermento in fatto di canzone d' autore, come lo aveva avuto Genova con la sua  Scuola  qualche anno prima( DE ANDRé, PAOLI, BINDI, TENCO e LAUZI, ben prima di FOSSATI) .

Basti ricordare STRELLHER, DARIO FO, ENZO JANNACI, GIORGIO GABER e altri.

La differenza con Genova stava forse nel fatto che se, nel capoluogo ligure i cantautori esprimevano disagi amorosi, sociali ed esistenziali in genere, ma pur senza arrivare al " politico" , con i milanesi si arriva a quello, anche se Svampa resterà sempre il " meno politicizzato" pur con le sue preferenze per il P.S.I. , dove si candiderà verso la fine degli anni ' 80( gli anni di quella  Milano che sembrava aver superato lo stesso " b o o m " economico di 20 anni prima, quando persino L' Espresso e Repubblica accantonando le tradizionali  critiche al partito di BETTINO CRAXI, sembravano "possibilisti" circa la giunta comunale di PAOLO PILLITTERI (cognato del Capo del Governo), che "amministrava bene").

NANNI SVAMPA restò attaccato al suo mondo di birbanti, di mascalzoni, di ladruncoli, di piccoli " protettori" , che nel bel mondo meneghino non-contavano,  e mise in opera un ' operazione già compiuta da DE ANDRE' a Genova con le " città vecchie" , le " vie del campo" , etc. traducendo diversi testi del lenguedociano GEORGES BRASSENS( cosa che con meno successo tenterà di fare anche GIPO FARASSINO a Torino ), dove i protagonisti sono appunto le categorie piu' sopra indicate . Ma Brassens/Svampa non risparmiano neppure la gente- bene, i puritani benpensanti piccoli, medi e alto-borghesi o nobili imborghesiti e, nel caso di Nanni neppure di quella Milano-bene che si dice " progressista" e che gioca a fare la " rivoluzionaria" . 

NANNI SVAMPA era, per sua stessa ammissione, vivacemente anticlericale (come può esserlo un socialista, un libertario, prima ancora che un "marxista"), eppure  molti suoi testi facevano trasparire, almeno da un punto di vista "filosofico" un profondo senso cristiano, e  umano, senza per questo arrivare all'autocommiserazione e ai piagnisdei vittimistici di un FRANCO TRINCALE .

Sarà per i testi in milanese, ma NANNI SVAMPA sembrava avere anche un senso " localistico" della cultura ( come d' altronde lo aveva avuto FARASSINO in Piemonte, già quando era ancora iscritto al P.C.I. ) , ed è forse per questo che le traduzioni meneghine di Brassens piacevano anche a RADIO PADANIA , che ne trasmetteva spesso le canzoni (come, nonostante lo schieramento RP, trasmetteva  spesso le canzoni "padane" di GABER, IANNACI, MINA, MILVA e... persino le canzoni delle Mondine vercellesi, cantate da ANNA IDENTICI)

Ricordo che acquistai i 2 " l o n g    p l a y " di SVAMPA in una liquidazione a 1000 £. ciascuno. Altri tempi.

Ciao NANNI, tirrem inanz e chi non ci ama...car vaghe a dar via 'e ciapp!

Gianni Donaudi

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mercoledì 30 agosto 2017

Monterubbiano (Fm): “Il Poema del Melograno” di Giarmando Dimarti - Recensione



“Il Poema del Melograno”
di Giarmando Dimarti
traduzione di Nesrine Besbes

Regia e Interpretazione di
Vincenzo Di Bonaventura

voce in lingua araba
Yacine Boufra

Fondazione DiversoInverso, Monterubbiano (FM)
Domenica 27 agosto 2017



       Il vento s’è impigliato all’orizzonte, scriverebbe Dimarti pennellando l’atmosfera di questa sospesa sera d’agosto. Cielo profondo sopra gli alberi, quiete stelle lontane, giardino antico di terrazze e gradini impervi che si fa arabo negli aromi di cous cous e di tè speziato servito con gesto d’arabesco, e nella voce calda del giovane Yacine in severa galabeya che in arabo legge le poesie di Giarmando. Tornerà fra poco alla sua Itaca nel deserto, alla famiglia, lui arrivato dal mare come tanti. Poi sarà di nuovo qui, Yacine (mi chiamo anche Ahmed, come quasi tutti gli arabi), a questo “scrigno dell’amore, dell’accoglienza, della cultura” - così Di Bonaventura definisce il luogo nato dalla passione di Stefania e di Euro - e da qui riprenderà il non facile viaggio della sua vita.

       Il Poema del Melograno, inedita meraviglia che nel marzo dedicato alla Poesia sfoglieremo con a fronte l’araba traduzione di Nesrine Besbes, è il frutto carnoso di agguerrita dolcezza maturato nel poeta dalla “attentività testimoniale” (Di Bonaventura) per l’universo di colore, di danza e di suono - suoni stupiti fragranti - di quella cultura antica: prismatica e polposa, complessa e succosa come il melograno che ne è simbolo “carico di sole ed essenze”.

       Granada e Palermo ne sono i confini: lo apre la “melograna di Spagna”, che ha il frutto del paradiso musulmano nel nome e nello stemma, moresca città di sapienza e cultura non piegata alla feroce Reconquista cristiana, spezzata infine da oscurantismo e violenza di sovrani cattolicissimi; lo chiude Palermo, scrigno medievale di poeti arabo-siculi, in fuga come Ibn Hamdis col suo diwan di versi d’amore per la patria perduta, di struggimento per un nostos mai realizzato (Sono stato cacciato da un paradiso, come posso io darne notizia?).

