lunedì 3 luglio 2017

La poesia di Giorgio Caproni recensita da Franca Oberti


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In un momento in cui Giorgio Caproni, saltato agli onori della cronaca per essere diventato materia di esami di maturità, voglio riproporre questo testo che riassume alcune particolarità della sua vita e offre un esempio della sua poetica. (n.d.r.)

Uno dei massimi poeti del novecento nasce a Livorno il 7 Gennaio 1912. Di origini modeste, il padre Attilio è ragioniere e la madre, Anna Picchi, sarta, Giorgio Caproni scopre precocemente la letteratura attraverso i libri del padre, tanto che a sette anni scova nella biblioteca paterna un'antologia dei Poeti delle Origini (i Siciliani, i Toscani), rimanendone irrimediabilmente affascinato e coinvolto. Nello stesso periodo si dedica allo studio della Divina Commedia, dalla quale si ispira per "Il seme del piangere" e "Il muro della terra".

DOPO LA NOTIZIA

Il vento… È rimasto il vento.
Un vento lasco, raso terra, e il foglio
(quel foglio di giornale) che il vento
muove su e giù sul grigio
dell’asfalto. Il vento
e nient’altro. Nemmeno
il cane di nessuno, che al vespro
sgusciava anche lui in chiesa
in questua d’un padrone. Nemmeno,
su quel tornante alto
sopra il ghiareto, lo scemo
che ogni volta correva
incontro alla corriera, a aspettare
– diceva – se stesso, andato
a comprar senno. Il vento
e il grigio delle saracinesche
abbassate. Il grigio
del vento sull’asfalto. E il vuoto.
Il vuoto di quel foglio nel vento
analfabeta. Un vento
lasco e svogliato – un soffio
senz’anima, morto.
Nient’altro. Nemmeno lo sconforto.
Il vento e nient’altro. un vento
spopolato. Quel vento,
là dove agostinianamente
più non cade tempo.

Nel periodo della Prima Guerra Mondiale si trasferisce insieme alla madre e al fratello Pierfrancesco (più vecchio di lui di due anni) in casa di una parente, Italia Bagni, mentre il padre è richiamato alle armi. Sono anni duri, sia per motivi economici sia per le nefandezze della guerra che lasciano un profondo solco nella sensibilità del piccolo Giorgio.
Finalmente nel 1922 terminano le amarezze, prima con la nascita della sorellina Marcella, poi con quello che sarà l'avvenimento più significativo nella vita di Giorgio Caproni: il trasferimento a Genova, che lui definirà "la mia vera città".

Fedele alla rima e ai metri della tradizione (che è all’inizio quella ottocentesca), capace di una musica “vibrante, risentita e aggrondata” (disse Pier Paolo Pasolini), Giorgio Caproni ha espresso nella sua poesia l’intensa aspirazione al recupero dei valori fonici e formali che lo accomuna a Betocchi e Saba. La poesia di Caproni matura con gradualità, attraverso fasi complesse e notevolmente articolate. Parte da modelli pre-ermetici, ma è rapito dalla suggestione della proposta sabiana di prosaicità e l’influsso della “linea ligure”, in particolare di Sbarbaro. Si indirizza, però, verso una sorta di “epopea casalinga”, concentrata su sentimenti e luoghi famigliari e quotidiani. Si avvicina, nel tempo all’ermetismo di Gatto e Luzi, più per gli usi metrici, abbandona dunque il lirismo e approda a “esiti decisamente narrativi”. Tutto coincide coi temi autobiografici, pur consapevole dell’illusorietà della poetica nel reale. Il suo stile personalissimo, parte da un’accurata ricostruzione della metrica tradizionale, rinnovata, però, immediatamente e trasfigurata dall’interno. Frequenti le inversioni sintattiche e gli enjambements che danno vita a un ritmo pausato e musicalmente cadenzato, mentre l’uso cospicuo di rime, assonanze e consonanze, talora dissimulate tal’altra chiaramente in vista, e gli attacchi esclamativi e sonanti, contribuiscono a rendere quella “strascicata e trascinante dolcezza nevrotica” che soprattutto Raboni ha messo in luce. I temi della poesia di Caproni sono pochi, ma strettamente intrecciati e connessi fino a formare una tessitura inscindibile; possono essere ridotti sostanzialmente a tre: la città, la madre e il viaggio.
Il rapporto con la madre è quasi edipico e la ritroviamo spesso nelle sue poesie, in modi e tempi diversi.

