giovedì 30 ottobre 2014

«L’Europa, la Cultura, le Lingue» - Cronistoria di Anna Maria Campogrande

  «L’Europa, la Cultura, le Lingue»                                 
             Cronistoria  di Anna Maria Campogrande          




1.Il progetto europeo.

L’Europa, da più di cinquant’anni, persegue un progetto di integrazione che dovrebbe portare, a medio termine, i Paesi europei a costituirsi come un unico attore politico, economico, culturale, di dimensioni continentali.
Un’analisi critica della storia dell’Europa degli ultimi tre millenni mette in evidenza i punti forti e i punti deboli di questo progetto, vale a dire la colla che può tenere uniti i Paesi europei e le divergenze che possono farlo fallire, se non prese in conto in maniera adeguata.

2. Fattori di coesione.

Uno dei fattori di coesione tuttora presente, ancorato nella coscienza collettiva di una grande parte dei Popoli europei, è costituito dall’eredità della civiltà greco-latina, la filosofia dell’antica grecia, il diritto romano, che sottendono ancora il pensiero di tutte le democrazie occidentali moderne.

Altro elemento di coesione, da non sottovalutare, anche se in tempi non lontani è stato all’origine di terribili conflitti, tra i popoli europei, è il Cristianesimo,  il quale, di recente, ha iniziato, al suo interno, un processo di riconciliazione, non ancora portato del tutto a compimento. Elemento di coesione dell’Europa sono le sue radici nella loro incontestabile dimensione culturale giudeo-cristiana. Questo percorso di riconciliazione, tra Cristiani e tra Cristiani ed Ebrei, in Europa, è di un’importanza fondamentale perché mette in evidenza, nel positivo e nel negativo, il ruolo delle religioni in quanto fattore di coesione sociale. Un fattore di coesione che non è affatto scontato, anche quando esse discendono dallo stesso capostipite ma richiede elaborazione e dialogo.

Sotto questo profilo le parti interessate, vale a dire le popolazioni europee, nel corso dei duemila anni di convivenza nell’era cristiana, hanno imparato a conoscersi, ad apprezzarsi, nel bene e nel male, e possono trovare nel riconoscimento di valori comuni un fattore di unione, precursore di successo del progetto di unificazione europea.  Uno dei molteplici fattori, che non costituisce una  garanzia assoluta, perché   in materia di religione, la convivenza pacifica non si può ottenere con la bacchetta magica, via decisioni puramente teoricche, prese dall’alto, ma implica la compatibilità dell’approccio ai diritti umani, la necessità di aggiustamenti e, anzitutto, l’adozione di posizioni reciprocamente tolleranti, tra le parti coinvolte.

3. Ruolo della cultura.

In fin dei conti, l’elemento chiave di coesione profonda, tra popoli che vogliono vivere e crescere insieme non può essere altro che la cultura, nella sua piena espressione e nei suoi molteplici aspetti. Non già una cultura di facciata, dell’ultim’ora, ma l’elaborazione e la sintesi di un passato, anche a volte conflittuale, consapevolmente e intelligentemente condiviso. In tal senso, quello che può assicurare la riuscita del progetto di integrazione europea sono le tradizioni delle quali tutti gli Europei si sentono eredi, le radici comuni, filosofiche, giurisdizionali, spirituali, linguistiche e culturali, che affondano nell’humus delle civiltà dalle quali proveniamo e nelle quali una grande parte, talvolta tutti, gli Europei si riconoscono.

Oltre all’eredità del mondo greco-latino, della civiltà giudeo-cristiana, già citati, gli Europei si ritrovano e si riconoscono nelle imprese e nella dimensione europea del Sacro Romano Impero, nello splendore del Rinascimento, nello spessore culturale della Mittle-Europa, nella sua funzionalità, nei valori civici della Rivoluzione francese, nel pensiero filisofico che ha sotteso tutti questi momenti della storia europea, nel modello sociale, di impronta umanistica, che ha fatto dell’Europa, nell’ attuale momento storico, una delle regioni più civilizzate del mondo.  Un modello sociale che non è un fatto casuale ma una priorità collettiva, radicata nella coscienza popolare europea perché costituisce il risultato di un cammino percorso, già insieme.