       Al Melograno il poeta rivolge domande, curioso del riposto segreto di quelle danze d’Oriente che custodiscono sontuose messi e frutti sonori; il Melograno risponde al poeta, e lo fa dando voce agli Strumenti - squittire rapido di uccelli, sapori di nettare e di mirra - poi ai Ritmi - percorso lungo del Nilo, arcobaleni accovacciati, beduino ritmo raccolto  -  poi alla Danza -alcove odorose di cinnamono, fervore accecante del giorno, i sette colori dei sette veli di Salomè, chiarezza di luce danzante per l’Antipa, e l’ingombrante testa del Battista

      “Avevo dimenticato la nostra musica, i nostri ritmi, la nostra danza” scrive a Giarmando la traduttrice Nesrine, e il poema di Dimarti è questo, nel nostro tempo miope e feroce: è folgorazione che scopre “l’anima despiritualizzata dell’uomo” (Di B.) perché “ristare ammarati è la più atroce sconfitta” e “solo dalla speranza rigermina un alabastro di salvezza”. Nella grande idea di recupero dell’uomo che pervade la poesia di Dimarti - commenta l’attore - sentiamo l’eco di quell’impensabile “…continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo” consegnatoci da Anna Frank.

       Lo sguardo di Giarmando sull’artista scopre cose che l’artista stesso non conosce: così, poco prima, sull’altissima poesia di Dimarti - degna dei più grandi del Novecento - argomentava Di Bonaventura, i cui spettacoli sono ogni volta contenitori inesauribili, lezioni magistrali di letteratura e teatro, di storia e poesia, di lingua e dialetto, di tradizioni popolari e di potente classicità.

       Lezioni che possono di colpo farsi giullarate: come quando si accende, stasera, il ricordo di una cena nella casa marchigiana dell’elettricista nativo di Casablanca, autore del sapiente impianto d’illuminazione nel suo ora dismesso Teatro Aikot da 27 posti in via Fileni (“con le assi e tavole del palcoscenico farò la mia bara”, ride l’attore): la giunonica madre in elegante hijab che cucina il delizioso menu arabo, e la conversazione fitta e cortesissima con lei che ovvio parla arabo e Vincenzo no ma capisce tutto anche i più sofisticati culinari tecnicismi, riprodotta in imperdibile grammelot degno del miglior Dario Fo.

       Noi aficionados lo sappiamo, che quelli di Vincenzo sono sempre due spettacoli, e anche più, in uno…

   Sara Di Giuseppe

martedì 29 agosto 2017

Le storie di Valdisasso...


L'immagine può contenere: 2 persone, persone che sorridono, persone sedute, bambino e spazio all'aperto 
"Incontro della condivisione"
Domenica 3 settembre 2017 ore 15 - 18 camminata all'interno del Parco dei Sassi di Roccamalatina
con sosta a metà percorso
Ogni partecipante è invitato a portare qualcosa da condividere
Qualche suggerimento
- Scrivere una storia vissuta personalmente che ti ha dato gioia
- Raccontare un evento divertente o qualche storiella
- Scrivere una lettera di ringraziamento a qualcuno anche se non è presente e leggerla ad alta voce
- Cantare una canzone
- Mostrare un'opera che hai realizzato della quale sei soddisfatto
Liberate la vostra fantasia
Invito ognuno a tenere per sé quello che ha da offrire fino al momento della condivisione
In caso di maltempo si svolgerà al coperto escludendo la camminata

Nulla è richiesto se si svolge all'esterno
Se si resta in casa, sarà servita una bevanda e altro, ed è richiesto un libero contributo
BENVENUTI!!!
                                                               
Maria Bignami

domenica 27 agosto 2017

Molli Sovicille (Siena), 1 - 2 - 3 Settembre 2017 - Festival dell’autoproduzione



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Crediamo nell’autoproduzione come forma di azione diretta, di libera espressione della creatività, di lotta per accrescere la nostra autonomia e indipendenza, per riprenderci in mano i nostri destini. L’idea di proporre un festival delle autoproduzioni nasce da un gruppo di amici nel senese accomunati dalla convinzione che solo attraverso l’azione diretta per la diffusione di cultura e conoscenze si potrà percorrere la strada verso una società liberata. Il festival intende consolidare forme di produzione che mettono al centro le capacità degli individui; modalità di gestione fondate sulla cooperazione tra liberi e uguali; una distribuzione svincolata da leggi e tasse. Chiamiamo singoli e gruppi a presentare le loro esperienze, a raccontare successi e difficoltà, a delineare progetti e aspirazioni.

Proponiamo tavoli di discussione in vari ambiti delle autoproduzioni (editoria, educazione, informatica, software libero, agricoltura, edilizia, distribuzione, vaccini); un libero mercatino permanente per chi vuole esporre e vendere ciò che produce; laboratori per imparare ad autoprodurre (birra, pane, contact, orto, serigrafia, sartoria, terra cruda, sapone, api); attività per i bambini, giocoleria, yoga e tai-chi, trekking; concerti, poesia e teatro.

A Molli si può campeggiare liberamente e ci saranno pranzi e cene, rispettose delle diverse scelte alimentari, cucinate con prodotti artigianali provenienti dalle immediate vicinanze.