L’ASCENSORE DI CASTELLETTO

Quando mi sarò deciso
d'andarci, in paradiso
ci andrò con l'ascensore
di Castelletto, nelle ore
notturne, rubando un poco
di tempo al mio riposo.

Ci andrò rubando (forse
di bocca) dei pezzettini
di pane ai miei due bambini.
Ma là sentirò alitare
la luce nera del mare
fra le mie ciglia, e... forse
(forse) sul belvedere
dove si sta in vestaglia,
chissà che fra la ragazzaglia
aizzata (fra le leggiadre
giovani in libera uscita
con cipria e odor di vita
viva) non riconosca
sotto un fanale mia madre.

Con lei mi metterò a guardare
le candide luci sul mare.
Staremo alla ringhiera
di ferro - saremo soli
e fidanzati - come
mai in tanti anni siam stati.
E quando le si farà a puntini,
al brivido della ringhiera,
la pelle lungo le braccia,
allora con la sua diaccia
spalla se n'andrà lontana:
la voce le si farà di cera
nel buio che la assottiglia,
dicendo "Giorgio, oh mio Giorgio
caro: tu hai una famiglia".

E io dovrò ridiscendere,
forse tornare a Roma.
Dovrò tornare a attendere
(forse) che una paloma
blanca da una canzone
per radio, sulla mia stanca
spalla si posi. E alfine
(alfine) dovrò riporre
la penna, chiuder la càntera:
"È festa", dire a Rina
e al maschio, e alla mia bambina.

E il cuore lo avrò di cenere
udendo quella campana,
udendo sapor di tegole,
l'inverno dell'acqua piovana.
*

Ma no! se mi sarò deciso
un giorno, pel paradiso
io prenderò l'ascensore
di Castelletto, nelle ore
notturne, rubando un poco
di tempo al mio riposo.

Ruberò anche una rosa
che poi, dolce mia sposa,
ti muterò in veleno
lasciandoti al pianterreno
mite per dirmi: "Ciao,
scrivimi qualche volta",
mentre chiusa la porta
e allentatosi il freno
un brivido il vetro ha scosso.

E allora sarò commosso
fino a rompermi il cuore:
io sentirò crollare
sui tegoli le mie piú amare
lacrime, e dirò "Chi suona,
chi suona questa campana
d'acqua che lava altr'acqua
piovana e non mi perdona?".
E mentre, stando a terreno,
mite tu dirai: "Ciao, scrivi",
ancora scuotendo il freno
un poco i vetri, tra i vivi
viva col tuo fazzoletto
timida a sospirare
io ti vedrò restare
sola sopra la terra:

proprio come il giorno stesso
che ti lasciai per la guerra.

Terminate le scuole medie, s'iscrive all'Istituto musicale "G. Verdi", dove studia violino. A diciotto anni rinuncia definitivamente all'ambizione di diventare musicista e s'iscrive al Magistero di Torino, ma presto abbandona gli studi.
Inizia in quegli anni a scrivere i primi versi poetici, ma poi, non soddisfatto del risultato ottenuto, strappa i fogli e getta via tutto. E' il periodo degli incontri con i nuovi poeti dell'epoca: Montale, Ungaretti, Sbarbaro. Rimane colpito dalle pagine di "Ossi di seppia", al punto di affermare: "... saranno per sempre parte del mio essere."

Nel 1931 decide di inviare alcuni suoi componimenti alla rivista genovese "Circolo", ma il direttore della testata, Adriano Grande, li rifiuta invitandolo alla pazienza, quasi a dire che la poesia non era adatta a lui.

Due anni dopo, però, pubblica le sue prime poesie, "Vespro" e "Prima luce", su due riviste letterarie e, a Sanremo, dove si trova per il servizio militare, coltiva alcune amicizie letterarie: Giorgio Bassani, Fidia Gambetti e Giovanni Battista Vicari. Comincia anche a collaborare con riviste e quotidiani pubblicando recensioni e critiche letterarie.
Nel 1935 inizia ad insegnare alle scuole elementari, prima a Rovegno, in Val Trebbia, poi ad Arenzano.