4. Un cittadino per l’Europa.

Dopo aver realizzato le frontiere esterne, il mercato interno, messo in opera la politica commerciale,  la politica agricola, la politica regionale, la moneta unica e quant’altro, l’integrazione europea non progredirà  ulteriormente,  resterà un fatto economico e commerciale, niente di più di un grande mercato, se non si affronteranno le questioni vitali che costituiscono la colla del vivere e del divenire insieme. La questione  linguistica e culturale, quella dell’istruzione dei giovani, devono essere affrontate e risolte con uno spirito comunitario, che prescinda dalla strategia di dominio di una sola lingua e della sua cultura su tutte le altre, e nell’ottica di disegnare il profilo linguistico e culturale del cittadino europeo. Un’ Europa unita senza un autentico cittadino europeo, che non sia la semplice giustapposizione delle nazionalità esistenti, è una pura utopia. L’Europa ha la necessità urgente di una vera e propria politica linguistica e culturale, slegata dalla propaganda imperialistica della lingua unica e dalle deviazioni della globalizzazione, rispettosa delle realtà europee.

5. La pubblica istruzione.

L’Europa ha bisogno di una pubblica istruzione che, pur  rispettando le specificità di livello nazionale, sia oggetto di concertazione e di accordi, a livello di Comunità Europea, coinvolgendo le istituzioni nazionali e europee, per quanto concerne lo studio delle lingue, antiche e moderne, della storia e della filosofia, delle civiltà dalle quali discendiamo. Questo tipo di concertazione deve aver luogo tra i Paesi Membri dell’Unione impegnati nel progetto di integrazione e non sotto l’egida di organizzazioni internazionali di più ampio raggio che mirano a politiche e risultati diversi e non sempre convergenti con le tradizioni e con l’esigenza di coesione culturale dei Paesi dell’Unione Europea.

La pubblica istruzione non deve servire a preparare e a mettere sul mercato un “prodotto pronto”,  per soddisfare i bisogni delle multinazionali, come sembrano credere certi Ministri della Pubblica Istruzione, che hanno reso obbligatorio lo studio dell’inglese per i bambini, a partire dalla prima elementare. La scuola è fatta per formare, per insegnare ai giovani a ragionare con la propria testa, ad  affrontare la vita, ad assumere responsabilità, sul piano umano e professionale, ad essere dei buoni cittadini e a saper fare, al momento opportuno, le scelte giuste nell'interesse generale.

Il fatto che in Italia si voglia far studiare l'inglese ai bambini, dalla prima elementare in poi, è una fatto sconvolgente, una vera catastrofe nazionale. Ai bambini italiani, a tutti i bambini europei, bisogna far studiare anzitutto la propria lingua madre che costituisce un fattore strutturante fondamentale, del pensiero e dell’identità la più profonda. In seguito, il Greco e il Latino che sono  lingue formative che ancorano il fanciullo alle radici della civiltà nella quale è destinato ad evolvere, non una lingua “usa e getta” che veicola essenzialmente i valori del capitalismo, del mercantilismo, del profitto e del colonialismo economico e culturale.  L'inglese, in cosí giovane età, può rovinare, per sempre, la "forma mentis" dei bambini italiani, l'approccio logico e rigoroso che ci viene dal latino e sconvolgere il modello culturale italiano che ci ha reso celebri in tutto il mondo e fa parte del nostro patrimonio comune.

6. Il mondo del lavoro dei giovani europei.

Il servilismo, nei confronti del potere economico dominante, non solo, è deleterio per la formazione dei giovani e per la sopravvivenza della nostra civiltà ma non è neanche un investimento saggio per l’avvenire dei giovani, per il loro inserimento nel mondo del lavoro. Non si può prescindere dal fatto che il nostro mondo più vicino, destinato ad entrare sempre di più nel nostro quotidiano, è l'Europa, in seno alla quale, ci sono lingue più importanti  e, soprattutto, più formative dell'inglese.  Inoltre, non c'è nessuna garanzia che gli Stati Uniti avranno, tra venti anni, lo stesso peso che hanno oggi a livello mondiale. La storia ci insegna che tutto ha un fine: è crollato il muro di Berlino, l'URSS non esiste più, il nazismo, per fortuna, lo vediamo solo al cinema, non si vede perché l'imperialismo americano dovrebbe essere eterno.