Gli obbiettivi sono di far conoscere e consolidare le realtà di auto-produzione, autogestione e auto-distribuzione nei diversi contesti e territori, di conoscerci e rafforzare la rete di collaborazione tra le esperienze. Il festival si nutre delle energie che riuscirà a far germogliare nel cammino che ci porterà alle giornate di Settembre.

Autogestiamo il festival, i rapporti, la vita!


Scimmio - scimmio@anche.no

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Programma aggiornato: festivaldelleautoproduzioni.net 

sabato 26 agosto 2017

Rapporto uomo-animali ed implicazioni socio-economiche

Anni fa, quando incontravo classi di alunni delle scuole elementari per parlare di animali domestici ero solita incominciare “classificando” gli animali domestici in animali da reddito ed animali da affezione e sul diverso “uso” che si fa, noi umani, di queste due categorie di animali, dato che sempre di “uso” si tratta.

Nei loro riguardi si può facilmente notare il diverso atteggiamento dell’uomo di oggi: gli animali d’affezione o pets spesso sono considerati e trattati come veri e propri membri della famiglia, quando non sono sostituti di figli, amici o compagni non avuti o forse non abbastanza amati. Vivono all’interno delle nostre case, sono oggetto di cure, premure ed attenzioni come forse a volte non ce l’hanno nemmeno i nostri anziani, rispettati ed amati nelle culture arcaiche e spesso oggi dimenticati. A seguito di questa nuova “sensibilità” collettiva sono state emanate disposizioni che tutelano il loro benessere ed, in un clima di “animalismo” dirompente, aumentano le segnalazioni di “maltrattamento”.

Al contrario, gli animali da reddito, vengono comunemente considerati e trattati dai loro proprietari come delle macchine, che per produrre hanno bisogno di un carburante, l’alimento, di strutture, l’allevamento e che devono fornire un reddito adeguato, da cui la diffusione dell’allevamento intensivo. .Il consumatore, spesso e volentieri, è completamente indifferente a questo stato di cose, anche per una scarsa conoscenza dei sistemi di vita di questi animali. Parlo per la realtà in cui vivo ed opero, una zona ad ancora elevata produzione di alimenti di origine animale.

Durante i miei studi universitari di veterinaria, parecchio tempo fa, si cominciavano ad insegnare in zootecnia le tecniche dell’allevamento intensivo, le strutture, le attrezzature, le condizioni, i tempi, le diverse tipologie, a seconda della specie e dell’attitudine degli animali allevati, come se l’unico sistema o almeno il migliore, fosse questo: ho superato esami di zootecnia e di tecnica mangimistica in cui l’allevamento rurale non era neanche contemplato (ed in effetti, per questo sistema non c’è bisogno di particolare preparazione e studio).

Gli animali negli allevamenti intensivi sono tenuti costantemente confinati se non addirittura al chiuso per tutta la loro vita. Per molti di essi (suini, pollame) l’unico momento in cui vedono la luce del sole è l’uscita dall’allevamento per il macello.

Ma dall’altra parte, c’è ancora una moltitudine di operatori, che di questo lavoro vivono, anche se con profitti molto più modesti degli anni ’70-’80, quando ci fu il boom della fettina ogni giorno. Il consumo di prodotti di origine animale ed in particolare della carne, diventò una specie di status symbol prima e poi un’abitudine inveterata, con conseguente maggiore richiesta e necessità di aumentare le produzioni e la competitività tra le aziende. La globalizzazione dei mercati poi ha coinvolto anche questo settore produttivo ed il commercio degli animali vivi e dei prodotti di origine animale si è allargato a paesi europei ed extra europei, sia in entrata che in uscita e così quello di tutte le merci che ci ruotano attorno, principalmente mangimi.

I prezzi dei prodotti non sono aumentati come quelli di altri beni di consumo e quindi per mantenere le aziende in attivo si è dovuto ricorrere ad un aumento dello sfruttamento degli animali. Sappiamo ormai tutti che gran parte delle terre coltivate mondiali sono occupate da coltivazioni di cereali e soia per l’alimentazione del bestiame a scapito di colture che potrebbero alimentare direttamente gli esseri umani , con la distruzione di foreste che potrebbero contribuire a risanare l’atmosfera del globo.

Sembra che la riconversione di queste attività verso modelli più sostenibili dal punto di vista ecologico e del benessere animale, sia improponibile economicamente o forse solo culturalmente e si può anche capire che persone che hanno investito tutte le loro risorse, competenze, e aspettative per un futuro economicamente tranquillo per loro e magari anche per i loro figli, non siano favorevoli a buttare tutto al macero e ricominciare riavvicinandosi ai vecchi sistemi, con una nuova consapevolezza.

Questa consapevolezza tarda a diffondersi in certi settori e strati culturali . Inoltre ci sono tradizioni gastronomiche e culinarie che sono il simbolo di certe regioni e che una gran parte della popolazione tiene a mantenere ed anzi a consolidare e, nell’ambito commerciale, ad esportare, se possibile.

E quindi, se in Italia in generale diminuisce il consumo degli alimenti di origine animale , si cercano nuovi mercati e si cerca di “sfondare” in paesi come la Russia, gli Stati Uniti e tanti altri. Con le difficoltà burocratiche e le incertezze dei mercati che la cosa comporta.

A mio modesto avviso, fisiologicamente non abbiamo necessità di un consumo di tante proteine di origine animale, eventualmente solo di un’integrazione, anche a seconda dell’età e del tipo di attività fisica lavorativa che si svolge.

