martedì 21 febbraio 2012

Intervista a Manuel Olivares sul magazine on line "Spirito Libero".

Manuel Olivares è uno scrittore che viaggia da anni nel mondo raccogliendo le esperienze e testimonianze più disparate e facendone tesoro nei suoi libri. In questa intervista, racconta in sintesi la sua esperienza, divenuta ormai esperienza di vita: dai primi viaggi in Europa poco più che adolescente, fino a giungere ad oggi (anzi a ieri…), rispondendo alle nostre domande dal nord della Thailandia.
Esperto e studioso del fenomeno degli eco-villaggi, ha scritto diversi libri sull’argomento e, con nostra grande soddisfazione, ha anche accettato di collaborare con Spirito Libero Mag, curando una rubrica specifica sulle comuni in tutto il mondo che sempre più stanno attraendo ad un nuovo e diverso stile di vita migliaia e migliaia di persone.

A quanti anni hai iniziato a viaggiare e qual è stata la spinta iniziale?

Ti rispondo citando un passaggio di un mio scritto per la raccolta L’olfatto tra storia, scienza ed arte. Il titolo dello scritto è L’odore del viaggio:

«ho iniziato ad amare la dimensione del viaggio sul finire delle scuole superiori, vivendo i primi inter-rail, viaggiando ― zaino in spalla e sacco a pelo — con un economico biglietto ferroviario, valido per un mese, nell’Europa intera.
Sin da allora compresi, in tutte le mie cellule, le enormi potenzialità del viaggio per innestare un processo espansivo della coscienza. Dunque non solo, banalmente, le potenzialità formative ma quelle psichiche, antropologiche e di “crescita integrale”».

La spinta iniziale era un desiderio allora confuso di “viverealtrimenti”, un desiderio di conoscenza più che, forse banalmente, di curiosità. C’era poi, soverchiante, la ricerca di libertà, una ricerca di cui non mi sto, paradossalmente, riuscendo a liberare neanche in età adulta. La mia dimensione esistenziale è, difatti, nomadica. Insieme a me è cresciuto lo spazio in cui mi muovo. Se, allora, alla fine del liceo, mi muovevo tra Parigi, Berlino, Amsterdam e Copenaghen, oggi mi muovo tra Fabrica di Roma (in provincia di Viterbo), Londra, Varanasi (India), Kathmandu, Colombo e Chiang Mai (in Thailandia, da cui sto scrivendo ora).
Durante un piccolo meeting tra amici, quest’ultimo capodanno, a Londra, ho avuto un momento di profonda commozione. Abbiamo difatti scoperto, su You Tube, un video del brano, di Fabrizio De Andrè, Khorakhanè, inserito nell’ultimo suo album: Anime Salve. È quel brano in cui lui canta di un’etnia di rom musulmani, originari soprattutto del Kosovo. Il termine sta per “lettori del Corano”.
Credo che molti di coloro che stanno leggendo abbiano presente il brano. L’ultima parte è cantata in lingua Khorakhanè da Dori Ghezzi. Pochi hanno letto la traduzione di quel canto etnico:
poggerò la testa sulla tua spalla
e farò un sogno di mare
e l’indomani un fuoco di legna
perchè l’aria azzurra diventi casa.
Chi sarà a raccontare?
Chi sarà?
Sarà chi rimane.
Io, seguirò questo migrare,
seguirò questa corrente di ali.
Credo sia un brano che racconti in grande semplicità e, tuttavia, profondità una certa essenza del nomadismo. Una coscienza espansa, una famigliarità con elementi diversi, incontrati e vissuti nel proprio migrare. Una dimensione esitenziale della casa del tutto mobile, versatile. La stessa aria azzurra, se si viene riscaldati da un fuoco di legna, può essere vissuta come “propria”, temporanea intimità domestica. E poi il dilemma di come condividere il proprio essere, i racconti con i propri simili. Il sollievo nella consapevolezza che il racconto non si disperderà, che le memorie rimarranno salde e che ci saranno dei “guardiani delle stesse”. Questi, saranno coloro che rimangono, gli stanziali, coloro che offrono rifugio sicuro ai nomadi, in cambio di storie, echi di posti lontani, in buona parte sconosciuti. Il nomade, invece, non potrà che seguire il proprio bisogno, insopprimibile, di migrare. Di migrare non necessariamente in solitudine, seguendo un grande flusso esistenziale, una corrente di ali, dispiegate in uno spazio ampio e, tuttavia, con tante espressioni di famigliarità, nel momento in cui il nomadismo diventa uno stile di vita che stratifica nel tempo. A chi pensa che il nomade non abbia radici posso rispondere che, invece, ne ha tante e diversificate, in tanti posti, culture e dimensioni esistenziali differenti.
Quel brano di Khorakhanè mi ha aiutato a sciogliere un nodo che mi portavo da giorni: ritornare o non ritornare in India. La tentazione era di sedentarizzare a Londra ma qualcosa mi diceva che non era la cosa giusta da fare, almeno in quel momento. La risposta è arrivata, semplice ed immediata: seguirò questo migrare, una corrente di ali di cui sentivo la fragranza; la stavo cogliendo nei progetti di amici e conoscenti che stavano organizzandosi per svernare in India e nella consapevolezza che altri amici mi aspettavano in Thailandia. Non restava altro che organizzare gli aspetti pratici della partenza e, semplicemente, andare.
Spero di aver risposto in maniera soddisfacente alla tua domanda, pur con qualche divagazione, proiettandomi nell’oggi. E tuttavia, oggi riesco solo a comprendere meglio la spinta iniziale di cui mi chiedevi. Allora era in nuce, oggi è vita quotidiana.