I giovani devono pensare a un inserimento culturale adeguato nel loro mondo, nel mercato del lavoro europeo, in quell'Europa che costituisce il loro futuro. I giovani Italiani che vorranno andare ad esercitare la loro professione a Berlino, a Parigi, a Monaco, a Madrid a Barcellona o a Bruxelles, come faranno a cogliere le opportunità offerte dal mercato se conosceranno solo l’inglese? Come potranno inserirsi nel Paese che sceglieranno per lavorare e per vivere?  Il fatto di non conoscere le lingue di altri Paesi europei può precludere loro molte occasioni.

La Pubblica Istruzione non può avere nei confronti dell’inglese la subordinazione che veniva imposta, in altri tempi, alle colonie. E, soprattutto, non può operare scelte che competono al cittadino, all’individuo, secondo inclinazioni e affinità personali. Un tale comportamento è contrario  all'interesse generale dell'Italia, degli Italiani e dell'Europa ed equivale a riconoscere all’inglese delle qualità formative e una supremazia sulle altre lingue che non ha nessun riscontro nella realtà.  Queste qualità formative esistono  ma appartengono al greco e al latino.           

7.  Lingue ufficiali, lingue di lavoro.

I Padri fondatori della Comunità Europea avevano compreso l’importanza della lingua nell’ambito del processo di integrazione,  le cui istituzioni hanno una missione e delle prerogative che non possono essere assimilate a quelle di una qualsiasi organizazione internazionale. Per questa ragione, nell’ambito del primo atto ufficiale della Comunità Europea, il Regolamento N° 1/ 58, ispirandosi ai Trattati fondatori, ha confermato  che tutte le lingue sono lingue ufficiali e lingue di lavoro delle istituzioni europee. Del sistema plurilinguistico s’era fatto, peraltro, una delle priorità del processo di integrazione e del funzionamento istituzionale dell’Europa.

Per adempiere a questa missione le istituzioni  europee si erano dotate di servizi linguistici di alto livello che, prima di assumerli in forma stabile, si preoccupavano di formare i funzionari-linguisti alla specificità e alla tecnicità delle materie trattate e miravano a un continuo miglioramento e specializzazione professionale. Tutti i servizi operativi e tecnici delle istituzioni, in particolare quelli della Commissione che è l’organo di elaborazione delle politiche communitarie, erano formati da unità composte da funzionari di nazionalità rigorosamente e sapientemente diversificate. Le unità erano organizzate, in modo tale da poter utilizzare quotidianamente, e secondo le necessità, tutte le lingue ufficiali.  I funzionari venivano incoraggiati ad apprendere le diverse lingue ufficiali, mediante l’organizzazione di corsi ad hoc, soggiorni negli Stati Membri e altre facilità.


8. L’effetto delle successive adesioni.

Tutto è andato bene fino a quando, sotto la spinta della globalizzazione, da un lato, e delle  priorità di certi nuovi Stati Membri, dall’altro, l’inglese ha cominciato a pretendere al ruolo di lingua unica.

L’adesione di certi Paesi nordici, realizzata in maniera affrettata e sprovvista dell’ oculatezza necessaria per la salvaguardia del modello originale dell’Europa comunitaria, è stata una manna per gli anglofoni e per i fautori della lingua unica ma ha costituito un vero problema in vista del consolidamento di un’identità europea rispettosa e responsabile della diversità linguistica e culturale che le è propria. Si tratta sovente di un approccio tipico dei piccoli Paesi, i quali,  in mancanza di un mercato interno adeguato per permettere la produzione, in lingua nazionale e a fini nazionali, di tutte le espressioni della cultura, dal cinema all’editoria, dalla musica ai programmi televisivi, sono stati inglobati, da decenni, nell’area della cultura anglo-americana che è diventata una loro seconda natura, anche grazie a un tessuto culturale di base, sotto certi aspetti, affine e compatibile.

In seguito, l’adesione in massa dei Paesi dell’Est, realizzata ancora più affrettatamente di quella dei Paesi nordici, che ha visto l’instaurarsi di una regia occulta che ha imposto l’inglese come unica lingua per i negoziati, nonostante il fatto che molti di questi Paesi conoscessero meglio il tedesco o il francese e, in alcuni, casi avessero anche manifestato la preferenza per queste lingue, ha reso la situazione ancora più complessa. Da parte sua, la Commissione, invece di impegnarsi ad ancorare i propri Servizi a un plurilinguismo effettivo, divaga e perde tempo.