Sono convinta che l’agricoltura ha solo da avvantaggiarsi del concime animale, e della presenza fisica dell’animale sui terreni, magari a rotazione, ma non della quantità di letame e liquami che attualmente vengono prodotti, inquinando sempre più le falde acquifere e l’atmosfera o, in alternativa, comportando un costo esorbitante per lo smaltimento, con depuratori che raramente funzionano secondo le ottimistiche previsioni con cui furono costruiti.

Da parte di alcune frange di consumatori, si sta creando attorno all’allevamento intensivo un movimento di opinione, che punta il dito sulla sofferenza che questo ingenera in esseri viventi che condividono con noi questo passaggio sulla nostra bella e martoriata Madre Terra e sui danni di natura ecologica da esso causati.

Si stanno infatti diffondendo un vegetarismo e un veganesimo per motivi etici, per evitare in assoluto la sofferenza che deriva dal cosiddetto “sfruttamento” che sarebbe insito nell’appropriarsi di qualsiasi prodotto animale.

Io sono invece per un riequilibrio (ovvio che questo concetto è soggettivo), sono per un ritorno ai consumi che c’erano fino agli anni ‘50 del secolo scorso, prima dell’avvento dell’allevamento industriale, in una simbiosi mutualistica fra uomo e animale: l’uomo può offrire protezione e qualche piccola quantità di alimento supplementare all’animale, prendendo in cambio una piccola quota di prodotto e questo tipo di rapporto potrebbe valere anche per gli animali da compagnia, che dovrebbero essere lasciati liberi di vivere in maniera più naturale, ed, in questo sistema, potrebbero anche loro svolgere ancora compiti di una qualche utilità e non solo stare seduti sui nostri salotti come oggi avviene in massima parte.

Il tutto poi va visto in un’ottica di riduzione dei consumi e di abolizione degli sprechi, imparando ad accontentarci di quel che ci è necessario senza rincorrere beni superflui, riscoprendo la solidarietà verso tutti gli esseri viventi, umani e non, e riappropriandoci delle nostre innate ma dimenticate capacità di sopravvivenza, pensando al futuro nostro e del pianeta.

Caterina Regazzi

venerdì 25 agosto 2017

Il “pizzino” di agosto 2017 de Le Galline Felici

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Inizia il conto alla rovescia… Otto settimane prima di incontrarci nella splendida cornice di Varces (Isère) nei pressi di Grenoble, aux Jardins de Malissoles, nella due giorni in programma dal 30 SETTEMBRE al 1 OTTOBRE.
Meno di 60 giorni anche per l’Incontro Nazionale di Economia Solidale in programma a Mira (VE) nelle stesse date (vedi sotto) 
Si rinnova dunque per il secondo anno consecutivo l’appuntamento in Francia tra quella che aspira a diventare (già, di fatto, è) una comunità allargata tra associazioni di consumatori, cittadini attivi, piccoli produttori locali francesi, belga, italiani e siciliani e il mondo di produttori, pulcini, consumatori, ambasciatori, associazioni culturali e gruppi di acquisto solidali italiani, che direttamente o indirettamente ruotano intorno al Consorzio Siciliano LeGallineFelici, involontario catalizzatore di questo percorso comune. 
Oggetto dell’incontro è quello di stringersi, emozionarsi, divertirsi, conoscersi meglio, allargare e aprirsi ad altri potenziali attori del cambiamento in corso in Italia ed in Europa per continuare a ragionare insieme sul percorso sin qui avviato, sui risultati ad oggi conseguiti e progettare assieme gli scenari futuri. 
Si parte dal racconto reciproco di chi siamo, di ciò che produciamo, del come lo facciamo e di cosa scegliamo di mangiare e perché, per poi allargare i nostri orizzonti e alzare l’asticella su tematiche strategiche che delineeranno le nostre scelte di vita e di campo negli anni futuri. 
Forti dei piccoli e meno piccoli concreti risultati conseguiti in questi anni, a Varces ragioneremo e progetteremo insieme su: 
  • ·         Il concreto avvio della costituzione di un’ associazione  che possa farsi carico di tutte queste tematiche, parallela al Consorzio, ma da questo autonoma e indipendente, come già ampiamente discusso nel  Maggio scorso a Librino (CT) in occasione della FestAssemblea della Comunità Internazionale LeGallineFelici e dell’incontro tra 14 associazioni di consumatori francesi e belga per la firma del patto sulla coproduzione di avocados col Consorzio e con 5 nuovi soci.
  • ·         La sostenibilità delle produzioni, i bisogni reciproci di chi produce e di chi acquista, la genuinità e la salubrità dei cibi.
  • ·         Il consumo dei territori prima abbandonati e poi svenduti a chi non ha una visione collettiva ed è incapace di sognare il bene comune.
  • ·         Il senso di “comune”.
  • ·         Un’integrazione intelligente nelle aziende dei nostri circuiti dei nostri fratelli migranti scampati alla morte in mare, in controtendenza al clima di chiusura e intolleranza verso coloro che ci chiedono aiuto.
  • ·         Una comunicazione più efficace e incisiva che consenta di far conoscere in modo diffuso e al di fuori delle nostre reti, tutti quegli esempi concreti di uomini e donne che hanno scelto di agire insieme, che raccontano di buone pratiche da replicare all’infinito.
  • ·         L’importanza di intercettare altre esperienze che attuano percorsi virtuosi.
  • ·         Ma anche di nuove forme di comunità, capaci di dirigere le sorti di un territorio ed incidere profondamente nelle vite di tante donne e uomini.
     