Quanti eco-villaggi hai visitato e perché questa tua grande passione al riguardo?

Torniamo sempre al desiderio di “viverealtrimenti”. Scoprii la vita comunitaria nella seconda metà degli anni ’90, in una “giovane” comune scozzese. Ero lì a fare il volontario con lo SCI (servizio civile internazionale). C’era un piccolo nucleo di persone che stavano recuperando alcune vecchie case in pietra. Trovai in quel posto, in quelle persone, una grande libertà interiore, la capacità profonda di vivere il proprio essere degli eccentrici, dei diversi, con uno spirito di profonda accettazione. Era anche molto divertente vivere una dimensione di famigliarità (si mangiava insieme, si usavano gli stessi servizi, si lavorava e “delirava” assieme; si diventava familiari per forza) con persone conosciute da poco, che parlavano una lingua diversa ed erano nate e cresciute in un posto molto diverso dal mio.
Colsi subito lo “spirito comunitario”, quello che ho poi ritrovato, in molte varianti, in esperienze comunitarie diverse, in Italia e nel mondo. Individuai, sin da allora, quella che può essere considerata una sorta di costante comunitaria, la sensazione per cui dovunque si è, nel momento in cui si è in una comunità (gli ecovillaggi sono comunità ecosostenibili ma, prima di tutto, comunità), ci si sente a casa. È stata una scoperta straordinaria, in certa misura molto tranquillizzante. Ho difatti compreso che non è indispensabile conquistarsi faticosamente un proprio spazio vitale da difendere con i denti dagli intrusi. Piuttosto, che se si impara a vivere in comunione con i propri simili ci si può sentire a casa ovunque (un po’ come il Khorakhanè che, nel momento in cui si scalda davanti al fuoco, si sente profondamente a casa anche se la sua casa, in quel momento, manca addirittura di pareti o, meglio, ha pareti impalpabili, di aria).

Ho visitato molte comunità intenzionali ed ecovillaggi, in Italia, in Danimarca, in Scozia (anche la mitica Findhorn Foundation) e poi in India, in Thailandia, in Sri Lanka. In particolare in Sri Lanka ho ritrovato felicemente la costante di cui ti parlavo. Ero lì per ragioni di visto, me ne serviva uno nuovo per l’India e ne ho approfittato per visitare Sarvodaya, un’importantissima esperienza comunitaria di matrice gandhiana e buddhista. Le pratiche per il visto andavano per le lunghe ma io ho iniziato presto a non vivermele più con ansia (anche se in India avevo lasciato la mia donna). Ero a casa, c’era la famosa costante. Gli srilankesi sono molto diversi da noi ma le persone a Sarvodaya non erano srilankesi qualunque. È stata un’esperienza molto intensa quella che ho vissuto, per tre mesi, a Sarvodaya, in quell’umiltà a volte carezzevole, a volte troppo vera per non correrne via, come ho scritto in una mia poesia.