Arrivati in Europa, su un piano di parità, non sempre compatibile con le dimensioni del Paese e con le regole della democrazia, molti di questi Paesi, per diverse, infondate, ragioni, pretendono  di imporre la scelta dell’inglese, che previa un’analisi sommaria considerano una scelta obbligata, ai grandi Paesi europei, agli Stati Membri fondatori, abituati da decenni a un sistema multililingue, con una ostinazione senza remore e una incredibile mancanza di rispetto nei confronti di milioni di cittadini europei che la loro scelta discrimina.  Lo spirito contabile che aleggia sulle istituzioni europee e che ha sostituito il fiuto politico, non permette loro di  vedere i limiti e i rischi di questa scelta e del progetto che la ispira.


9. La strategia della lingua unica.

In questo contesto, e grazie a un’orchestrazione molto abilmente messa a punto, all’interno dell’ Amministrazione Pubblica Europea come all’esterno, facendo leva sulla diplomazia, sulle Rappresentanze Permanenti, sui politici e sugli organi di governo degli Stati Membri, mediante lo sbandieramento di criteri di  carattere economico e di bilancio, peraltro totalmente infondati, le istituzioni europee sono state prese d’assalto dalla strategia  della lingua unica.

Per il momento, in seno alla Commissione Europea, c’è in atto un sistema a tre lingue che si vorrebbe far adottare ufficialmente e che mira, a termine, all’adozione di una sola lingua.  Questo sistema porta a uno stravolgimento del progetto europeo perché solo i Paesi che riusciranno a conservare la presenza attiva della propria lingua riusciranno a impregnare l’Europa della loro cultura e della loro identità.

Se è vero che lavorare costantemente in ventitre lingue può creare qualche difficoltà, è altrettanto vero che costruire l’Europa ha un prezzo che, se non vogliamo mettere a rischio il progetto di unione, dobbiamo pagare, soprattutto alfine di evitare di creare cittadini di prima e di seconda categoria.  E’ necessario trovare un “modus vivendi” che può essere anche a geometria variabile, un sistema fondato su criteri democratici, su parametri obiettivi, univoci ed espliciti che tenga conto, tra l’altro, del peso demografico delle lingue europee, le qualidevono essere usate e valorizzate anche come strumento per raggiungere e coinvolgere i milioni di cittadini europei nel progetto di integrazione. E’ indispensabile costruire un sistema che valorizzi la diversità linguistica e culturale dell’Europa, che miri a protegerla e a conservarla.

Al contrario, sotto l’influenza delle strategie messe  in opera da Neil Kinnock, attuale Presidente del British Council, all’epoca in cui era membro della Commissione Europea, responsabile dei dervizi linguistici, informatici e amministrativi, la Commissione divaga, va fuori dal seminato, e segue un cammino tracciato da ideologie estranee all’interesse generale e ai valori dell’Europa, senza porsi domande.

Invece di darsi da fare a ricostituire i servizi linguistici smantellati da Neil Kinnock e, in parte, esternalizzati, a mettere in funzione un sistema informatico degno di una Comunità multilingue, a predisporre un’informazione plurilingue per i cittadini europei, in grado di raggiungerli e di coinvolgerli nel progetto di integrazione dell’Europa, invece di preoccuparsi di rivedere la legittimità nella scelta delle lingue di procedura, la legalità e l’efficacità del sistema linguistico applicato ai concorsi per l’assunzione di funzionari che si fanno in sole tre lingue, invece di turbarsi per la qualità dei testi originali che diventano sempre più scadenti perché sempre meno funzionari sono autorizzati a redigere nella propria lingua, i signori Commissari perdono tempo e si occupano in priorità di questioni secondarie quali le lingue minoritarie, i dialetti e le lingue degli immigrati.

L’adozione della lingua unica comportrebbe, a termine, la costruzione di un modello europeo ispirato a una sola cultura. Questo sistema, come d’altra parte già accade troppo spesso, fa si che molti Paesi, l’Italia in primis,  invece di mandare, alle riunioni, il tecnico specializzato sull’argomento all’ordine del giorno, mandano il funzionario più o meno factotum che parla l’inglese con tutte le consequenze nefaste che questo comporta.

L’integrazione europea è un affar serio, un processo che in pochi anni può cambiare, a loro svantaggio, i connotati dei Paesi poco attenti. Per questo, richiede preparazione, attenzione, presenza, quotidiane e costanti, e la doverosa determinazione, per coloro che ci rappresentano di salvaguardare le nostre tradizioni e la nostra identità non già in un semplice e meschino interesse nazionalistico ma per metterle a disposizione della qualità della vita di tutti gli Europei. 