A Varces continueremo a praticare la nostra comune “piccola rivoluzione gentile” e a progettarne l’evoluzione, anche attraverso la nuova associazione.
Perché una nuova associazione? Per rendere possibili progetti comuni di più ampio respiro, possibili solo attraverso l’unione delle molteplici energie e competenze di numerosi soggetti.
Poiché abbiamo verificato che l’unione di più persone che desiderano fortemente il cambiamento, crea un effetto di moltiplicazione e non di mera somma delle forze in campo. 
Ormai da qualche anno, da quando qualche chilo di arance ha colorato una bella tavola nel cuore di Parigi, si è ulteriormente rafforzata la nostra convinzione che si stessero gettando le basi di qualcosa che andasse oltre la risposta al nostro legittimo bisogno di vendere ad un prezzo equo i nostri prodotti, frutto dei nostri sacrifici, passione e radicamento ai rispettivi territori. 
E’ stato chiaro, sin dai primi incontri con molti di voi, prima in Italia, poi nelle diverse città francesi e belga e nelle piccole periferie, che la voglia di affermare e consolidare un modello improntato sulla fiducia, sull’amicizia, sul rispetto e sull’agire comune, fosse il tema prioritario per tutti gli interlocutori. 
Tanta l’energia nata da questi incontri, tanta la fatica di trovare un linguaggio comune in cui riconoscerci tutti, ma tanta la voglia di esserci e di continuare a contaminare anche altra gente che ha voglia di mettersi in gioco per vivere (e far vivere) meglio e lasciarsene contaminare e arricchire.

Negli stessi giorni della Festa di Varces, in contemporanea non voluta, si svolgerà a Mira (VE), all’interno del Festival “Si PUO’ FARE”, l’Incontro Nazionale di Economia Solidale (INES) che ruoterà attorno agli stessi temi: la costruzione di comunità capaci di futuro. 
Durante INES si celebrerà il fidanzamento tra 7 realtà dell’alternativa in Italia che “… hanno condiviso la necessità di avviare un percorso comune finalizzato alla creazione di un “ecosistema di soggetti” (in rete) che ci permetta, valorizzando le rispettive vocazioni e sensibilità, di creare sinergie, collaborazioni e poter così raggiungere insieme traguardi che sarebbero impensabili per le singole realtà."
Questi i 7 soggetti coinvolti in questo “fidanzamento”: Associazione per la Decrescita - Economia del Bene Comune - Italia che Cambia - Movimento per la Decrescita Felice - Panta Rei - Rete italiana di Economia Solidale (RES Italia) - Rete Italiana Villaggi Ecologici (RIVE)
CI PARE UNA GRAN BELLA NOTIZIA! 
Noi a Mira ci saremo e ci piacerebbe molto che i due eventi di Varces e di Mira fossero in qualche modo collegati, per scambiare mutualmente le esperienze al di qua e al di là delle Alpi e costituire e rafforzare altre alleanze in controtendenza a questa Europa disumana. 
Vedremo nei prossimi giorni se e come questo sarà possibile… 
E allora…. Non resta che iniziare a condividere, a coinvolgere e a dare tutti il nostro contributo perché le ore che ci vedranno assieme, a Varces come a Mira, producano il massimo di risultati concreti nella costruzione delle alternative possibili e praticabili già da ieri.

…..sempre cercando di divertirci mentre ci sobbarchiamo il compito di cambiare, tutti assieme, la storia….almeno fin dove possiamo arrivare con le nostre misere forze… 
…ma TUTTI ASSIEME?

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Info: pennepiume@legallinefelici.bio

giovedì 24 agosto 2017

Spilamberto, 23 settembre 2017 - Con TING al Panarock per il ben-essere


Nessun testo alternativo automatico disponibile.

Salve a tutti! Felice di invitarvi alla nostra speciale inaugurazione che avverrà Sabato 23 Settembre 2017, dalle ore 16, presso il PANAROCK in via Ponte Marianna al 35 Spilamberto!

Quest'anno abbiamo voluto allargare, estendere il nostro concetto di BEN-ESSERE, includendo la musica, la danza, la recitazione, la conferenza, il buon cibo naturale, e trattamenti offerti con contributo minimo da operatori
BIO NATURALI appartenenti alla nostra associazione.

 La conferenza in cui parteciperanno due grandi della medicina integrata e cioè la Dottoressa Sabine Eck e la Dottoressa Marcella Brizzi sarà una domanda provocotoria e riflessiva al contempo: "IL BEN- ESSERE è LA GIOIA DI VIVERE?"

E' nostro desiderio diffondere il messaggio del benessere legato alla gioia del vivere, in questi tempi in cui terrorismo, allarmismo, paura, sofferenza, e molto altro di pesante regnano su di noi, facendoci perdere di vista la bellezza del vivere, il gusto della vita! 

Vi aspettiamo, ricordandovi di prenotare al più presto, essendo un luogo con posti limitati e per ragioni di sicurezza è meglio rispettare le regole. Vi ricordo che verrà offerto, inclusa nella contribuzione richiesta per l'evento anche un break preparato da Anna Bononcini, cuoca e naturopata, la tessera e ovviamente gli spettacoli e la conferenza

Grazie di cuore dallo staff del Centro Studi Discontinuo- Ting Spilla - un abbraccio!!!