Dopo aver lasciato “l’isola folle”, per usare l’epiteto con cui la qualificava Terzani (lo Sri Lanka ha dei lati oscuri quasi irraccontabili) ho lasciato che l’esperienza a Sarvodaya nidificasse dentro di me. È stata un’esperienza di grande valore umano. Credo di essermi avvicinato, proprio lì, agli insegnamenti del Buddha, in parte li vedevo, quotidianamente, farsi carne. A volte dovevo fuggire a Colombo, ritrovare il sapore del mondo ma era poi, bellissimo, “tornare a casa”, in una stanzetta povera, sotto una zanzariera bucata. Non ho potuto non tornare, dopo 8 mesi di assenza, in Sri Lanka ed a Sarvodaya. La prima persona che ho riabbracciato è stata Dayakkha, una donna semplicissima che faceva le pulizie (anche se Sarvodaya è una realtà comunitaria e filantropica mantiene comunque la tendenziale cultura gerarchica di cui è impregnata l’Asia). Mi lavava regolarmente i vestiti ed io in qualche modo rappresentavo una sorta di virus, in quel posto, perchè le davo cifre quasi irragionevoli per quel servizio. Dormiva in camera con altre persone molto semplici, non avevano praticamente nulla ma aveva uno sguardo estatico, uno di quegli sguardi che si possono trovare quasi solo in Oriente. In una giornata uggiosa vidi il suo viso diventare radioso quando il sole fortissimo dello Sri Lanka stava squarciando le nuvole: sun is coming, mi disse nel suo inglese poverissimo.Si alzò alle quattro di mattina per salutarci, il giorno della nostra partenza. Le avevo lasciato qualche soldo e lei voleva per forza che portassi qualcosa di suo con me. Mi regalò una semplice statuetta di un elefante che utilizzava come fermacarte. Era una delle poche cose che aveva. Al mio rientro, la trovai nell’ufficio della sezione internazionale. Fu un reincontro molto bello. Come scrissi nel mio libro Barboni sì ma in casa propria, l’ho baciata senza riserve d’affetto.

Quali sono, in sintesi, le origini e motivazioni storiche della nascita di questo fenomeno che sempre più si sta allargando nel mondo?


Le primi in ordine storico sono motivazioni di natura religiosa. Non a caso i primi comunitari della storia sono stati gli esseni: una setta religiosa del secondo secolo A.C., attiva in Palestina che aveva probabilmente assimilato elementi pitagorici e buddisti. Su di loro scrisse lo storico romano Flavio Giuseppe. Li presenta come i primi “comunisti” della storia. Comunisti dal volto umano.
Anche in ambito protestante sono sorte molte esperienze comunitarie, che hanno soprattutto attecchito in America dove sono, in parte, ancora attive.
Al filone religioso si è affiancato, a seguito della rivoluzione industriale, il filone utopico, di teorici come Owen, Cabet e Fourier generalmente definiti “socialisti utopisti”.
Nel novecento ha preso corpo il filone esistenziale e rivoluzionario, iniziato con la Beat Generation e proseguito nel movimento hippy e in alcune frange degli ambienti politicizzati e, infine, il filone propriamente ecologico.
Questo non significa che i filoni precedenti si siano esauriti. Al filone religioso se ne è affiancato un altro che potremmo definire, più genericamente, “spirituale”, venuto in particolare alla luce con la nascita del New Age (che alcuni sociologi, ad esempio Massimo Introvigne, riconducono alla data di fondazione della comunità di Findhorn Foundation, in Scozia) mentre le stesse motivazioni politiche continuano, a loro volta, ad innervare la dimensione comunitaria.