10. La nascita delle lingue di procedura.

Il risultato più evidente della strategia della lingua unica è stato che la Commissione, al suo interno, è stata investita, alcuni anni fa, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, di una proposta emanante dal Presidente in carica, di adottare l’inglese come unica lingua di lavoro.

A seguito delle proteste congiunte dei Ministri degli Esteri di Francia e Germania, la Commissione ha ripiegato su tre “lingue di lavoro”, francese, tedesco, inglese, senza giustificare, istituzionalmente, questa scelta e enunciarne  i criteri di discriminazione.  Non potendo, tuttavia, definirle ufficialmente “lingue di lavoro” per non essere in palese contraddizione con i testi fondatori, che definisco lingue ufficiali e lingue di lavoro tutte le lingue ufficiali degli Stati Membri, le ha chiamate “lingue di procedura”. Vale a dire lingue usate per adottare un testo del Collegio via la “procedura scritta” che è una delle prassi interne alla Commissione.

11. Riunioni tecniche senza l’interpretazione.

Il Consiglio di Ministri ha fatto anche di peggio autorizzandosi, da un giorno all’altro, a tenere molte riunioni, in particolare quelle di livello tecnico che sono le più delicate, in due sole lingue, inglese e francese, spesso anche senza l’ interpretazione, da e verso queste due lingue, obbligando i presenti a una conoscenza approfondita di entrambe, salvo fare solo atto di presenza. Tenuto conto della sua arbitrarietà questa decisione è stata presa brutalmente con il solo accordo dei Rappresentanti Permanenti, i quali, tra i loro poteri non detengono quello di cambiare, da soli, Regolamenti e testi fondatori. Una decisione presa alla chetichella, senza informarne preventivamente il personale coinvolto nelle riunioni e in assenza di qualsiasi preparazione ad hoc per gli stessi funzionari delle istituzioni europee, abituati tradizionalmente a poter disporre di un servizio di interpretazione e di traduzione ampio e accurato.

Non è facile spiegare ai non addetti ai lavori i danni irreparabili che tali decisioni comportano per la difesa e la presa in conto degli interessi  nazionali e per la partecipazione effettiva di tutti gli Stati Membri al processo di integrazione in corso. Le decine di riunioni, di carattere tecnico, che si tengono ogni giorno, in seno alle istituzioni europee, non permettono una partecipazione effettiva ed efficace degli esperti degli Stati Membri se non prevedono la possibilità di esprimersi nella propria lingua e di disporre dell’interpretazione verso la propria lingua alfine di comprendere, nei dettagli, la materia trattata e la posta in gioco.

E’ necessario insistere su questo punto: questo tipo di riunioni che, ripeto, si tengono a decine ogni giorno a Bruxelles, a Lussemburgo, a Strasburgo e un po’ ovunque, trattano di agricoltura, commercio, concorrenza, coperazione, finanze, trasporti, energia e quant’altro,  non si tratta di discussioni di carattere generale ma di concertazioni di carattere altamente tecnico e specializzato che producono decisioni con un impatto diretto sui vari settori dell’economia degli Stati Membri e sui cittadini. Una mancanza di presenza attiva, una distrazione, possono costare carissime a un intero Paese e soprattutto a tutti i cittadini europei. 

E’ cosi che, per una “distrazione” dei Paesi dell’Europa mediterranea, i Belgi, gli Olandesi e i poveri Italiani, Greci e Spagnoli che vivono in questi Paesi si ritrovano a dover mangiare pomodori, peperoni, melanzane, zucchine e altre verdure, coltivate con  l’idrocultura nelle serre dell’Olanda e del Belgio.  Le verdure che sono i frutti del sole del Mediterraneo che il sole non lo hanno mai visto e del prodotto originale hanno conservato solo il nome.

E’ cosi che l’industria dei forni elettrici di un Paese, che non voglio nominare, è quasi riuscita a far eliminare, in Italia, i forni a legna, per cuocere la pizza che secondo uno studio di “esperti indipendenti” risultavano poco igienici.