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TING SPILAMBERTO / Centro Studi Discontinuo 
sede di Spilamberto dell’associazione Ting-Spazzavento
Via S.Adriano, 13
41057 Spilamberto (MO) 
pagina facebook: Ting Spilamberto

mercoledì 23 agosto 2017

Denaro sterco di satana?


"Il denaro è lo sterco di Satana" è una affermazione così
grossolanamente schematica da risultare falsa.


Il problema non sono i soldi, bensì il loro controllo.


L'essere umano è strutturalmente un animale sociale, in quanto incapace a sopravvivere da solo, pertanto vive organizzato in gruppi, nei quali si scambiano i prodotti, non esistendo l'autosufficienza singolare.

Quando, con le dimensioni della rete di relazioni, si passa dal baratto diretto a quello indiretto, sorge il problema della unità di conto dei debiti/crediti provvisori delle merci scambiate: io do 20 uova a te perché ho bisogno di 20 mele in cambio, ma tu non hai le mele, le potrò avere da Gigi, quindi ci serve una unità di conto socialmente accettata a testimoniare che ti ho dato le 20 uova, e il certificato di conto lo chiamiamo denaro.


Il problema è che siccome questa speciale merce "certificato di scambio" serve a tutti, allora l'operazione della sua produzione e distribuzione deve essere sotto il controllo di tutti.


Invece, di quel controllo se ne sono appropriati di banchieri, i quali, ovviamente, agiscono nel proprio specifico interesse, il che va a danno degli altri, in mille forme, come temeva esplicitamente Thomas Jefferson.


Tuttavia, il problema è risolvibile qualora si constati che il monopolio sul denaro da parte dei banchieri è fittizio, si fonda su una illusione culturale fraudolenta, l'illusione che solo loro abbiano il potere di crearlo ed emetterlo.


Il che non è affatto vero.


Il denaro può venire autoprodotto da chiunque abbia provveduto a creare un bacino di accettazione convenzionale del medesimo, trattandosi di una merce a costo materiale pressoché nullo, visto che è non valore bensì certificato di valore, ed un certificato richiede solo il requisito di essere riconosciuto dagli accettanti.


La soluzione ottimale, dunque, è che il denaro ritorni ad essere prodotto e distribuito da un organismo che agisca in nome e per conto del popolo, sotto il controllo democratico del popolo.


Il che equivale al recupero della sovranità monetaria.


In mancanza di attuazione di tale soluzione, si può provvisoriamente decidere di produrre ed emettere denaro autonomo parallelo, valido entro il bacino di accettanti, emesso sotto il controllo dei medesimi.


Sono già esistiti diversi esperimenti riusciti, in questo senso, come quelli di Silvius Gesell in Svizzera, il Simec di Auriti, il credito di Airaudi, il wir svizzero (che sopravvive operativo ormai da settant'anni), lo scec, e tanti altri, in Italia come in varie altre nazioni del mondo.


In attesa di riappropriazione pubblica della sovranità monetaria del popolo è necessario ampliare e diffondere questo genere di interventi paralleli.

Sarvamangalam  (Alias Vincenzo Zamboni)




Articolo Collegato:
http://riciclaggiodellamemoria.blogspot.it/2015/08/rothschild-il-cazaro-che-si-fece-ebreo.html

martedì 22 agosto 2017

Parla Tashi... intervista ad una monaca buddista


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Chi è Ciampa Tashi?
Ciampa Tashi è, prima di tutto, una persona, poi una donna che ha deciso di intraprendere un percorso che ha come obiettivo l’essere felice. Dato che nelle precedenti esperienze di questa ricerca non ho tratto dei risultati soddisfacenti, ho compreso che dalle relazioni, dalle cose, dalle situazioni, dalle condizioni esterne non si può ottenere una felicità duratura, anzi possiamo dire che la felicità ottenuta da questi fattori esterni è provvisoria, pertanto non è qualcosa su cui fare affidamento.
L’unica cosa su cui fare affidamento è il proprio addestramento mentale che riesce a trasformare le vicissitudini della vita, le difficoltà e le situazioni, in qualcosa che è di beneficio, come fosse una medicina. Le medicine a volte sono piacevoli altre volte non lo sono, però l’obiettivo di una medicina è quella di curare, il significato della cura è quello di uscire da uno stato di malessere per arrivare ad uno stato di benessere, che è la salute, in questo caso si tratta della felicità. Quindi, la mia strada, il mio percorso, nasce nel momento in cui ho perso la fiducia verso i fattori esterni che arrivavano e ho cominciato a prendere fiducia nell’addestramento mentale chiaramente con l’aiuto di guide, studi e pratica che ho cominciato a fare da oltre 12 anni, partendo dalla meditazione.