La morte della fidanzata Olga Franzoni nel 1936 dà lo spunto alla piccola raccolta poetica "Come un'allegoria", pubblicata a Genova da Emiliano degli Orfini. La tragica scomparsa della ragazza, causata da setticemia, provoca una profonda tristezza nel poeta come testimoniano molti suoi componimenti di quel periodo, tra cui vanno ricordati i "Sonetti dell'anniversario" e "Il gelo della mattina".

AD OLGA FRANZONI (in memoria)

Questo che in madreperla
di lacrime nei tuoi morenti
occhi si chiuse chiaro
paese,
ora che spenti
già sono e giochi e alterchi
chiassosi, e di trafelate
bocche per gaie rincorse
sa l’aria, e per scalmanate
risse,
stasera ancora
rimuore sfocando il lume
nel fiume, qui dove bassa
canta una donna china
sopra l’acqua che passa.


Le città amate fanno costantemente da sfondo alle sue poesie, Livorno e Genova, mentre Roma, a mio avviso, rimane un luogo in cui tocca vivere.

Nel 1938, dopo la pubblicazione di "Ballo a Fontanigorda" per l'editore Emiliano degli Orfini, sposa Rina Rettagliata; ma la sua vita è un continuo spostamento. Deve rimanere a Roma per qualche mese e l’anno seguente sarà anche richiamato alle armi; nel maggio del 1939 nasce la sua primogenita.
Allo scoppio della guerra verrà inviato sul fronte delle Alpi Marittine e poi in Veneto.

Avanti! Ancòra avanti!"
urlai.
Il vetturale
si voltò.
"Signore,"
mi fece. "Più avanti
non ci sono che i campi.


La bellezza dei suoi versi sta proprio nelle “cose”, nel suo animarle e renderle immagine. Di poesie come quella appena letta ne ha scritte tantissime e ognuna illustra con le lettere dell’alfabeto una vignetta, un quadretto.
Nel 1943 viene pubblicata una sua opera da un curatore di rilevanza nazionale. “Cronistoria” viene stampata da Vallecchi di Firenze, uno dei più noti editori dell’epoca.
Anche i fatti della guerra hanno gran rilevanza per la vita del poeta che trascorre in Val Trebbia, in zona partigiana, i diciannove mesi che precedono la Liberazione.
Il suo rapporto con Dio è controverso e cambia col passare degli anni, ma si dichiara sempre ateo.

Preghiera d'esortazione o d'incoraggiamento

Dio di volontà,
Dio onnipotente, cerca
(sfòrzati), a furia d'insitere
-almeno- d'esistere

Nell'ottobre del 1945 rientra a Roma dove resterà fino al 1973 svolgendo l'attività di maestro elementare. Nella capitale conosce vari scrittori tra cui Cassola, Fortini e Pratolini, e instaura rapporti con altri personaggi della cultura (uno su tutti: Pasolini).
La produzione di questo periodo è basata soprattutto sulla prosa e sulla pubblicazione di articoli relativi a vari argomenti letterari e filosofici. In quegli anni aderisce al Partito Socialista e nel 1948 partecipa a Varsavia al primo "Congresso mondiale degli intellettuali per la pace".

Sassate

Ho provato a parlare.
Tutte frasi sbagliate.
Forse, ignoro la lingua.
Le risposte: sassate.

Nel 1949 torna a Livorno alla ricerca della tomba dei nonni e riscopre l'amore per la sua città natia: "Scendo a Livorno e subito ne ho impressione rallegrante. Da quel momento amo la mia città, di cui non mi dicevo più...".

IL SEME DEL PIANGERE

Quanta Livorno, nera
d’acqua e – di panchina – bianca!

Sperduto sul Voltone,
o nel buio d’un portone,
che lacrime nel bambino
che, debole come un cerino,
tutto l’intero giorno
aveva girato Livorno!

La mamma-più-bella-del-mondo
non c’era più – era via.
Via la ragazza fina,
d’ingegno e di fantasia.

Il vento popolare
veniva ancora dal mare.
Ma ormai chi si voltava
più a guardarla passare?

Via era la camicetta
timida e bianca, viva.
Nessuna cipria copriva
l’odore vuoto del mare
sui Fossi, e il suo sciacquare.