Faresti alcuni nomi delle realtà che  in giro per il mondo stanno funzionando meglio e quali sono le motivazioni di base?

Partendo dall’Italia mi sembra che le esperienze elfiche stiano avendo un successo crecente, in virtù di una sostanziale semplicità e, tuttavia, pregnanza della loro organizzazione. Esperienze storiche come la Comune di Bagnaia o relativamente più recenti come Torri Superiore, stanno senz’altro reggendo bene alla prova del tempo. Damanhur, in Piemonte, è anche una realtà in crescita che mantiene buoni rapporti con il circuito comunitario internazionale. È senz’altro l’esperienza comunitaria italiana più complessa e può rappresentare, dal punto di vista organizzativo, un buon modello di riferimento (non entro nel merito degli aspetti esoterici perché non ne sono sufficientemente a conoscenza). Nel mondo, Findhorn Foundation in Scozia ed Auroville in India sono esperienze che chiunque, interessato a dimensioni comunitarie che si impernino sulla necessità di un risveglio spirituale, dovrebbe visitare.

Che consiglio daresti a chi – gruppo piccolo o grande che sia – vorrebbe prendere la decisione di iniziare un progetto di vita in comune?

Innanzitutto di non prendere una decisione del genere alla leggera perché è senz’altro impegnativa. In secondo luogo di non stancarsi di girare, raccogliere dati ed informazioni presso coloro che vivono da tempo un’esperienza di tipo comunitario. Il mondo comunitario è molto eterogeneo, si possono considerare molte formule dunque bisogna essere, possibilmente, accurati e prudenti nelle osservazioni e nelle scelte.

E ad una persona che vuole andarci a vivere?…

Di iniziare a fare esperienze comunitarie senza tagliarsi i ponti alle spalle. Potrebbe cambiare idea. Prima di prendere decisioni particolarmente impegnative consiglio un rodaggio di almeno uno o due anni.

Qual è il tuo libro che maggiormente ti rappresenta e ci puoi dare un cenno sul tuo prossimo lavoro?


Il mio libro più personale è senz’altro Barboni sì ma in casa propria ma lo considero una sorta di lavoro, in buona parte, giovanile. Sono molto soddisfatto del mio ultimo lavoro: Con Jasmuheen al Kumbha Mela in cui parlo di quello che credo sia stato il mio percorso spirituale fino ad oggi e, oltre a parlare ovviamente di Jasmuheen (una donna australiana pioniera dell’alimentazione pranica; non assume cibo solido, a parte rare eccezioni, da circa 16 anni) e del Kumbha Mela (il più importante consesso religioso in ambito hindu), cerco di raccontare a fondo l’India che ho conosciuto e che, in buona parte, mi ha deluso. Il mio prossimo lavoro è Sadhu sì ma con la rendita. Un romanzo. In due parole, è la storia di un sadhu eccentrico (anche per essere un sadhu, il termine designa gli asceti itineranti, in India, talora completamente autonomi da qualunque ordine religioso e grandi fumatori). È un asceta che ha, tuttavia, una buona rendita e dunque nei momenti in cui si stanca di essere tale, torna nel secolo, da signore (l’impianto del romanzo è, ovviamente, semiserio). Le sue apparenti contraddizioni non scoraggiano uno spiritello scanzonato, Ciarpame Psichedelico, ad arruolarlo per un’impresa improba: il riavvio della ruota del Dharma. Sadhu si presta all’opera e decide di tentare di rimoralizzare ed equilibrare il mondo cavalcando, con le sue eccentricità, gli insegnamenti del Buddha, persuaso che il Buddhismo sarà quel filone religioso che, lentamente e con i suoi modi proverbialmente morbidi e tolleranti, troverà la strada per conquistare il cuore delle genti, per riportarle su un percorso in cui si possano nuovamente onorare i valori del “buono, del bello e del vero”, dialogando con l’anima migliore delle altre tradizioni religiose.
Una prospettiva verosimile oltre che auspicabile che potremmo anche identificare, con uno slogan, con la rivincita di Dayakkha!

Per leggere l'intervista originale, cliccare qui

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