Com’è strutturata la tua giornata?
La mia giornata inizia con la preghiera e la meditazione sin dalle prime ore del mattino, circa 4:30.
Vivo in un istituto che è un centro di studi buddhisti in Toscana, a Pomaia in provincia di Pisa e non avendo la possibilità di vivere in un monastero perché in Occidente non ci sono monasteri femminili della tradizione del buddhismo tibetano Ghelupa. Le scuole tibetane sono quattro, questa discende dalla scuola di Lama Tzong Khapa.
Quindi la mia giornata prevede sin dal mattino, dopo le varie cure del corpo, nel preparare l’altare, tutte le mattine. L’altare si prepara riempiendo sette ciotole contenenti offerte che sono: acqua da bere, acqua per lavarsi, fiori, incenso, una candela, acqua profumata e del cibo. Le offerte le preparo ogni mattina e le tolgo la sera.
Mi siedo davanti all’altare e faccio le mie preghiere che siano di beneficio per tutti gli esseri viventi. Poi passo alla meditazione della durata di circa 30-40 minuti, poi inizio gli esercizi di yoga: i Cinque Riti Tibetani e altre posture della durata di circa 20 minuti; continuo con altre preghiere fino ad arrivare alle otto. Alle otto faccio una colazione abbondante.
Dopo la colazione preparo le cose per la mattina; alle dieci salgo in sala meditazione dove ci sono le preghiere insieme ad altre monache e monaci oltre ai laici che prendono parte al percorso di studi che dura sette anni che si chiama Masters Program. Si tratta di un corso ispirato al programma di studio per i ghesce tibetani adottato dalle università monastiche in India , le stesse trasferitesi dal Tibet dopo l’invasione cinese.
Il programma prevede di studiare approfonditamente i testi della tradizione buddhista studiando i dettagli con le spiegazioni, attraverso l’aiuto fondamentale di un ghesce, cioè un Lama che è un professore: ghesce è colui che ha preso un dottorato in teologia buddhista e ha alle spalle ventidue anni di studio.
Alle 10:30 arriva il Maestro, sono presenti tutti gli allievi e i traduttori che traducono dal tibetano all’italiano e inglese.
Questo fino alle 12,30.
Il pomeriggio si studia ciò che è stato trattato al mattino o si memorizzano definizioni o parti del testo e alle 17:30 si ha l’incontro con il tutor con il quale si riprendono le parti difficili e le spiegazioni del testo che sono state fatte nella mattinata, si finisce alle 19:30.
Poi, insieme ai monaci, si fanno delle preghiere particolari fino alle 20, infine ognuno si ritira nel proprio alloggio. Generalmente non si cena, per rimanere leggeri la mattina dopo.

A tuo parere, cos’è che affligge l’uomo d’oggi?
L’insoddisfazione dovuta all’illusione che i fattori esterni possano essere fonte di felicità e di serenità, in realtà avviene tutto il contrario. Più si hanno desideri, più si ha difficoltà a realizzarli e più si è infelici. Oggi la società dei consumi ci dà l’illusione e ci mette di fronte ad una modalità che non funziona.
Non funziona perché pensiamo che comprando un nuovo smartphone, una nuova macchina, avendo una bella casa e una immagine bella del nostro corpo, e tutte queste cose, si possa essere in grado di ottenere la felicità, mentre invece non è così.  Questo comporta la delusione nel constatare che questa modalità non rende felici; pensando che si è sbagliato a scegliere la macchina, la persona, ecc…, si produce un circolo vizioso causato dal pensare che la felicità dipenda da questi fattori esterni.

Quando avviene il punto di svolta?
Quando si comprende che le cose stanno così e che questo metodo non funziona. È un risveglio, un disincanto, che ci mette nelle condizioni di dire: ”Non è così che avviene la felicità”. E allora ti rendi conto che è necessario cambiare il modo di ricercare la felicità. Questo proviene proprio dall’accettare che il metodo adottato sino ad ora non funziona, quindi cambi la ricetta, ma questo non avviene sempre, è un atto di coraggio e umiltà che si accendono attraverso l’onestà verso se stessi.

Quindi, per raggiungere la felicità, bisogna abbandonare tutto? Staccarsi da tutto?
Non è proprio così, perché questo deve essere una conseguenza. Un po' come quando nella nostra infanzia abbiamo lasciato i nostri giocattoli.
Quando verso i dieci, dodici anni, abbiamo lasciato i nostri giocattoli, inizialmente questi oggetti erano fonte della nostra gioia, del nostro divertimento ed eravamo attaccati ad essi, ma a un certo punto succede qualcosa, inizia un processo di cambiamento inconsapevole, avviene chespontaneamente si abbandonano quei giochi ed è stata solo la cura dei nostri genitori che ha fatto in modo che quei giocattoli siano stati messi via, regalati, venduti o buttati. Questo è stato il passo della nostra adultità, che è l’abbandono della fase infantile avvenuto spontaneamente, perché quei giocattoli non ci soddisfacevano più; non abbiamo pianto, non abbiamo sentito un senso di perdita, sono stati lasciati come quando un serpente lascia la sua pelle, ora ne ha una nuova; quindi non c’è rinuncia, non c’è rimpianto, ma c’è rinnovamento e cambiamento, è progresso verso il futuro.
Noi non possiamo decidere di lasciare gli attaccamenti, questo non avviene per un atto di volontà.
Lasciare i nostri attaccamenti e le nostre avversioni è il prodotto di una conseguenza che proviene dalla nostra crescita interiore. Ho visto persone che pensavano che dal lasciare i propri attaccamenti ne avrebbero avuto un vantaggio e della felicità, perché pensavano che questa liberazione avrebbe comportato la realizzazione della felicità che desideravano raggiungere, ma poi, qualche mese dopo, hanno rimpianto il passo fatto, proprio perché non era ancora pronta quella condizione di abbandono, quindi ne hanno sofferto.
L’abbandono dell’attaccamento, ad esempio l’abbandono all’attaccamento per i vestiti, non vuol dire andare in giro nudi; vuol dire non pensare più erroneamente che i vestiti siano la fonte della nostra felicità, questa è la realizzazione di una libertà interiore.