Le attività letterarie di Caproni diventano frenetiche. Nel 1951 si dedica alla traduzione di "Il tempo ritrovato" di Marcel Proust, cui seguiranno altre versioni dal francese di molti classici d'oltralpe. Intanto la sua poesia si afferma sempre di più e vince il Premio Viareggio nel 1952 con "Stanze della funicolare"
(...)
Una funicolare dove porta,
amici, nella notte? Le pareti
preme una lampada elettrica, morta
nei vapori dei fiati – premon cheti
rombi velati di polvere e d’olio
lo scorrevole cavo. E come vibra,
come profondamente vibra ai vetri,
anneriti dal tunnel, quella pigra
corda inflessibile che via trascina
de profundis gli utenti e li ha in balìa
nei sobbalzi di feltro! E’ una banchina
bianca, o la tomba, che su in galleria
ora tenue traluce mentre odora
già l’aria d’alba? E’ l’aperto, ed è là
che procede la corda – non è l’ora
questa, nel buio, di chiedere l’alt.
(...)


Dopo sette anni, nel 1959, pubblica "Il passaggio di Enea". Sempre in quell'anno vince nuovamente il Premio Viareggio con "Il seme del piangere".
Dal 1965 al 1975 pubblica il “Terzo libro ed altre cose”, “Il muro della terra e il "Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee”.

CONGEDO DEL VIAGGIATORE CERIMONIOSO

Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni

precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.

Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.

Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.

Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.

(Scusate. E’ una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare. Ecco.
Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare).

Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo- odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.

Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto s’io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.

Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.

Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, son certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
Scendo. Buon proseguimento.


E' del 1976 la pubblicazione della sua prima raccolta, "Poesie"; nel 1978 esce un volumetto di poesie intitolato "Erba francese".
TOTOR
Place des Vosges.
Un piccione.
Tre o quattro ragazzini
che giocano a pallone.
I giovani sulla panchina.
Studiano medicina
Richelieu consenziente,
Victor Hugo indifferente.

Dal 1980 al 1985 vengono pubblicate molte sue raccolte poetiche ad opera di vari editori.
Nel 1985 il Comune di Genova gli conferisce la cittadinanza onoraria. Nel 1986 viene pubblicato "Il conte di Kevenhüller".

Sull’enciclopedia Garzanti si può leggere: "La sua poesia, che mescola lingua popolare e lingua colta e si articola in una sintassi strappata e ansiosa, in una musica che è insieme dissonante e squisita, esprime un attaccamento sofferto alla realtà quotidiana e sublima la propria matrice di pena in una suggestiva 'epica casalinga'. Gli accenti di aspra solitudine delle ultime raccolte approdano a una sorta di religiosità senza fede.”
Le poesie di Caproni hanno subito molti cambiamenti di stile col passare degli anni. Inizialmente è più fedele alla rima e ai metri della tradizione; Pasolini definisce i suoi versi “vibranti, risentiti e aggrondati”.
Caproni ha espresso nella sua poesia l’aspirazione al recupero dei valori fonici e formali, alle tonalità lievi. Partendo da modelli pre-ermetici, ha risentito dell’influsso della linea ligure, soprattutto di Sbarbaro. In realtà spesso è indirizzato verso una sorta di “epopea casalinga”, che si esprime al meglio nei luoghi famigliari e quotidiani, senza essere provinciale. Col tempo si avvicina all’esmetismo di Luzi, soprattutto per gli usi metrici, quindi passa all’abbandono del lirismo e approda ad esiti più narrativi. Infine, il tardo Caproni risulta essere molto più abile nell’esprimere epigrammi e delimitare i momenti della sua narrazione tra giochi di righe e squadre. Raboni definisce i suoi tanti punti esclamativi, una trascinante dolcezza nevrotica.

Il grande, indimenticabile poeta si è spento il 22 Gennaio del 1990 nella sua casa romana. L'anno dopo veniva pubblicata postuma la raccolta poetica "Res amissa".
Durante un’intervista, nel dicembre del 1972, disse: “Sono partito da una fisicità, da questa immersione, aderenza agli oggetti del paesaggio, anche agli oggetti casalinghi. Un bicchiere per me è importantissimo in quanto è parte della vita di un uomo. Quindi è naturale che, vivendo in un ambiente dove il mare predomina, ci sia entrato più mare che verdura. Solo per questo fatto, non perché nel mare possa aver visto dei simboli speciali. Forse inconsciamente io non sono andato a cercarli. Il mio non è il mare di Leopardi (“Il naugrafar m’è dolce in questo mare”), è sempre un fenomeno fisico, con in più il gusto che danno sempre le città commerciali, le città industriali.”.
Gli viene chiesto di parlare di Genova: “Genova è una città straordinaria (lo posso dire perché non sono genovese) folle, concreta. E dalla concretezza nasce una poesia che svanisce nella luce del Mediterraneo. Nietsche viveva a Genova, lo chiamavano il “piccolo santo” (o santo piccin). Lui ha scritto delle pagine bellissime su Genova. Era suggestionato da questa città, dal suo contrasto spirituale.”

