venerdì 16 settembre 2011

Libia ed il gioco delle tre carte - Dopo i bombardamenti NATO e la "liberazione" arrivano gli aiuti per la ricostruzione dal FMI



"FMI: Prima ti bombardo, poi ti libero ed infine ti presto i soldi a strozzo per ricostruire..." (Saul Arpino)

Al termine del G8 di Marsiglia, la neodirettrice del Fondo monetario
internazionale, la francese Christine Lagarde, ha fatto un solenne
annuncio: «Il Fondo riconosce il consiglio di transizione quale
governo della Libia ed è pronto, inviando appena possibile il proprio
staff sul campo, a fornirgli assistenza tecnica, consiglio politico e
sostegno finanziario per ricostruire l'economia e iniziare le
riforme».

Nessun dubbio, in base alla consolidata esperienza del Fmi, che le
riforme significheranno spalancare le porte alle multinazionali,
privatizzare le proprietà pubbliche e indebitare l'economia. A
iniziare dal settore petrolifero, in cui l'Fmi aiuterà il nuovo
governo a «ripristinare la produzione per generare reddito e
ristabilire un sistema di pagamenti».

Le riserve petrolifere libiche - le maggiori dell'Africa, preziose per
l'alta qualità e il basso costo di estrazione - e quelle di gas
naturale sono già al centro di un'aspra competizione tra gli «amici
della Libia». L'Eni ha firmato il 29 agosto un memorandum con il Cnt
di Bengasi, al fine di restare il primo operatore internazionale di
idrocarburi in Libia. Ma il suo primato è insidiato dalla Francia: il
Cnt si è impegnato il 3 aprile a concederle il 35% del petrolio
libico. E in gara ci sono anche Stati uniti, Gran Bretagna, Germania e
altri. Le loro multinazionali otterranno le licenze di sfruttamento a
condizioni molto più favorevoli di quelle finora praticate, che
lasciavano fino al 90% del greggio estratto alla compagnia statale
libica. E non è escluso che anche questa finisca nelle loro mani,
attraverso la privatizzazione imposta dal Fmi.

Oltre che all'oro nero le multinazionali europee e statunitensi mirano
all'oro bianco libico: l'immensa riserva di acqua fossile della falda
nubiana (stimata in 150mila km3), che si estende sotto Libia, Egitto,
Sudan e Ciad.

Quali possibilità di sviluppo essa offra lo ha dimostrato la Libia,
che ha costruito una rete di acquedotti lunga 4mila km (costata 25
miliardi di dollari) per trasportare l'acqua, estratta in profondità
da 1.300 pozzi nel deserto, fino alle città costiere (Bengasi è stata
tra le prime) e all'oasi al Khufrah, rendendo fertili terre
desertiche. Non a caso, in luglio, la Nato ha colpito l'acquedotto e
distrutto la fabbrica presso Brega che produceva i tubi necessari alle
riparazioni. Su queste riserve idriche vogliono mettere le mani -
attraverso le privatizzazioni promosse dal Fmi - le multinazionali
dell'acqua, soprattutto quelle francesi (Suez, Veolia e altre) che
controllano quasi la metà del mercato mondiale dell'acqua
privatizzata.

A riparare l'acquedotto e altre infrastrutture ci penseranno le
multinazionali statunitensi, come la Kellogg Brown & Root,
specializzate a ricostruire ciò che le bombe Usa/Nato distruggono: in
Iraq e Afghanistan hanno ricevuto in due anni contratti per circa 10
miliardi di dollari.
L'intera «ricostruzione», sotto la regia del Fmi, sarà pagata con i
fondi sovrani libici (circa 70 miliardi di dollari più altri
investimenti esteri per un totale di 150), una volta «scongelati», e
con i nuovi ricavati dall'export petrolifero (circa 30 miliardi annui
prima della guerra). Verranno gestiti dalla nuova «Central Bank of
Libya», che con l'aiuto del Fmi sarà trasformata in una filiale della
Hsbc (Londra), della Goldman Sachs (New York) e di altre banche
multinazionali di investimento. Esse potranno in tal modo penetrare
ancor più in Africa, dove tali fondi sono investiti in oltre 25 paesi,
e minare gli organismi finanziari indipendenti dell'Unione africana -
la Banca centrale, la Banca di investimento e il Fondo monetario -
nati soprattutto grazie agli investimenti libici. La «sana gestione
finanziaria pubblica», che l'Fmi si impegna a realizzare, sarà
garantita dal nuovo ministro delle finanze e del petrolio Ali
Tarhouni, già docente della Business School dell'Università di
Washington, di fatto nominato dalla Casa bianca.

Manlio Dinucci

(Fonte: www.ilmanifesto.it)

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