Hai accennato attaccamento ed avversione, ci spieghi meglio di cosa si tratta?
Ogni essere, umano, animale o altri esseri che noi non vediamo, hanno il segreto della mente. Questo significa che in ogni essere dimorano due desideri congiunti: il desiderio di essere felici e il desiderio di non provare sofferenza. Questo è presente in tutti gli esseri; dall’inizio della giornata noi produciamo azioni che hanno come obiettivo quello di realizzare questi due desideri. Pertanto, nel momento in cui adottiamo la felicità come obiettivo, pensiamo che questo provenga da qualcosa, quindi succede che rimaniamo attaccati ad oggetti (persone, situazioni) pensando che ci possano dare la felicità ed adottiamo l’avversione perché pensiamo che essa ci possa difendere dalla sofferenza, in realtà questi due fattori mentali sono illusori e fallimentari perché non realizzano il desiderio di essere felici e di non sperimentare la sofferenza, ottengono il risultato opposto.
L’attaccamento, lo dice la parola stessa, è una catena, è una prigione, è una mancanza di libertà.
Attaccamento e avversione sono due facce della stessa medaglia: se ho attaccamento, per esempio, a stare in casa, a vedere la televisione o a leggere un libro, a non sentire le persone e chiudermi in questa quiete dove non ci sono problemi con nessuno; contemporaneamente, dall’altra parte della medaglia, sorge l’avversione a uscire, ad incontrare persone e a fare delle attività con la paura di soffrire. In questo modo creiamo la nostra prigione.
Quindi, l’attaccamento e l’avversione provengono da un’unica matrice, l’ignoranza, che non è una mancanza di conoscenza, ma è ignorare come sono le cose. Attraverso questa ignoranza che identifica il nostro io, il nostro ego, adottiamo attaccamento e avversione con la speranza di essere felici e non sperimentare la sofferenza. Questo meccanismo, se non si realizza il disincanto, perdura fino alla morte, solo in quel momento saremo liberi sia dall’attaccamento che dall’avversione, perché abbandoneremo il nostro corpo e con esso la concezione dell’io.

Quale messaggio vorresti fosse colto dalle persone che leggeranno questa intervista?
Il mio desiderio è che le persone comprendano che abbiamo bisogno di svegliarci da questo torpore e da questa illusione, in quanto non è questo modo di vivere che ci condurrà alla serenità.
Svolgo varie attività, oltre allo studio, vado nelle carceri a Livorno una volta a settimana per due ore per tenere un incontro di meditazione con i detenuti. Mi sposto in diverse città, dove vengo invitata, e vado a Livorno in due centri per svolgere meditazioni, proprio per insegnare alle persone a gestire la propria mente. Il mio desiderio è che le persone si sveglino dalla illusione e comincino a capire che questa vita non dura così tanto come si pensa e che ogni secondo che passa perdiamo l’occasione, se non facciamo qualcosa, per essere felici; perché questo problema (ndr: l’illusione) lo abbiamo in questa vita, lo avremo nelle prossime, fintanto che non cambieremo il modo di vedere le cose.
Nel momento della morte, l’unica cosa che sarà mantenuta è il nostro percorso mentale, tutto il resto verrà perso inevitabilmente, non esistono casse funebri con il portabagagli e neppure carte di credito valide nella vita futura.

In questo periodo, come in altri d’altronde, l’umanità sta vivendo momenti di paura collettiva. Ci puoi dire qualcosa in merito alla paura?
Nella nostra filosofia vengono abbandonate quelle che sono la paura e la speranza.
La paura di sperimentare la sofferenza e di essere in difficoltà è qualcosa che è attinente al passato, perché abbiamo fatto l’esperienza della sofferenza e non vorremmo più ritrovarla.
Nel frattempo la speranza è qualcosa che attiene al futuro, cioè al desiderio che qualcosa che ci interessa e che ci piace si possa realizzare di nuovo, ma il futuro ancora non esiste.
Pertanto, la paura attiene al passato, la speranza al futuro.
Il passato non c’è più, quindi non esiste.
Il futuro non esiste perché deve ancora venire.
L’unica cosa che esiste è questo momento; è quello che sto programmando nel presente che darà risultati nel futuro. Quindi nel buddhismo causa/effetto (Detto anche: sorgere dipendente) è la base di qualsiasi cosa e il presente è l’unico momento per praticare il metodo. Paura e speranza vengono abbandonati perché non esistono e, come diceva Einstein, la vera follia è fare la stessa azione sperando di ottenere un risultato diverso. La stessa azione darà sempre lo stesso risultato, sperare in un qualcosa di diverso è utopia. Le persone praticano l’attaccamento perché non sono fiduciosi verso la propria pratica e quindi sperano che accada qualcosa dall’esterno per farle uscire dallo stato di sofferenza.
La paura della sofferenza deve essere abbandonata perché in questa vita sperimenteremo comunque la sofferenza in quanto abbiamo un corpo,esso porta in sè la natura della sofferenza, sperimenteremo inevitabilmente malattie, disagi, invecchiamento e così via, questo cesserà solo al momento della morte.
Mentre la speranza è attinente al desiderio di realizzare in futuro la felicità, ma in questo momento il futuro non esiste, quindi sorgono soltanto aspettative illusorie; anch'esse sono sofferenza, perché difficilmente si realizzeranno così come le desideriamo ora.
L’unica cosa che porta un vero beneficio è l’addestramento della mente, ovvero l’essere in grado di trasformare le avversità quotidiane, così come il letame diventa concime.

Contatti: aniciampatashi@gmail.com - Cellulare: 338 404 743

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