da: Il passaggio d' Enea
(...)
Fu in una casa rossa:
la Casa Cantoniera.
Mi ci trovai una sera
di tenebra, e pareva scossa
la mente da un transitare
continuo come il mare.

Sentivo foglie secche,
nel buio, scricchiolare.
Attraversando le stecche
delle persiane, del mare
avevano la luminescenza
scheletri di luci rare.
Erano lampi erranti
d' ammotorati viandanti.
Frusciavano in me l'idea
che fosse il passaggio d' Enea.

Prosegue Caproni, durante l’intervista: “Ricordo la piazza più bombardata di Genova, questo povero Enea, scappato dall’incendio di Troia, con questo padre sulle spalle e il figlioletto per mano. Vado a capitare proprio in piazza Bandiera, dove venne giù l’ira di Dio, vicino all’Annunziata, mi nacque l’idea del Passaggio di Enea: vedere in quest’uomo il simbolo dell’uomo di oggi. C’era un passato che crollava da tutte le parti, una tradizione che cercava di sostenere come poteva, e un avvenire che aveva bisogno di essere sostenuto e portato per mano. E io vedevo Enea solo, l’uomo solo nella condizione di oggi. Questa era l’ambizione del poemetto di Enea.”
LITANIA
Genova mia città intera.Geranio. Polveriera.
Genova di ferro e aria,
mia lavagna, arenaria.
Genova città pulita.Brezza e luce in salita.
Genova verticale,
vertigine, aria, scale.
Genova nera e bianca.Cacumine. Distanza.
Genova dove non vivo,
mio nome, sostantivo.
Genova mio rimario.Puerizia. Sillabario.
Genova mia tradita,
rimorso di tutta la vita.
Genova in comitiva.Giubilo. Anima viva.
Genova di solitudine,
straducole, ebrietudine.
Genova di limone.Di specchio. Di cannone.
Genova da intravedere,
mattoni, ghiaia, scogliere.
Genova grigia e celeste.Ragazze. Bottiglie. Ceste.
Genova di tufo e sole,
rincorse, sassaiole.
Genova tutta tetto.Macerie. Castelletto.
Genova d’aerei fatti,
Albàro, Borgoratti.
Genova che mi struggi.Intestini. Caruggi.
Genova e così sia,
mare in un’osteria.
Genova illividita.Inverno nelle dita.
Genova mercantile,
industriale, civile.
Genova d’uomini destri.Ansaldo. San Giorgio. Sestri.
Genova di banchina,
transatlantico, trina.
Genova tutta cantiere.Bisagno. Belvedere.
Genova di canarino,
persiana verde, zecchino.
Genova di torri bianche.Di lucri. Di palanche.
Genova in salamoia,
acqua morta di noia.
Genova di mala voce.Mia delizia. Mia croce.
Genova d’Oregina,
lamiera, vento, brina.
Genova nome barbaro.Campana. Montale. Sbarbaro.
Genova di casamenti
lunghi,
miei tormenti.
Genova di sentina.Di lavatoio. Latrina.
Genova di petroliera,
struggimento, scogliera.
Genova di tramontana.Di tanfo. Di sottana.
Genova d’acquamarina,
area, turchina.
Genova di luci ladre.Figlioli. Padre. Madre.
Genova vecchia e ragazza,
pazzia, vaso, terrazza.
Genova di Soziglia.Cunicolo. Pollame. Triglia.
Genova d’aglio e di rose,
di Prè, di Fontane Marose.
Genova di Caricamento.Di Voltri. Di sgomento.
Genova dell’Acquasola,
dolcissima, usignola.
Genova tutta colore.Bandiera. Rimorchiatore.
Genova viva e diletta,
salino, orto, spalletta.
Genova di Barile.Cattolica. Acqua d’aprile.
Genova comunista,
bocciofila, tempista.
Genova di Corso Oddone.Mareggiata. Spintone.
Genova di piovasco,
follia, Paganini, Magnasco.
Genova che non mi lascia.Mia fidanzata. Bagascia.
Genova ch’è tutto dire,
sospiro da non finire.
Genova quarta corda.Sirena che non si scorda.
Genova d’ascensore,
patema, stretta al cuore.
Genova mio pettorale.Mio falsetto. Crinale.
Genova illuminata,
notturna, umida, alzata.
Genova di mio fratello.Cattedrale. Bordello.
Genova di violino,
di topo, di casino.
Genova di mia sorella.Sospiro. Maris Stella.
Genova portuale,
cinese, gutturale.
Genova di Sottoripa.Emporio. Sesso. Stipa.
Genova di Porta Soprana,
d’angelo e di puttana.
Genova di coltello.Di pesce. Di mantello.
Genova di lampione
a gas,
costernazione.
Genova di Raibetta.Di Gatta Mora. Infetta.
Genova della Strega,
strapiombo che i denti allega.
Genova che non si dice.Di barche. Di vernice.
Genova balneare,
d’urti da non scordare.
Genova di «Paolo & Lele».Di scogli. Fuoribordo. Vele.
Genova di Villa Quartara,
dove l’amore s’impara.
Genova di caserma.Di latteria. Di sperma.
Genova mia di Sturla,
che ancora nel sangue mi urla.
Genova d’argento e stagno.Di zanzara. Di scagno.
Genova di magro fieno,
canile, Marassi, Staglieno.
Genova di grige mura.Distretto. La paura.
Genova dell’entroterra,
sassi rossi, la guerra.
Genova di cose trite.La morte. La nefrite.
Genova bianca e a vela,
speranza, tenda, tela.
Genova che si riscatta.Tettoia. Azzurro. Latta.
Genova sempre umana,
presente, partigiana.
Genova della mia Rina.Valtrebbia. Aria fina.
Genova paese di foglie
fresche,
dove ho preso moglie.
Genova sempre nuova.Vita che si ritrova.
Genova lunga e lontana,
patria della mia Silvana.
Genova palpitante.Mio cuore. Mio brillante.
Genova mio domicilio,
dove m’è nato Attilio.
Genova dell’Acquaverde.Mio padre che vi si perde.
Genova di singhiozzi,
mia madre, Via Bernardo Strozzi.
Genova di lamenti.Enea. Bombardamenti.
Genova disperata,
invano da me implorata.
Genova della Spezia.Infanzia che si screzia.
Genova di Livorno,
partenza senza ritorno.
Genova di tutta la vita.Mia litania infinita.
Genova di stoccafisso
e di garofano,
fisso
bersaglio dove inclina
la rondine: la rima.