E’ cosí che i programmi di istruzione e di studio vengono deviati subdolamente verso forme alleggerite, più pratiche, nozionistiche, orienate verso l’informazione piuttosto che verso la formazione, non congeniali al nostro profilo storico-culturale perché castigano lo spirito speculativo che è all’origine del pensiero e della creatività della civiltà europea. E’ cosi che l’italiano sta scomparendo poco a poco dal quotidiano delle istituzioni europee.

12. Europa alla deriva.

La realtà è che, in queste condizioni, l’Europa è alla deriva, prigioniera di un manipolo di attivisti che ne deturpano le sembianze e ne forgiano un futuro controverso e nefasto perché non rispettoso della sua identità multiforme e policroma. La verità è che gli Europei sono stati derubati del loro progetto di integrazione.

L’integrazione europea sta trasformandosi in uno strumento di potere della globalizzazione delle multinazionali e di oppressione dei popoli,attraverso le scelte tecniche, commerciali, agricole, amministrative che ci vengono dettate da potenze estranee, direttamente e via diversi e molteplici mecanismi. Tra questi, le organizzazioni internazionali ad hoc, le lobbies delle multinazionali infiltrate ovunque, le società di consulenza che forniscono, a getto continuo, i famosi “esperti indipendenti” i quali hanno stravolto e stanno stravolgendo l’apparato amministrativo delle istituzioni europee e degli Stati Membri, tra l’altro, attraverso le schedature che, con il pretesto del del terrorismo,  sono sempre più diffuse e invadono tutti gli aspetti della vita civile.

L’integrazione europea sta trasformandosi in un baraccone informe  le cui competenze diventano sempre meno compatibili con la carenza di democrazia, con la mancanza di servizi adeguatamente organizzati e strutturati, per assicurare la partecipazione attiva di tutti i cittadini e di di tutte le parti interessate, al concepimento della nuova Europa che si costruisce, giorno dopo giorno. Competenze  incompatibili con l’assenza della trasparenza e dell’imparzialità necessarie a questo tipo di progetto che vede in gioco Paesi, valori e interessi di grande disparità.

13. Lingua di comunicazione e lingua di concezione.

Tenuto conto della natura “sui generis” ,unica al mondo, delle istituzioni europee, esiste molta confusione in fatto di lingue e quanto alla necessità di avere “una” lingua di comunicazione. In realtà, come già messo in evidenza, non essendo una organizzazione internazionale ma un apparato politico-amministrativo che, sotto molti aspetti, è del tutto paragonabile a quello di uno Stato, l’Europa ha bisogno di lingue di concezione.

Gli anglofoni e gli anglofili hanno messo in circolazione quest’idea  della “lingua franca” , la più pratica, la più facile, quella che ci è comune, c’è addirittura uno slogan che farnetica più degli altri, definendo l’inglese come “il nuovo latino”. I pretesti che si accampano sono quelli dell’economia, dell’efficienza, della razionalità, della credibilità delle istituzioni, si pretende di voler  evitare la babelizzazione delle istituzioni europee. In realtà si tratta solo di slogans senza alcun fondamento, spesso in totale contraddizione con la realtà dei fatti, che non reggono a nessun esame, sotto qualsivoglia profilo, messi in circolazione da una propaganda di bassissimo livello che mira solo al dominio economico e culturale dell’Europa. L’uomo della strada, a cui non va di informarsi e di fare lo forzo di ragionare con la propria testa, ripete tutto ciò a pappagallo, si crea cosí una corrente, non già di pensiero ma di luoghi comuni, sulla questione linguistica che non ha niente a che fare con le esigenze e con la réaltà dell’Europa e delle sue istituzioni.

Al dilà dei problemi di diritti umani e di democrazia, che non voglio prendere in esame in quest’ambito, restando al semplice livello dell’efficienza e della credibilità, la realtà è che l’Europa per costruirsi e per crescere, per conservare la sua identità, per rimanere un punto di riferimento della civiltà occidentale e la Patria comune di tutti gli Europei non ha bisogno di “una” lingua di comunicazione ma, anzitutto, di molteplici lingue di concezione e di comunione.L’Europa non può essere “pensata” in una sola lingua perché l’unilinguismo non le permetterebbe di conservare la sua identità. La sfida alla quale siamo confrontati non è quella di scegliere una lingua di comunicazione per l’Europa ma quella di trovare un sistema per far coesistere e convivere armoniosamente la sua ricchezza e la sua diversità linguistica e culturale.

Anna Maria Campogrande
Novembre 2007 

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