Noi genovesi degli anni ’50 abbiamo “respirato” la poetica di Caproni come un tempo si fiutava il tabacco di nascosto e come oggi si sniffa o si fuma uno spinello, una specie di trasgressione, uno sballo. Lui, il mito, cavalcava stupendamente gli anni della sinistra intellettuale, dell’ateismo a volte forzato, ed era un esempio per tanti giovani che si affacciavano alla vita del dopoguerra. Purtroppo non tutto di lui fu imitato: il suo senso civico, la responsabilità verso la famiglia, l’impegno nel lavoro e l’attaccamento ai suoi luoghi, al rispetto per le persone che lì vivevano da generazioni, tutto questo è decaduto come i mille altri valori della nostra società. Scelse di essere seppellito in Valtrebbia, accanto alla sua Rina. A Loco, Rovegno e Montebruno si è creato un centro di cultura in suo nome e un museo dove sono conservati i suoi carteggi. Ogni sua poesia ha riferimenti ben precisi, è stato un poeta concreto in tutti i sensi.
Concludiamo questa carrellata su Giorgio Caproni con due brevissime poesie.


LA VIPERA

E’ vile, ma micidiale.
Le basta, per l’agguato, un sasso.
Per quanto sia cauto il tuo passo
  • attento! – può riuscirti mortale.


LA VITA

Adesca, ma è micidiale.
Le basta, per l’insidia, un sasso.
Per quanto sia cauto il tuo passo,
rasségnati! Ti riuscirà mortale.



Recensione  di Franca Oberti

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